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sabato 27 gennaio 2024

RADICI HITLEROCOMUNISTE DELL’ATTUALE ANTISEMITISMO «DI SINISTRA»

di Roberto Massari


(27 gennaio 2024, Giornata della Memoria)


Il primo hitlerocomunismo

Per «hitlerocomunismo» deve intendersi la corrente di pensiero politico che sorse nell’estate/autunno 1939, quando i totalitarismi nazista e sovietico si allearono per invadere la Polonia e annettere vari paesi dell’Europa orientale, scatenando così la Seconda guerra mondiale. Gli adepti dell’hitlerocomunismo (in Russia e nel resto del mondo) hanno poi approvato tutte le successive invasioni russe (Paesi Baltici, Finlandia, Cecoslovacchia, Afghanistan ecc.) fino a quella odierna dell’Ucraina. Alla base dell’hitlerocomunismo, vecchio e nuovo, vi è l’idea premoderna (per non dire medievale) che la Russia fosse e sia ancora legittimata nel compiere tali annessioni perché eserciterebbe un suo diritto storico riprendendosi i territori appartenuti all’Impero zarista. Questa posizione - reazionaria nel più pieno senso del termine - la si ritrova espressa più o meno inconsapevolmente nelle giustificazioni attuali per l’aggressione putiniana all’Ucraina e varrà ancora per eventuali possibili future aggressioni (a cominciare dai Paesi baltici).

L’alleanza sovietica col nazismo durò da agosto 1939 a giugno 1941: sono i quasi due anni che videro prendere forma definitiva al progetto di sterminio antiebraico, avviato ancor prima del Patto e che sfocerà nella cosiddetta «soluzione finale», sistematizzata nella Conferenza di Wannsee di gennaio 1942. Una delle «necessità» alle quali rispondeva questa scelta estrema del nazismo fu che nella parte di Polonia assegnata al Terzo Reich dal Patto con Stalin vivevano circa 1.700.000 ebrei: una massa di popolazione ebraica che il nazismo intendeva sterminare, secondo progetti e linee guida messe in opera già da tempo, e ben note a Stalin e al gruppo dirigente sovietico.

Per fissare delle date: il primo dei Konzentrationslager di Auschwitz divenne operativo dal giugno 1940, cioè nel pieno della collaborazione tra nazisti e sovietici; quello di Chełmno (considerato il primo lager di sterminio) nel dicembre 1941, cioè sei mesi dopo la rottura del Patto da parte nazista. Questi e altri campi di sterminio polacchi (come Treblinka, Sobibór, Bełżec) cominciarono a operare «tardi» (cioè nel 1942, «Aktion Reinhard») perché la loro progettazione fu possibile solo dopo l’invasione congiunta della Polonia nel settembre 1939; ma la loro costruzione si realizzò nel quasi biennio dell’alleanza con l’Urss: anzi, fu proprio quell’alleanza che li rese possibili. Sarebbe, però, un grave errore di prospettiva storica datare di lì l’inizio dell’Olocausto perché le persecuzioni antiebraiche erano iniziate in Germania negli anni ‘30: il lager di Buchenwald, per es., situato nella Turingia tedesca, era operativo dal luglio 1937.

Insomma, rispetto alla politica di sterminio antiebraico del nazismo, almeno tre cose furono subito chiare a chi voleva vederle allora (o che speriamo voglia cominciare a vederle chiare oggi): 1) Nello stringere il Patto con Hitler, ai sovietici non interessò minimamente il destino degli ebrei in Germania e nel resto d’Europa: delle persecuzoni antiebraiche non parlarono in documenti, atti ufficiali e sulla stampa. 2) I sovietici non ebbero la benché minima esitazione ad abbandonare quasi due milioni di ebrei polacchi nelle mani di chi intendeva sterminarli. 3) La fraternizzazione staliniana col Terzo Reich richiese che anche sull’Olocausto polacco calasse il silenzio stampa (oltre all’avvio della collaborazione delle rispettive polizie nelle consegne reciproche di prigionieri o nelle deportazioni di interi gruppi etnici).

