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domenica 29 giugno 2025

Č-109 NEI LAGER DI VORKUTA

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH - FRANÇAIS


A un certo punto Č-109 diventerà M-855. Ma non si pensi a un personaggio inventato da Ayn Rand per il suo celebre romanzo fantapolitico, Anthem, in cui Collettivo 0-0009 dialogava con Unanimità 7-3306 o Alleanza 6-7349 con Fraternità 1-5537. Anche se, volendo, si potrebbe cogliere una qualche affinità nel contesto «sociale», fondato sull’obbligo compulsivo al lavoro di tipo schiavistico e sulla totale spersonalizzazione dell’individuo.

Ma le differenze sono troppe e troppo profonde, a cominciare dal fatto non secondario che Č-109 (poi M-85) - come veniva chiamata normalmente nel lager - è stata una persona reale, che l’esperienza schiavistica l’ha vissuta veramente e che ha sperimentato sul proprio corpo e animo il degrado abissale al quale il sistema staliniano costrinse milioni di detenuti, e che non trova equivalenti nemmeno nella più acre e visionaria letteratura distopica.

Precipitata nell’inferno di Vorkuta - uno dei due più terribili àmbiti concentrazionari sovietici (l’altro fu Kolyma) - e riuscendo ciononostante a sopravvivere, Č-109 ha potuto raccontare in dettaglio la vicenda disumana da lei vissuta. Morta centenaria nel 2023, ci ha infatti trasmesso le sue memorie, raccolte grazie alla figlia Barbara, nel libro La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta. (Tradotto e commentato da Luca Bernardini, per Guerini e Associati [Milano 2024], 176 pagine, oltre a una preziosa appendice iconografica.)

Scorrendo i vari capitoli (identificabili dai titoli), percorriamo un itinerario che, benché già descritto da altri fuorusciti dall’inferno dei lager - per fare un nome italiano basti solo pensare alla vicenda e ai libri di Dante Corneli - ogni volta ci porta, però, a scoprire nuovi dettagli, nuovi orrori (magari fin lì per noi inimmaginabili), insieme alle stupende incredibili risorse umane di cui un individuo può arrivare a disporre nel tentativo disperato di tornare a vedere la luce.

E se si ha un minimo di familiarità con i racconti di sopravvissuti dai lager staliniani, anche in questo caso si noterà come una delle note dominanti, la persistenza del ricordo, del pensiero commosso e retrospettivo verso i compagni di detenzione che invece non sono riusciti a farcela. Certo, si trattava di ben poca parte rispetto ai milioni di esseri umani morti nel Gulag, ma erano presenze fondamentali nel gruppo di solidarietà al quale bisognava necessariamente appartenere, se si voleva mantenere una base pur minima di autoconsapevolezza personale e di appiglio alla realtà. Ma anche per affrontare in maniera «organizzata» il tormento quotidiano della fame, della fatica, del gelo, dei sorveglianti, dei criminali comuni padroni delle vite e dei «beni» più elementari dei detenuti, delle punizioni arbitarie e sadiche.

A distanza di tanti decenni dalla fine di un passato che sembra non finire mai - dato che i lager esistono ancora, per es. in Cina e Nordcorea, mentre in Russia si continua a morire come ai tempi del Gulag sovietico, se si è oppositori (si pensi solo all’uccisione di Aleksej Naval’nyj) - riviviamo un’ennesima tragica epopea. Un’epopea che nel 1945 vide entrare nel Gulag una ventiduenne, col nome falso di Anna Norska (subito sostituito da Č-109), e uscirne trentatreenne (nel 1956) col suo vero nome: Anna Szyszko, poi Szyszko-Grzywacz, dopo il matrimonio con un compagno di lager, teneramente affezionato e molto presente nelle memorie.

I tormenti descritti sono da film dell’orrore, soprattutto nella prima parte del libro e nei primi anni di detenzione (il dopoguerra degli anni ‘40), durante i quali Anna fu sottoposta alle umiliazioni più rivoltanti e rischiò più volte di morire. Tali orrori corrispondono pienamente agli altri racconti che abbiamo potuto leggere sull’esperienza nei lager. E questa, casomai ce ne fosse bisogno, è una dimostrazione ulteriore della disonestà intellettuale di chi ha negato e continua a negare la tragica veridicità dei racconti sulla vita nei campi del Gulag.

Ma il racconto di Anna può interessarci in modo particolare per tre aspetti ai quali voglio rapidamente accennare.

Il primo può sembrare tautologico, ed è il fatto che la narratrice è una donna. Non che manchino memorie scritte da donne passate attraverso la sofferenza del Gulag: Evgenija Solomonovna Ginzburg, Margarete Buber-Neumann, Elinor Lipper, Maria Ioffe, Evfrosinija Kersnovskaja e altre. Ognuna di esse ha in qualche modo trasmesso la testimonianza, se non la prova documentale, che nei lager sovietici (ma probabilmente nei lager di tutto il mondo) l’esser donna poteva trasformarsi in un’aggravante, soprattutto se giovane. Lo schiavismo sessuale era una regola spietata alla quale ci si poteva sottrarre solo scegliendo di morire o, detta più precisamente, scegliendo di non sopravvivere.

Anna dedica molte pagine a descrivere i traffici su basi di mercimonio sessuale, imposto in primo luogo dai malavitosi (i blatnjaki) - criminali incalliti e capi assoluti della vita «sociale» nei lager - e in sottordine dai guardiani. Ma non mancano sopraffazioni anche da parte degli stessi detenuti, descritti a volte in scene di autentica disperazione, quasi bestiale, indotta dalla mancanza di rapporti con donne. A tali aggravanti sessuali dello schiavismo lavorativo non ci si poteva sottrarre e le descrizioni che ne fa Anna sembrano in un certo senso renderle quasi una componente «normale» della vita nel lager e nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. 

Il secondo aspetto distintivo è che Anna era una detenuta politica. Non una classificata come «trotskista» (per sua fortuna, perché ciò l’avrebbe posta al fondo della ferocia repressiva esplicitamentre prevista dalla legge concentrazionaria), ma come partigiana, attiva nelle file della resistenza che il popolo polacco oppose alla prima e alla seconda invasione sovietica. Il suo ruolo militare era stato di fuciliera a cavallo [con mitra] e si era svolta in ambienti silvani. Purtroppo le memorie, essendo dedicate agli anni della prigionia, non approfondiscono quest’aspetto che invece sarebbe stato affascinante da sviluppare, sia per la «specialità militare» in quanto tale, sia per il contesto resistenziale (di banda) in cui si era svolta.

E il discorso sulla resistenza ci porta al terzo aspetto distintivo: Anna era polacca, assolutamente fiera di esserlo. Nell’intero racconto scorre come un filo rosso il tema della patria lontana, dell’appartenenza a una cultura nobile e antica (basti pensare alle opere o personaggi letterari che vengono citati in vari momenti) e dell’affinità umana con le detenute polacche (qui necessariamente al femminile) con le quali si trova a condividere giacigli, cibo, funzioni fisiologiche, ma anche attaccamenti affettivi e mutua comprensione.

Sentimenti affettuosi vengono espressi anche verso membri di altre nazionalità sottoposte alle dittature sovietiche: soprattutto ucraini (orientali e occidentali), bielorussi (la cui lingua Anna parlava correntemente) estoni, lituani, lettoni, anche armeni ecc. Ma nulla di paragonabile alla passione con cui essa si rivolge alle sue compagne polacche e ai sacrifici ai quali essa si sottopone pur di restare o tornare a stare con loro. 

A questo punto, però, bisogna fermarsi a considerare il retroterra politico in cui si svolge la vicenda di Anna, al quale lei accenna a tratti, ma senza dargli l’importanza che merita, e che io invece desidero sottolineare. Anna finisce nel lager per aver preso parte a un’esperienza che storicamente fu resa possibile solo in Polonia (e in minor parte col banderismo [da Stepan Bandera] ucraino). E cioè nel fatto che la resistenza armata si svolse contemporaneamente contro i nazisti e contro i sovietici. Ciò fu dovuto al famigerato patto di Stalin con Hitler (Molotov-Ribbentrop) che ad agosto 1939 sancì l’alleanza tra i due regimi totalitari, preparando l’invasione congiunta della Polonia, la sua ennesima spartizione e di fatto l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Con la duplice invasione di settembre 1939, i partigiani polacchi si erano trovati a combattere su due fronti: contro i nazisti e contro i sovietici, alleati fra loro per affinità totalitarie e mire di espansionismo territoriale. Una simile esperienza - di combattere contro nazisti e sovietici allo stesso tempo - sarebbe stata impensabile in Italia, per ovvi motivi geopolitici. Anna invece crebbe in quel mondo e, leggendo con attenzione le sue pagine, si riesce a cogliere che per lei il concetto di «resistenza» era univoco: fossero nazisti o staliniani, erano pur sempre i nemici del suo popolo e contro di essi aveva cominciato a combattere non ancora ventenne.

Una scelta condivisa con tante altre donne polacche, molte morte in combattimento: scelta politica che a lei costò il sacrificio dei migliori anni della gioventù. Ma dal libro non traspaiono recriminazioni né pentimenti.



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giovedì 26 giugno 2025

Ukraine. Qu’est-ce qui empêche la fin de la guerre?

Vitalyi Dudin

[juriste et membre de la direction de Sotsialnij Rukh (Mouvement social). Kyiv, 9 juin 2025]


FRANÇAIS - ITALIANO - ENGLISH


Deux problèmes principaux 


Malgré quelques espoirs, la guerre d’agression russe contre l’Ukraine se poursuit et se fait plus intense. Chaque jour, je vois des images épouvantables de destructions massives dans ma ville natale, Kyiv, à Kharkiv et dans d’autres magnifiques cités, qui étaient difficiles à imaginer. Ces scènes, dignes d’un film de catastrophe, font partie de notre vie quotidienne. Les endroits où nous nous promenions se transforment en cendres noires et en ruines. 