Dopo l’aggressione nazista all’Urss

Si tenga conto che gli ebrei dell’Urss nel loro insieme non furono uccisi nei lager, ma con esecuzioni e fucilazioni di massa, seguite da seppellimenti in grandi fosse comuni. Ma ciò che normalmente si ignora è che dopo l’aggressione tedesca alla Russia (giugno 1941), il silenzio sovietico sulla Shoah non ebbe termine. Esso continuò negli anni del dopoguerra e il regime di Stalin addirittura ostacolò i tentativi ebraici di far luce sia sull’Olocausto in generale, sia sugli sterminî nei territori sovietici occupati dalla Wehrmacht e dalla Gestapo. 

Confrontiamo alcune macabre cifre: in Italia furono uccisi dal nazismo (alleato col fascismo della Repubblica sociale) circa 7.500 ebrei (in quanto ebrei e non perché comunisti o antifascisti). Ed è innegabile che dal dopoguerra ad oggi in Italia è stato fatto molto (e in misura per fortuna crescente) perché non si dimentichi l’orrore dell’accaduto - ivi comprese le responsabilità anche italiane - e si conservi e sviluppi la memoria dell’Olocausto: la cultura, il cinema, le istituzioni, i partiti, la scuola hanno contribuito a far sì che di questa immane tragedia si conservi la Memoria e non vi si pensi solo il 27 gennaio di ogni anno. [Sto scrivendo alla vigilia della giornata della Memoria 2024 e non posso non fremere d’indignazione alla vista di come quest’anno si è tentato d’infangare la Giornata commemorativa da parte di un risorgente hitlerocomunismo italiano, come tra breve dirò.]

In Urss, nelle parti di territorio occupate dai nazisti dopo il giugno 1941 furono uccisi tra i 2,5 e i 3,3 milioni di ebrei. Dati difficili da elaborare e che possono oscillare all’interno di quelle cifre. (Al riguardo vedi tra gli altri l’ottimo libro di Antonella Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah, il Mulino 2007.) Ciò significa che nell’Urss fu uccisa circa la metà delle vittime ebraiche dell’intero Olocausto e più della metà della popolazione ebraica complessiva residente in territori sovietici.


Il silenzio staliniano sull’Olocausto sovietico

Ci si sarebbe quindi attesi uno sforzo culturale e istituzionale da parte del regime sovietico per salvare la Memoria di questo immane Olocausto che in Russia fu circa 400 volte più grande di quello avvenuto in Italia. Ma non fu così: i fumi amari dell’hitlerocomunismo - che avevano portato lo stalinismo a fraternizzare col nazismo, nella convinzione che l’alleanza tra i due imperialismi fosse ormai saldamente consacrata dal sangue dei polacchi e degli altri popoli sottomessi - continuarono ad ammorbare l’atmosfera sovietica per molti anni a venire.

«Lo sterminio degli ebrei non fu oggetto di alcuna speciale pubblicazione. Venne largamente ignorato dalle  monografie sulla Seconda guerra mondiale e ampiamente trascurato nelle sillogi di fonti, così come non trovò quasi posto nei libri di testo per le scuole o nei tradizionali repertori» (A. Salomoni, op. cit., p. 9).

Il primo accenno ufficiale allo sterminio antiebraico che comparve in un documento sovietico è del 19 dicembre 1942, cioè circa 18 mesi (!) dopo l’aggressione nazista all’Urss e nonostante il massiccio afflusso di combattenti ebrei nelle file dell’esercito sovietico che si era verificato nel frattempo.