Pendant ce temps, les envahisseurs russes lancent de nouveaux assauts non seulement à l’est et au sud, mais aussi au nord, dans la région de Soumy. Ici, en Ukraine, le conflit a vraiment les caractéristiques d’une guerre populaire en raison de l’ampleur de la participation de la population à l’effort de guerre: plus d’un million de personnes servent dans l’armée, un peu plus sont engagées dans les secteurs des infrastructures critiques et beaucoup d’autres sont impliquées dans des activités volontaires.

Les négociations d’Istanbul cachent les plans expansionnistes de Moscou et ne pourront guère réussir (voir ci-dessous). 

Mon existence même en tant que civil et en tant que militant des droits du travail a changé radicalement. Je reçois des messages de travailleurs des chemins de fer qui ont besoin d’argent pour les drones et d’autres équipements; les proches des salariés décédés à la suite d’attaques de missiles sur leur lieu de travail me font part de leurs problèmes pour obtenir des aides sociales ; les infirmières près de la ligne de front se plaignent de ne pas recevoir les primes promises. Parfois, nous réussissons à surmonter de tels défis, mais nous voulons tous que la guerre se termine le plus rapidement possible. 

Bien sûr, la résistance héroïque des défenseurs ukrainiens et les opérations spéciales étonnantes sur le territoire russe ont beaucoup contribué à affaiblir la machine de guerre du Kremlin. Mais après avoir perdu le soutien militaire américain, les chances d’une victoire stratégique de l’Ukraine se sont réduites. 

Les négociations d’Istanbul ont clairement montré que la position ukrainienne est désormais beaucoup plus souple pour tenter de chercher une solution pacifique (cessez-le-feu de 30 jours, par exemple). Au contraire, les exigences russes se font plus offensives et agressives. Grâce à Donald Trump, la Russie a repris l’initiative sur le champ de bataille et cela reflète une réalité objective. L’impossibilité de mettre fin à la guerre vient de la faiblesse de la position de l’Ukraine dans les négociations et elle ne peut être surmontée par une mobilisation plus importante des hommes sur le front. 

Alors quels sont les facteurs qui rendent l’Ukraine plus faible ? 


Problème n° 1 – Le pseudo-pacifisme qui sévit parmi les forces progressistes occidentales 

Ce premier problème est extrêmement douloureux pour moi. Beaucoup de gens, dans le mouvement socialiste, ne veulent traditionnellement pas aborder des questions telles que la violence, l’État et la souveraineté. Cela les conduit à une mauvaise compréhension de la situation ukrainienne. Certains ne reconnaissent pas la nature décoloniale et anti-impérialiste de la lutte ukrainienne. Leur analyse se base sur une vision dépassée du système international où les États-Unis étaient considérés comme le seul impérialisme et où la Russie était représentée comme leur victime. Et même si Donald Trump dit «comprendre» chaleureusement le sentiment impérialiste de Poutine, cela n’a pas changé les conclusions que tirent ces personnes qui se prétendent des intellectuels de gauche. Les régimes les plus réactionnaires de l’histoire de l’Amérique et de la Russie exercent une pression énorme sur l’Ukraine aujourd’hui, tandis que certains cherchent des arguments pour justifier qu’une nation attaquée ne mériterait pas de soutien international. Je suis curieux de savoir comment les protagonistes de la théorie de la « guerre par procuration » s’arrangeront avec le fait que l’Ukraine continue de se battre sans l’aide directe des États-Unis et même malgré des actions hostiles de la part ce pays. 

Beaucoup de militants de gauche s’opposent au soutien militaire à cause de leur éthique antimilitariste. Et apportent une excuse philosophique sophistiquée afin de ne pas envoyer d’armes à un pays envahi, provoquant plus de souffrances parmi les innocents. La contradiction d’une telle posture devient particulièrement absurde lorsqu’elle est avancée par ceux qui prétendent être des révolutionnaires ou des radicaux... Pour moi, il est évident que de tels rêveurs veulent avoir une vie tranquille à l’intérieur d’un système capitaliste sans tenter réellement de le renverser. Être contre les armes revient à se réconcilier avec le fléau de l’esclavage.

Vivre sous la protection de l’OTAN et avoir peur d’une «militarisation excessive» de l’Ukraine ressemble à de l’hypocrisie. 

À l’inverse : si les travailleurs ukrainiens remportent la guerre, ils se verront encouragés pour poursuivre une lutte émancipatrice pour la justice sociale. Leur énergie renforcera le mouvement ouvrier international. Expérience de la résistance armée et de l’action collective: voilà une condition préalable clé pour l’émergence des véritables mouvements sociaux qui défieront le système.

 

Problème n° 2 – L’incapacité de l’État ukrainien à placer les intérêts publics au-dessus des intérêts du marché 

Les élites dirigeantes en Ukraine encouragent le libre marché et le système basé sur le profit comme seul moyen possible d’organisation de l’économie. Toute idée de planification de l’État ou de nationalisation des entreprises doit, pour eux, être rejetée car faisant partie du patrimoine soviétique. Le problème est que la version ukrainienne du capitalisme est totalement périphérique et incompatible avec la mobilisation de ressources nécessaires à l’effort de guerre.

Le dogmatisme idéologique dominant place l’Ukraine dans le piège d’une économie primitive et qui dépend largement de l’aide étrangère. 

Nous vivons dans un pays d’hommes d’État riches et d’un État pauvre. Le gouvernement essaie de limiter sa responsabilité dans la gestion du processus économique et d’éviter d’imposer un impôt progressif élevé sur les riches et les entreprises. Cela conduit à une situation où le fardeau de la guerre est supporté par des gens ordinaires qui paient des impôts sur leurs petits salaires, qui servent dans l’armée, qui perdent leurs maisons... 

Il est impossible d’imaginer qu’il y ait du chômage pendant la guerre à grande échelle. Mais en Ukraine, cela existe avec un niveau extrêmement élevé d’inactivité économique de la population ainsi qu’une pénurie incroyable de maind’œuvre. Ces carences peuvent s’expliquer par la réticence de l’État à créer des postes de travail et à l’absence de stratégie visant à impliquer massivement les gens dans l’économie dans des centres d’emploi. Nos politiciens pensent que les dysfonctionnements historiques du marché du travail peuvent être résolus sans une ingérence active de l’État! Malheureusement, 

les réformes dans le sens de la déréglementation en temps de guerre ont créé une multitude de contre-incitations qui démotivent les Ukrainiens à l’heure de chercher un emploi salarié. Voilà pourquoi la qualité de l’emploi devrait être améliorée en augmentant les salaires, avec de véritables inspections du travail et de vrais espaces de démocratie sur le lieu de travail. 

Seule une politique socialiste démocratique pourra ouvrir la voie à un avenir durable pour l’Ukraine, où toutes les forces productives travailleraient pour la défense nationale et une protection sociale juste.

 

Et maintenant, nous pouvons aller droit au but 

Sans un soutien militaire et humanitaire à la hauteur, l’Ukraine ne pourra pas protéger sa démocratie et sa défaite affectera les libertés politiques partout dans le monde. Par ailleurs, nous devons rester critiques envers les responsables gouvernementaux ukrainiens et leur refus d’en finir avec le consensus néolibéral qui sape l’effort de guerre. Il sera particulièrement difficile de gagner une guerre contre un envahisseur étranger si nous avons beaucoup de problèmes internes, à cause d’une économie capitaliste dysfonctionnelle.


(Soutien à l’Ukraine résistante, publiée par les Brigades éditoriales de Solidarité et Utopie Rouge, n° 39-40, 1er Juillet 2025)



ITALIANO

lunedì 9 giugno 2025

SOLO HAMAS PUÒ FERMARE LO STERMINIO A GAZA

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH


Risposta a Laris Massari


Caro Laris, la tua lettera è apparsa sul blog e ha provocato varie reazioni, di segno diverso tra loro. Poiché la lettera era rivolta direttamente a me, non posso non risponderti, anche se mi trovo nella curiosa situazione di padre-educatore e polemista allo stesso tempo. Situazione incomoda, ma positiva perché fa sperare che con le nuove generazioni le cose possano andare un po’ meglio di come stanno andando al momento: per lo meno sul piano teorico. E per la mia persona, all’apice di una carriera di polemista tra le più lunghe, continue e combattive che vi siano state in Italia, si tratta di un’esperienza completamente nuova.

 

Nelle questioni di fondo il tuo testo è in accordo più o meno a quanto è comparso sul blog di UR dopo il pogrom del 7 ottobre 2023, ad opera non solo mia (Michele Nobile e altri), anche se io ho avuto la parte principale: ho contato 27 miei interventi, quasi tutti apparsi sul blog. La loro quantità mi esime dal ripetere con tutti gli argomenti le mie posizioni e mi consente di rispondere qui in termini schematici. 

Provo a riassumere le principali divergenze, sperando di non avere male interpretato.

1) In una frase un po’ telegrafica, e quindi poco chiara, fai riferimento a «l’eccidio - giuridicamente definibile come genocidio, discutibile se sia giusto moralmente definirlo tale» - perpetrato da Israele ai danni del popolo gazawi.

2) Metti sullo stesso piano le colpe di Hamas e quelle del governo israeliano. Questo non lo si coglie tanto chiaramente dal testo, ma dalle nostre conversazioni so che la pensi a questo modo. Di conseguenza ritieni che un termine allo sterminio possano porlo sia Hamas sia Netanyahu.