Dopo quellla modesta interruzione, il silenzio ufficiale riprese a dominare e anzi il regime staliniano fece di tutto per ostacolare le iniziative che gli ebrei sovietici tentarono di intraprendere per denunciare le dimensioni e l’efferatezza dell’Olocausto nei territori dell’Urss. Funzione di un così assordante silenzio era di impedire il sorgere di una nuova coscienza identitaria da parte degli ebrei sovietici, del tutto incompatibile con lo sciovinismo grande-russo del regime staliniano e con la sua politica repressiva di qualsiasi iniziativa che avesse un odore anche alla lontana di extranazionalismo o cosmopolitismo.


La memoria degli ebrei sovietici

Il 24 agosto 1941 c’era già stato l’incontro dell’intellighenzia ebraica sovietica che nel comunicato finale aveva denunciato lo sterminio avvenuto e ancora in corso nei territori occupati. Nella primavera del 1942 - su iniziativa di Solomon M. Michoels (che verrà assassinato su ordine di Stalin nel 1948, a Minsk) e Šachno Epštejn - fu creato il Comitato antifascista ebraico (Eak) col preciso intento di partecipare attivamente alla guerra antinazista come componente etnica riconosciuta, alla pari degli eserciti formati su base etnica da altre nazionalità sovietiche. Ad esso però s’impose d’essere composto solo da ebrei sovietici. Ragion per cui i due dirigenti del Bund polacco (Partito operaio ebraico) - Henryk Erlich e Wiktor Alter - che avrebbero voluto dargli invece una veste ebraica internazionale, furono arrestati e fatti scomparire tra il 1942 e il 1943. Nemmeno l’Eak, del resto, ebbe vita facile proprio perché tendeva inevitabilmente a diventare uno strumento di riscoperta dell’identità ebraica: le sue disavventure meriterebbero un libro a parte.

Un altro libro a parte (ma per fortuna ne sono stati scritti vari) lo meriterebbe la storia del Libro Nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 (Чёрная Кнuга, [Čërnaja Kniga], Mondadori). Nacque da un’idea di Albert Einstein e fu compilato per iniziativa di due grandi e celebri scrittori, entrambi ebrei ucraini: Vasilij S. Grossman (1905-1964) e Il’ja G. Ėrenburg (1891-1967). Grazie alla collaborazione con l’Eak, il volume, di oltre 500 pagine, poté ricostruire una gran parte degli eccidi ebraici compiuti dal nazismo in territori sovietici. Esso rimane una testimonianza storica preziosa e insostituibile.

Il manoscritto ottenne il visto della censura nel 1945 e ciò permise di inviarlo in vari Paesi all’estero (compresa l’Italia), ma in Russia non ottenne mai l’autorizzazione alla stampa. Questo perché il regime stava ormai facendo di tutto per impedire che l’Olocausto in Urss si considerasse una tragedia specifica del popolo ebraico e non parte della più generale aggressione nazista ai popoli sovietici. Insomma, il regime ebbe paura e capì che il Libro nero avrebbe dato alimento alle crescenti tendenze identitarie degli ebrei sovietici.


L’antisemitismo sovietico nell’epoca di Stalin

Il tentativo di cancellare i tratti caratteristici dell’ebraismo (sua storia e cultura nei Paesi del blocco sovietico), si inseriva nella più generale lotta alle influenze straniere e al cosiddetto «cosmopolitismo». Tale lotta era stata avviata da Andrej A. Ždanov con la celeberrima risoluzione approvata dal Cc del Pcus il 14 agosto 1946. Uno dei primi effetti che essa ebbe fu il passaggio del controllo dell’Eak al Dipartimento di politica estera del Cc del Pcus, diretto dal grande epuratore Michail A. Suslov. (Questi, entrato nel Pc russo nel 1921, ne uscirà solo da morto, nel 1982, dopo essersi reso corresponsabile di tutte le nefandezze dello stalinismo di Stalin e dei suoi successori).