3) Pensi (non lo dici espressamente, ma lo fai capire) che un paese smette di essere democratico se ricorre a metodi così atroci.

 

1. Sull’accusa di genocidio ai danni d’Israele, l’aspetto giuridico per il momento è chiaro anche se contraddittorio:

a) la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite (su istigazione del governo sudafricano) ha intimato a Israele di «prendere misure per non compiere atti possibilmente genocidari», ma non ha ordinato la fine delle azioni militari;

b) la Corte penale internazionale ha dichiarato l’ex ministro della difesa Gallant, e Netanyahu, colpevoli di «crimini di guerra» e di «crimini contro l’umanità», e ha spiccato dei mandati di cattura contro di loro.

Ma nessuna di queste due massime istanze giuridiche internazionali ha emesso una sentenza che contenga l’accusa di genocidio contro il governo israeliano. Pertanto, tutti coloro che stanno lanciando questa accusa allo Stato d’Israele lo stanno facendo a titolo personale. E non lo fanno su basi giuridiche, ma ideologiche, per lo più riconducibili a gradi diversi di antisemitismo.

Rimane ovviamente aperta la discussione se effettivamente si tratti di genocidio o no, e spero di interpretare correttamente la tua frase telegrafica, secondo cui tu ritieni «moralmente» infondata questa accusa.

 

La questione, però, è dirimente - visto che sta alla base della nuova esplosione di massa dell’antisemitismo - e quindi, per eliminare qualsiasi ombra di dubbio a tale riguardo, mi permetto di riassumere alcune considerazioni sulla questione, già espresse in vari altri miei articoli, tra i quali soprattutto «La presunta “pulizia etnica” israeliana» (del 13 febbraio 2024) e la seconda risposta a Claudio Albertani («Non è genocidio, ma massacro di civili», del 6 marzo 2024).

Lo sterminio di un popolo (aggredito o aggressore che sia) è cosa diversa dal genocidio, se non vi è una precisa intenzione di far estinguere un determinato popolo, etnia o classe sociale. Insomma, non è la quantità di morti o la ferocia militare che determinano il crimine di genocidio.

Nella guerra del Vietnam gli Usa fecero morire (anche col napalm) oltre un milione di vietnamiti (più civili che militari), 2-300.000 cambogiani, alcune decine di migliaia di laotiani. Fu certamente un crimine contro l’umanità (e il criminale numero uno fu il texano Lyndon B. Johnson), ma non fu genocidio. Né tale è stato considerato dalla storia.

Chiunque accetti in buona fede la definizione di genocida per il governo israeliano (ufficialmente non attribuita dai due principali organi giudiziari internazionali), dovrebbe chiedersi  se vi sia mai stata l’intenzione israeliana di far scomparire il popolo gazawi, prima del 7 ottobre e anche dopo.

Per il prima la risposta è facile: Israele si era ritirato completamente da Gaza nel 1994, proprio per consentirne l’autonomia e la costituzione di un ersatz di Stato indipendente (uno Staterello, lo chiamo io). Netanyahu è considerato addirittura colpevole di aver permesso che ingenti finanziamenti arrivassero ad Hamas e che Hamas usasse questo denaro non per la popolazione, ma per preparare la guerra, i tunnel e instaurare un regime islamista dittatoriale, uccidendo tra l’altro i palestinesi fedeli all’Olp di Abu Mazen.

Per il dopo, come non ricordare tutti gli appelli del governo israeliano al popolo gazawi perché abbandonasse le zone che si accingeva a bombardare, al contrario di Hamas che tentò di impedire l’evacuazione della popolazione civile? Quale governo genocida si preoccupa di avvisare sulle zone che verranno bombardate e anche di far arrivare i rifornimenti alimentari all’etnia che intende annientare?

E non ti far ingannare sulla questione dei rifornimenti alimentari, perché anche lì entra in ballo Hamas e la sua appropriazione dei camion in arrivo, sia per imporre la propria autorità sia per rivendere gli alimenti. Tant’è vero che le Nazioni Unite stanno contrastando la distribuzione «alternativa» di alimenti fatta dalla Ghs (Gaza Humanitarian Foundation: Usa+Israele) perché tale distribuzione viene ora sottratta al controllo di Hamas. Basterebbe questa vergogna a far capire da che parte stia la maggioranza dei funzionari delle Nazioni Unite.

«Genocida» fa rima con «deicida», cioè l’accusa millenaria con cui sono stati perseguitati gli ebrei dalle culture «cristiane». E chi oggi si riempie la bocca con questa nuova «accusa di sangue», prova un brivido di eccitazione, sente il fascino perverso della continuità bimillenaria. Ma soprattutto è una scappatoia per l’Occidente di liberarsi dal senso di colpa nei riguardi dell’Olocausto. Questo rimane a tutt’oggi il più grande esempio storico moderno di genocidio, mentre quello ucraino (holodomor) viene al secondo posto sul piano quantitativo. E l’ironia della storia vuole che oggi siano ancora gli stessi popoli-vittima - ebraico e ucraino - a lottare per la propria sopravvivenza.

Dietro il dilagare del ricorso al termine «genocida», nuova versione della medievale «accusa di sangue», sta crescendo un antisemitismo di massa, in genere fondato sulla cattiva coscienza, sull’ignoranza e sull’imbecillità.

 

2. Fino al 7 ottobre il governo israeliano non aveva avuto alcuna intenzione di combattere militarmente contro Hamas. Da allora invece è scoppiata una guerra. Riassumiamo le caratteristiche di questa guerra asimmetrica.

Lo Staterello di Gaza (governato dittatorialmente da Hamas) ha dichiarato guerra allo Stato postdemocratico d’Israele (diretto da un governo di destra e di estrema destra) con il pogrom feroce, bestiale, disumano del 7 ottobre. Componente fondamentale di tale eccidio è stata la violenza di genere, quella rivolta a umiliare le donne tramite gli stupri, che però non deve far dimenticare anche il ricorso agli squartamenti. Lo ha fatto coll’esplicito proposito di provocare la reazione d’Israele, oltre che per bloccare il processo di pacificazione con l’Arabia Saudita. Ma dietro la dichiarazione di guerra di Hamas, c’era e continua ad esserci l’Iran.

Hamas ha cercato di impedire che il proprio popolo si mettesse al riparo dai bombardamenti. Hamas ha usato e continua a usare il popolo gazawi come scudi umani. Hamas ha mantenuto i propri miliziani mescolati alla popolazione negli ospedali, nelle scuole,in alcune sedi delle Nazioni Unite. Ma soprattutto, Hamas voleva che Israele avviasse il massacro del popolo gazawi, sperando così di suscitare la reazione di ciò che resta del mondo palestinese in Medio Oriente e non solo dei gruppi armati islamici filoiraniani. Sperava anche di poter soppiantare l’Anp in Cisgiordania, così come l’aveva cacciata con la forza da Gaza.

L’intento è fallito perché la disumana dichiarazione di guerra a Israele non ha coinvolto il resto del mondo palestinese non filoiraniano. In realtà non ha coinvolto nemmeno il popolo gazawi, al di fuori dei miliziani di Hamas: questo lo si vede chiaramente, ma non lo dice nessuno, specie tra gli antisemiti «di sinistra» sostenitori della presunta «resistenza» palestinese. Tra questi, con mio grande dispiacere, devo includere anche i trotskoidi del Segretariato unificato della Quarta internazionale, ormai accesamente filo Hamas. (Se non ci avessero espulsi nel 1975, saremmo dovuti uscirne sicuramente oggi.)

In Cisgiordania - dove ancora vivono arabi-palestinesi non assimilati e che avrebbero solide ragioni per insorgere contro Israele - a parte alcune manifestazini di lugubre gaudio dopo il pogrom del 7 ottobre, non si è poi mosso quasi nulla. Abu Mazen - a differenza dei sostenitori della «resistenza» palestinese - ha definito «cani» i dirigenti di Hamas e, per lo meno lui, ha chiesto la liberazione immediata degli ostaggi onde porre termine allo sterminio dei gazawi.

E qui veniamo al nodo dei nodi: lo sterminio dei gazawi si sarebbe potuto evitare senza la cattura degli ostaggi. Lo stermnio dei gazawi si poteva fermare in qualsiasi momento, semplicemente liberando gli ostaggi. Lo sterminio dei gazawi continua perché Hamas non vuole liberare le ultime decine di ostaggi, poveri esseri umani innocenti, ormai ridotti allo stato di larve.

Solo Hamas e nessun altro può fermare i massacri del governo israeliano. L’azione militare d’Israele non può fermarla nessuno finché tutti gli ultimi ostaggi non saranno stati liberati. Questa è la vera differenza di analisi tra noi due.

Premere su Netanyahu perché cessi le ostilità è una perdita di tempo. Nei casi più «nobili», è un alibi per mettersi a posto con la propria coscienza. Il bersaglio politico è errato e si dovrebbero invece concentrare tutte le energie per costringere Hamas a liberare gli ultimi ostaggi, se veramente si soffre per lo sterminio del popolo gazawi.

Io soffro per tale sterminio e per questo mi pongo il problema delle possibilità concrete per porvi fine. Non vado in giro a predicare la pace - quella che ormai si stava diffondendo in quasi tutto il mondo arabo ormai disposto a convivere con Israele - perché so che Hamas non l’accetterà mai e che continuerà a lottare per il genocidio degli ebrei d’Israele come sta scritto nel suo programma e come ripetono i suoi dirigenti.

La verità è che l’intero mondo civile occidentale si sente in colpa per non aver mai fatto nulla per aiutare veramente Israele a sopravvivere, negli anni in cui l’intero mondo arabo ne voleva la scomparsa dalla carta geografica del Medio Oriente: quando ne voleva in pratica il genocidio.