Un ruolo non secondario nel fomentare la crescente ostilità del regime staliniano verso l’ebraismo - anche se non esplicitamente dichiarata - lo ebbe anche la paura che emergesse alla luce del sole il fenomeno storico rappresentato dalla collaborazione di ampi settori dei popoli sovietici (soprattutto in Ucraina) che erano passati dalla parte del nazismo sperando in tal modo di liberarsi del regime staliniano. Scelte disastrose e represse nel sangue dall’Armata Rossa, che mostravano però quanto odio si fosse accumulato nei popoli sottoposti al giogo sovietico dopo l’illusione di essersi liberati da quello zarista. La verità non doveva emergere nemmemo a questo riguardo.

C’era poi il problema rappresentato dall’esistenza di una sorta di repubblica sovietica ebraica in Crimea e dal fallimento pratico del tentativo di creare un’Oblast’ autonoma ebraica nel Birobidžan, quasi ai confini con la Cina. Tutte pagine di storia molto complesse che furono manipolate a uso e consumo del regime di allora, ma che in rapporto alla questione ucraina sono ancora utilizzate dalla propaganda russa attuale.

Resta il fatto che in Russia fu vietata la pubblicazione del Libro Nero. Se ne ordinò il sequestro, ma alcune copie si salvarono (contenenti, tra l’altro, la prefazione di Albert Einstein che era stata eliminata). Ne uscirono versioni incomplete all’estero e solo nel 1980 a Gerusalemme fu pubblicata la prima edizione in lingua russa, seguita dall’edizione del 1991 a Kiev. L’edizione del 1994 si deve all’impegno di Irina Ėrenburg, figlia di Il’ja, e nel 2014 il libro è stato ripubblicato in Russia dalle Edizioni Corpus.

Stiamo parlando di un libro che ricostruiva la memoria della morte orrenda di quasi tre milioni di ebrei...


La storia dell’antisemitismo negli ultimi anni della dittatura di Stalin è stata ricostruita più volte ed è talmente documentata che qui non si deve far altro che ricordare alcune tappe. [Tra i lavori migliori, quelli curati da Shimon Redlich, War, Holocaust and Stalinism, Routledge 1995, e da Joshua Rubenstein-Vladimir P. Naumov, Stalin’s secret pogrom, Yale 2001.] Con una premessa riguardo allo storico voto dell’Urss - il 29 novembre 1947 - a favore della risoluzione n. 181 con cui l’Assemblea delle Nazioni Unite decideva la nascita dello Stato d’Israele. Quando il 14 maggio 1948 fu proclamato lo Stato d’Israele, tre giorni dopo l’Urss fu il secondo Stato a riconoscerlo, dopo gli Usa. E quando la Lega Araba iniziò l’aggressione contro Israele, l’Urss aiutò il neo-Stato con armi inviate tramite la Cecoslovacchia.

Si conciliava un simile comportamento con la crescente ondata di antisemitismo staliniano?

Sì, indubbiamente. A parte l’illusione politica di Stalin di poter indebolire in questo modo la presenza ingombrante del colonialismo britannico nella regione mediorientale - e magari attrarre a sé il nuovo Stato, all’epoca ancora attraversato da forti pulsioni socialistiche - c’era anche se non soprattutto la volontà di liberarsi del maggior numero possibile di ebrei in territori sovietici. Si spalancò momentaneamente la porta per l’emigrazione e tutti gli ebrei che vollero recarsi a vivere in Israele furono incoraggiati a farlo. Fu un esodo «biblico-staliniano», animato dal proposito di liberarsi di cittadini sovietici difficili da controllare (come effettivamente si vedrà in tutta la storia della dissidenza sovietica negli anni dopo Stalin), difficili da assimilare e soprattiutto da irreggimentare nei nuovi schemi repressivi richiesti dall’inizio della Guerra fredda. Un segnale di questi pericoli per il regime fu dato dall’inaspettato successo della visita della delegazione israeliana condotta da Golda Meyerson (Meyer) nell’autunno del 1948.