Che ci piaccia o no, il governo israeliano proseguirà lo sterminio finché Hamas non avrà liberato l’ultimo ostaggio. Giusta o sbagliata (ed è sbagliata, nel senso che dirò avanti) questa è la linea dall’attuale governo israeliano. Nulla può fermarlo: nemmeno gli Usa, anche se Trump volesse provare a farlo. Netanyahu continuerà a uccidere fino alla liberazione dell’ultimo ostaggio e Hamas continuerà ad essere il primo responsabile dello sterminio del proprio popolo: uno sterminio che ha voluto dall’inizio e che continua a volere rifiutando di liberare quella manciata di poveri ostaggi da cui dipendono le vite di migliaia di cittadini gazawi.

(Alla fine dirò quale alternativa esisteva allo sterminio dei gazawi o perlomeno cosa avrei fatto io se fossi stato a capo d’Israele.)

Quindi non puoi metterli sullo stesso piano: Hamas ha voluto lo sterminio e non  lo vuole fermare. Il governo di Israele, aggredito e minacciato di genocidio, sta praticando lo sterminio, ma solo come forma sbagliatissima di autodifesa. E si fermerà solo quando l’ultimo ostaggio sarà stato liberato. Colpevoli di crimini contro l’umanità entrambi, ma la scelta di avviare i massacri è stata in primo luogo di Hamas (che non a caso ha cominciato a sua volta con un enorme massacro, sadico e disumano), mentre la realizzazione è responsabilità del governo israeliano. Non vedo come si possano mettere sullo stesso piano i due diversi tipi di crimini contro l’umanità: uno aggressivo e l’altro difensivo.

 

3. La democrazia interna di paesi capitalistici (in realtà postdemocratici) non è misurabile con le loro azioni di guerra. Gli Usa rimangono il paese più postdemocratico al mondo (e credo che su questo tu non abbia dubbi), secondo solo forse alle postdemocrazie scandinave. Di guerre ne ha fatte tante e anche spietate, come in Vietnam; ma non conduce più guerre coloniali(cioè di conquista di territori) dalla Guerra ispanoamericana del 1898, a differenza del nazifascismo, dello stalinismo, della Cina, della Russia attuale ecc.

Negli Usa si è potuto manifestare a livelli di massa contro quella stessa guerra indocinese e il movimento di protesta ha dato un grosso contributo alla vittoria vietnamita finale. In nessun altro paese capitalistico al mondo, per quel che mi risulta, si è mai permesso di manifestare mentre il paese era in guerra. Unica eccezione è ormai solo Israele, dove anche dopo il pogrom del 7 ottobre vi sono state manifestazioni continue (contro il governo), addirittura uno sciopero generale. E attualmente è in corso un processo contro Netanyahu per passate vicende. Sono esempi di pratiche democratiche impensabili nel mondo dittatoriale di chi vuole il genocidio degli ebrei d’Israele.

Trovami un altro paese che possa permettersi tanto pluralismo politico e istituzionale mentre fa la guerra. Anzi, mentre vive da decenni sotto la minaccia di genocidio: il genocidio degli ebrei israeliani che sta nel programma di Hamas, dell’Iran e dei suoi accoliti, ma che ormai e per fortuna non viene più rivendicato da alcun grande paese arabo.

E anche questo è un  segno positivo dei tempi: il mondo arabo, nella sua stragrande maggioranza, ha abbandonato la vecchia posizione del genocidio ebraico-israeliano e ormai questa posizione di antisemitismo islamico (diverso da quello «cristiano» e da quello «di sinistra») è solo dell’Iran.

 

4. E con l’Iran veniamo al mio punto: cosa avrebbe dovuto fare Netanyahu se fossi stato io. Sì, io, ma con la mia formazione di marxista libertario e rivoluzionario. E lasciamo perdere tutto il prima, giacché io non avrei mai permesso ad Hamas di instaurare la sua dittatura e di usare i sussidi internazionali per preparare la guerra.

a) Dopo il 7 ottobre avrei fatto appello alla comunità internazionale perché mi aiutasse a liberare gli ostaggi: Nazioni Unite, Croce rossa, Tribunali vari, Chiese cristiane varie (la cattolica in primo luogo).

b) Nessuno di costoro si sarebbe mosso, come si poteva facilmente prevedere e quindi non mi sarebbe rimasta altra scelta che passare alle armi. Prima però avrei intimato al governo iraniano di far liberare gli ostaggi, se non voleva subire rappresaglie via via crescenti sul piano militare. (Devo dire che probabilmente avrei fatto lo stesso con il Qatar, dove la direzione di Hamas trova ancora riparo e finanziamenti.)

c) L’Iran ovviamente non avrebbe mosso un dito e quindi avrei cominciato a bombardare alcuni suoi siti strategici, militari soprattutto. A distanza di giorni avrei rinnovato l’ultimatum e allo stesso tempo avrei ampliato le aree da bombardare, con una vera e propria escalation, stando attento il più possibile a non colpire aree di civili.