La repressione antiebraica

Abbiamo già ricordato l’uccisione di S.M. Michoels il 12 gennaio 1948. A novembre dello stesso anno furono chiusi il giornale dell’Eak in yiddish (Eynikayt) e l’unica  editrice ebraica sopravvissuta (Der Emes). Si cominciarono a chiudere le sezioni ebraiche dell’Unione degli scrittori, mentre esponenti ebraici della cultura (universitaria, scientifica, culturale ecc.) venivano gradualmente allontanati dai loro incarichi. L’Eak fu sciolto il 20 novembre 1948, mentre iniziavano gli arresti degli scrittori di nazionalità ebraica: la lista è lunga e ormai la si può leggere in libri di seria documentazione e in alcuni siti on-line.

Nell’agosto 1952 - cioè tredici anni esatti dopo il Patto con Hitler - furono processati a porte chiuse dal Collegio militare del Tribunale supremo tutti i dirigenti dell’ex Eak: 15 imputati e 13 condanne a morte. Fu condannata al carcere solo una donna (Lina Štern) e fu trattato a parte il caso di Solomon Bregman, colpito da collasso e morto in prigione nel gennaio 1953. Nonostante la segretezza delle procedure, si seppe che gli imputati erano stati sottoposti al consueto trattamento riservato a chi doveva confessare colpe inesistenti: interrogatori brutali, torture.

Nell’ottobre 1952 cominciarono gli arresti dei cosiddetti «camici bianchi», cioè il «complotto dei medici» accusati di voler uccidere vari esponenti del regime. E poiché molti di costoro erano ebrei, si è sempre pensato che fosse solo il primo passo per una nuova ondata di repressioni antisemitiche. Non se ne hanno prove certe e nessuno è poi riuscito a decifrare cosa avesse in testa «il magnifico georgiano». E questo perché il 5 marzo 1953 il più grande e più longevo dittatore della storia moderna chiuse finalmente gli occhi. Si disse poi che il «complotto» era stato una provocazione dei servizi segreti e alcune vittime del disciolto Eak furono riabilitate.


L’attuale antisemitismo «di sinistra»

Sono già intervenuto sugli aspetti teorici della questione «legittimità dello Stato d’Israele»: si veda in Utopia Rossa la mia «Risposta ad Albertani» del 26 dicembre 2023. Ad essa rinvio, soprattutto per quanto riguarda la definizione dell’antisemitismo come distinto dall’antisionismo. Per semplificare, definivo «antisemita» chi nega il diritto del popolo ebraico a tenere in vita lo Stato d’Israele che le Nazioni Unite gli hanno assegnato 77 anni fa. E delimitavo il mondo dell’antisionismo a chi, pur riconoscendo il diritto all’esistenza di uno Stato democratico israeliano, si oppone al suo carattere confessionale, ai suoi regimi di destra sorretti dalle componenti più fanatiche dell’ebraismo, ai provvedimenti antipalestinesi, al furto di terre in Cisgiordania e tutto il resto. Di questo antisionismo mi sento parte da sempre, avendo anche compiuto una delle esperienze più istruttive della mia vita trascorrendo nel 1966 un periodo di studio e lavoro in uno dei più avanzati kibbutzim dell’epoca (il kibbutz Lahav).

Le questioni teoriche sono più che chiare, per chi vuole studiare, capire e giungere a delle conclusioni compatibili con la realtà attuale dell’esistenza irreversibile di Israele: una democrazia imperfetta (soprattutto perché confessionale) che vede la sua esistenza in continuazione minacciata dalla volontà sterminatrice di alcune entità o Paesi islamici, con l’orrenda dittatura iraniana in prima fila. Nel testo citato definivo il regime dell’Iran un’autentica «vergogna per l’umanità».