Un’eventuale reazione militare dell’Iran sarebbe stata benvenuta perché avrebbe aperto la porta finalmente al bombardamento dei suoi siti nucleari: un bombardamento parziale ma non risolutivo, perché la possibilità di distruggerli del tutto sarebbe dipesa da risorse militari che hanno solo gli Usa e che purtroppo sembrano intenzionati a non utilizzare. Ma qualcosa sarebbe stato sempre meglio di niente, dato che l’Iran continua ad arricchire il proprio uranio in vista della creazione della bomba.

Prima o poi il governo iraniano avrebbe dovuto cedere (ordinando ad Hamas di liberare gli ostaggi), ma probabilmente vi sarebbe stata a un certo punto l’insurrezione della sua popolazione che, a maggioranza, non ne può più della dittatura teocratica degli ayatollah.

Sconfitto l’Iran, liberati gli ostaggi, non vi sarebbe stato il massacro dei gazawi e anche Hamas sarebbe finalmente scomparso dalla faccia della Terra.

Il fatto che una posizione analoga sia stata espressa da Ernesto Galli della Loggia (Corriere della sera del 26 maggio) non mi preoccupa. Anzi mi conforta, perché dimostra che in fondo la mia posizione non è così estrema o estremista come può sembrare, se ci è arrivato spontanemaente anche un intellettuale liberaldemocatico, animato da spirito illuministico e da una notevole preparazione teorica.

 

Per concludere: ti invito a non mettere sullo stesso piano i crimini contro l’umanità di Hamas con quelli dell’attuale governo israeliano. La differenza è qualitativa.

Ribadisco inoltre che solo Hamas può porre termine allo sterminio dei gazawi. Ma anche che le Nazioni Unite, la Chiesa e la Croce rossa non hanno fatto nulla per liberare gli ostaggi. Messi tutti insieme, forse ci sarebbero riusciti e avrebbero salvato decine di migliaia di vite umane. Ma evidentemente il salvataggio degli ostaggi - e quindi anche del popolo gazawi -  non interessava loro come pare non interessare gli antisemiti «di sinistra». Nuocere a Israele sembra invece il movente principale di tutti questi organismi internazionali. Se penso che Hamas non è inserito tra i gruppi terroristici, nemmeno dopo ciò che aveva fatto a Gaza (uccisione dei palestinesi fedeli ad Abu Mazen) e poi  in territorio israeliano (pogrom del 7 ottobre), mi rendo conto di quanto illusoria fosse fin dall’inizio la speranza di un intervento delle Nazioni Unite.

Infine, rifletti a lungo sull’ipotesi dei bombardamenti crescenti contro l’Iran - oggi il principale nemico della pace nel mondo, più dello stesso regime russo - perché la conseguenza immediata di una tale posizione è che Israele sta combattendo anche per noi e per la salvezza dell’umanità dalla catastrofe nucleare. Questa sicuramente esploderà il giorno in cui il regime fanatico degli ayatollah sarà riuscito a confezionare le sue prime bombe atomiche.

Se vi arriverà, non ho alcun dubbio che le lancerà immediatamente su Israele, consapevole dell’inevitabile rappresaglia nucleare, ma invocando il sacrificio dell’intero popolo iraniano, come Hamas non ha esitato a sacrificare il popolo gazawi. L’integralismo islamico, del resto, prevede l’entrata nel paradiso di Allah di coloro che combattono contro gli infedeli. E lì, come ben sai, ogni maschio è atteso da una settantina di vergini con grossi seni (secondo quanto promette il Corano). Ma niente per le donne.

 

Indipendentemente da questa mia posizione fondata sul’escalation militare contro l’Iran, sarebbe bello che tu arrivassi a un’altra soluzione, frutto della tua mente e comprensibile per la tua generazione. Ma l’importante è che essa sia pratica, che ne siano indicati i soggetti reali e i tempi di realizzazione, e non sia una semplice petizione di principio - come fanno tutti coloro che invocano la pace, senza tener conto delle forze in gioco.

Alla mia posizione io arrivo avendo alle spalle il mio percorso teorico, figlio di un certo tipo di cultura marxista rivoluzionaria e libertaria, impegnato praticamente dagli anni ‘60 a lottare per l’abolizione del capitalismo (nel senso di un suo superamento e non di regresso a formazioni sociali precapitalistiche o istituzioni predemocratiche). Come ben sai, sono ormai privo di qualsivoglia fiducia nelle istituzioni politiche che dominano il mondo (Nazioni Unite comprese), e sono addirittura sgomento per i processi degenerativi in senso dittatoriale, hitlerocomunistico e antisemitico che sta inducendo la smania di protagonismo digitale anche in molti giovani della tua generazione.

shalom

Babbo

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.