Alla chiarezza delle questioni teoriche non corrisponde però altrettanta chiarezza nelle questioni politiche, anche per ragioni emotive: ci sono di mezzo popoli che soffrono, bambini vittime innocenti, bombardamenti di popolazioni palestinesi, missili su popolazioni israeliane, stupri e pogrom antiebraici, dichiarazioni di guerra unilaterali. Mi riferisco all’azione di Hamas compiuta proprio allo scopo di provocare la grave rappresaglia, incurante del male che avrebbe causato al suo stesso popolo.

Ma soprattutto ci sono tanti giovani italiani, europei, nordamericani ecc. che scendono in piazza con passione a manifestare il loro sostegno all’islamismo sterminatore di Hamas, dell’Iran, del Qatar, di Hezbollah e ora anche degli Houti. Non sanno nulla o quasi nulla della questione palestinese, della questione ebraica e del perché si è giunti a tale situazione drammatica. Reagiscono emotivamente alla tragedia di un popolo che soffre, senza stare a chiedersi se ci siano responsabilità della vecchia Lega Araba con la sua prima aggressione nel 1948; se non ci sia stato un cinico gioco da parte del governo sovietico nell’alimentare la politica fallimentare e suicida di Al Fatah/Olp; se gli Stati arabi più ricchi non abbiano altrettanto cinicamente usato la causa palestinese come arma diplomatica o di ricatto commerciale; se sia stato giusto da parte di questi stessi Stati tenere per decenni i profughi palestinesi in campi-ghetto, invece di assimilarli nelle proprie strutture sociali (come invece è avvenuto sia per i 7-800.000 ebrei espulsi dai Paesi arabi, sia per gli arabi rimasti in Israele).

Non si può non vedere, però - soprattutto nel caso italiano, ma non solo - che questi movimenti di giovani manifestanti o membri di gruppi di presunta «estrema sinistra» sono animati per lo più dagli stessi hitlerocomunisti che rifiutano di solidarizzare col popolo ucraino. Hitlerocomunisti - dichiarati o inconsapevoli - che, nella richiesta di arrendersi (camuffata da «pace» o «tregua») rivolta all’Ucraina fin dal primo momento, si schierano inevitabilmente dalla parte degli aggressori, cioè dell’invasione neocolonialistica di Putin. Ora però non chiedono ad Hamas di arrendersi e consegnare gli ostaggi.

Giovani che non fanno più alcuna differenza tra democrazie e dittature, ma anzi sembrano a volte prediligere proprio quest ultime a scapito della loro stessa esperienza di vita, che invece si svolge in paesi imperfettamente democratici o postdemocratici, nei quali essi non accetterebbero nemmeno la più microscopica riduzione dei loro diritti (ignorando tuttavia il come e il quando questi loro diritti sono stati conquistati). C’è una componente razzistica in questo ritenere che la democrazia vada difesa in Italia o in Occidente, quindi per noi stessi, e sia invece superflua per gli altri, i popoli poveri e oppressi. Come è tendenzialmente razzistico approvare gli atti di terrorismo di Hamas e Hezbollah, giustificandoli con la loro arretratezza politica e culturale, mentre in patria si difende - giustamente - fino all’ultimo comma del diritto di sciopero.

Insomma, tra ignoranza e rifiuto della democrazia (per gli altri, insisto) emerge l’immagine di un mondo antisraeliano culturalmente confuso e teoricamente disarmato. Un mondo in cui la lotta contro lo Stato d’Israele diventa un’entità astratta, visto che non si sa che fine dovrebbero fare le israeliane e gli israeliani (ebrei, non ebrei, vari tipi di ebrei, arabi, cristiani, protestanti, atei ecc.).

La lotta a favore dei movimenti palestinesi che vogliono distruggere Israele e sterminare il suo popolo (come recita la Carta costituzionale di Hamas del 1988, ma viene in continuazione ripetuto in tutti i comunicati, anche i più recenti), significa negare al popolo ebraico il diritto di essere nazione e il diritto di avere un proprio Stato. E questo è antisemitismo, addirittura genocida nelle intenzioni, anche se nessuno di questi giovani ha chiaro cosa sia il genocidio o quale storia stia dietro questa definizione giuridica, autentica conquista dell’umanità pagata con le vite di sei milioni di esseri umani.

Hamas in continuazione dichiara intenzioni genocide verso il popolo ebraico, in genere facendo appello anche al martirio dei poveri palestinesi ed evocando la volontà d’Allah. Lo stesso fanno l’Iran e Hezbollah. L’Arabia Saudita e l’Egitto hanno smesso da un po’ di tempo di farlo, ma anche in questi paesi esistono correnti mussulmane fanatiche, antisemitiche che continuano a invocare Allah perché si decida finalmente a far scomparire gli ebrei dalla faccia della terra.

Ma questo antisemitismo si può considerare anche razzista? La risposta è no e mi avvio a conclusione, tornando anche al tema iniziale dell’antisemitismo staliniano.

L’antisemitismo hitleriano fu certamente razzista, giacché il suo disprezzo per gli ebrei si fondava anche su teorie pseudoscientifiche, pseudoantropologiche, pseudodemografiche, pseudobiologiche ecc.: razziali in questo senso del termine. Il loro massimo punto di riferimento teorico poteva essere il conte Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882) che nel suo Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane (1853-54) aveva posto le basi di tutte le moderne teorie razzistiche, sviluppate poi in ambienti positivisti (Lombroso, Le Bon ecc.) e altrove. Ebbene l’antisemitismo nazista (come quello dei segregazionisti negli Usa o degli attuali suprematisti, «potere bianco» ecc.) era pienamente razzista per la sua adesione a teorie razziali. Non sembri un gioco di parole.

Non si può però dire lo stesso dell’antisemitismo staliniano o sovietico, che non accennarono mai, neanche inconsapevolmente, a caratteristiche biologiche o razziali nelle loro campagne antiebraiche. E se per caso lo avessero voluto fare, avrebbero dovuto scomodare Trofim D. Lysenko (1898-1976) e le sue pseudoteorie genetiche che Stalin fece diventare un dogma ad agosto 1948, nonostante gli effetti disastrosi che avevano avuto sulla già tanto disastrata agricoltura sovietica.

L’hitlerocomunismo staliniano fu antisemita in senso politico e non razziale. E tali sono oggi i giovani che in preda a isteria antiebraica, inneggiano ad Hamas e più o meno inconsapevolmente chiedono la distruzione d’Israele e lo sterminio dei suoi popoli (Non si rendono conto, infatti, che proprio questo accadrebbe se Hamas e l’Iran per disgrazia riuscissero a prevalere, con conseguenze devastanti come la crescita delle componenti più barbare dell’islamismo, già in piena crescita per conto loro.)

Insomma, questi giovani politicamente antisemiti - non razzisti, ma sostenitori delle dittature purché in casa altrui, filoputiniani senza accorgersene, molti anche no-Vax (e ciò non è da sottovalutare perché dice molto sul loro rapporto col sapere e con la scienza), mobilitabili oggigiorno tramite i social e i telefonini (altro che noi del Vietnam con i volantini e le riviste teoriche!) - questi giovani, dicevo, stanno vivendo un loro rito giovanile di iniziazione collettiva.

Dove approderanno? L’antisemitismo, il fioloputinismo, l’antidemocrazia e il disprezzo per la scienza potrebbero far prevedere il peggio. Ma poi, trattandosi di una fase transitoria, per l’appunto giovanile e da rito di iniziazione, non è detto che vadano a finire peggio delle decine o centinaia di migliaia di giovani che «hanno ballato una sola estate» (nel ‘68) e poi rientrarono nei ranghi del sistema, scoprendo troppo tardi che quei ranghi erano pessimi e che avrebbero fatto molto meglio a continuare a lottare, ma soprattutto a studiare il funzionamento del sistema contro il quale avevano tentato da giovani di combattere.

Shalom e buona giornata della Memoria.



Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.