L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

PER SAPERNE DI PIÙ CI SONO UNA COLLANA DI LIBRI E UN BLOG IN VARIE LINGUE…

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lunedì 27 giugno 2016

È MORTO BEPPE FERRARA

Abbiamo da poco appreso la triste notizia della morte del regista Giuseppe Ferrara, avvenuta a Roma due giorni fa. In questo momento ci stringiamo in un doveroso abbraccio alla famiglia e ai suoi cari. Da parte nostra ci piace ricordarlo nel momento dell'adesione entusiasta - lui che non era più un giovanotto - al progetto internazionalista di Utopia Rossa, di cui riproduciamo di seguito la lettera inviata a Roberto Massari. La memoria del suo cinema di impegno civile resterà incastonata nelle sue pellicole. Ciao Beppe. [la Redazione]

Caro Roberto,

la mia adesione a Utopia Rossa è piena, soddisfatta e direi ricca di entusiasmo. Essa mi appare come la naturale continuazione dell'attività che conduco ormai da decenni in campo cinematografico, dove il mio impegno politico non è mai venuto meno. Naturalmente l'entusiasmo attuale per UR nasce anche dalle insoddisfazioni vissute nelle precedenti esperienze politiche, che vorrei qui ricordare brevemente.
Ricordo di essermi iscritto ventiquattrenne al Psi su presentazione dell'amico regista Lino Del Fra (l'autore tra l'altro di Allarmi siam fascisti!, nel 1962, e La torta in cielo, nel 1970) e di aver vissuto come primo evento negativo l'entrata dei socialisti nella cosiddetta "stanza dei bottoni", voluta da Pietro Nenni e sfociata nella scissione (da me ovviamente approvata) che portò alla nascita del Partito socialista di unità proletaria, il Psiup. Rammento di esser stato l'unico, nella sezione Centro del Psi a Roma, in cui ero iscritto, ad aver votato per Lelio Basso. (Anni dopo avrei scoperto che la brigatista rossa Laura Di Nola, con la quale avevo frequentato il Centro sperimentale di Cinematografia, era stata iscritta alla stessa sezione.)
Seguì un periodo di battaglie giornalistiche all'interno del settimanale del Psiup - Mondo Nuovo - diretto da Lucio Libertini. Dalle colonne di quel giornale attaccai Torello Ciucci (che insieme a Giovanni Gronchi intrallazzava con gli Enti di Gestione Cinema) e Guido Lonero (direttore, altro intrallazzatore ai danni del Festival del cinema di Venezia).
Riuscimmo a far dimettere Lonero e a mettere in difficoltà Ciucci, ragion per cui il segretario di redazione - Salasso - mi richiamò all'ordine, dicendomi che "rompevo i vetri". Da bravo psiuppino nel 1968 diedi man forte a Cesare Zavattini, insieme ad altri registi (come Marco Ferreri, Ugo Gregoretti, Citto Maselli, Pier Paolo Pasolini), nella contestazione del Festival di Venezia. Al Partito, però, non importò nulla di quella battaglia. E alle elezioni politiche del 1972, non avendo raggiunto il "quorum" per eleggere anche un solo parlamentare (benché ne avessimo eletti quasi quaranta nel 1968), il partito si sciolse.
Agli iscritti del Psiup si prospettarono due soluzioni, entrambe assurde: rientrare nel Psi oppure iscriversi al Pci. Io preferii aderire a un minipartito, Democrazia proletaria (nata dalla confluenza di varie correnti di sinistra), che arrivò a candidare come capolista alle elezioni il comico Paolo Villaggio.
Conclusa l'esperienza di Dp, il giudice Carlo Palermo mi convinse ad entrare armi e bagagli nella Rete di Orlando. Lì feci parte della sinistra del movimento insieme a Nando Dalla Chiesa e all'ex sindaco di Torino, Diego Novelli.
Questa è la storia del mio impegno politico all'interno delle organizzazioni partitiche della sinistra italiana. Potrei poi accennare al mio impegno nella lotta contro il fascismo, contro l'imperialismo, contro la mafia e i poteri occulti condotta attraverso lo strumento del cinema - mia professione e grande amore della mia vita. Ma il discorso a questo riguardo sarebbe molto lungo e forse si potrà fare in altra occasione. [Si veda al riguardo il suo magistrale Manuale di regia, pubblicato da Editori Riuniti nel nel 1999 e nel 2004 e ripubblicato dalla Massari editore nel 2014 (nota di R.M.).]

venerdì 24 giugno 2016

LA VITTORIA DELLA DESTRA NEL REFERENDUM INGLESE E IL RIMBECILLIMENTO DELLA SINISTRA ANTIEUROPEA, di Michele Nobile

Al primo impatto ho trovato assai divertente l'idea per cui la decisione degli elettori britannici di uscire dall'Unione europea sarebbe un fatto «di sinistra». Pensandoci meglio, è semplicemente «tragica». Brevissime considerazioni.

1) Innanzitutto, è stata la xenofobia a determinare il successo del leave, del voto per lasciare l'Unione europea, per un margine non grande. La linea anti-migrazione, diretta non soltanto contro gli extracomunitari ma anche verso i cittadini europei, è stata condita, è vero, dalla demagogia antiplutocratica di destra e liberista nei confronti dei burocrati di Bruxelles e delle «banche». Non a caso si tratta di un successo elettorale che fa esultare la destra-destra e l'estrema destra europea, dal Front National alla Lega Nord ad Alba Dorata. Insomma, sul piano concreto e dei grandi numeri, la mobilitazione (elettorale) contro l'Ue si esprime con una forte connotazione nazionalista xenofoba, spesso ultraneoliberista.

2) Che si trattasse della tory Thatcher o del laburista Blair, in fatto di neoliberismo i governi britannici sono sempre stati più realisti del re: hanno considerato diverse normative europee troppo «di sinistra», facendo pressione per orientarle in senso più liberista. Il caso più chiaro è dato dal cosiddetto opting-out, cioè il diritto di non applicare decisioni dell'Unione, in particolare per quanto riguarda il «protocollo sociale» (per alcuni anni) e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Nel negoziato tra Cameron e la Commissione europea, l'unico punto di sostanza ottenuto dal primo era la limitazione per quattro anni dei benefici per gli immigrati europei. E dunque, se proprio si vuol essere nazionalisti «di sinistra», la ragione per felicitarsi dell'uscita del Regno Unito dalla Ue è esattamente opposta a quella dominante su questo lato. Bisognerebbe dire, cioè, non che si tratta di un passo necessario per una politica sociale ed economica «popolare» e antiliberista ma che, così, ci si è finalmente liberati di uno Stato che da quasi quarant'anni si è sempre collocato sulla destra del panorama istituzionale dell'Unione, quale che fosse il partito di maggioranza.

3) I dati maggiori del referendum sono la vittoria non ampia del leave the Eu (per poco più di 1,2 milioni di votanti) e la chiarissima spaccatura geografica del voto. In Scozia il voto to remain ha raggiunto il 62%, vincente in tutte le circoscrizioni; in Irlanda del Nord il 56%. Il che obiettivamente crea una situazione imbarazzante per i nazionalisti «di sinistra», perché queste sono le due aree in cui l'aspirazione all'indipendenza dal Regno Unito è da sempre diffusa e intensa, specialmente in Irlanda del Nord dove, per decenni, si è espressa anche al livello della lotta armata. Eppure, il governo scozzese ha annunciato un secondo referendum per l'indipendenza, ma per restare nell'Unione europea; e il Sinn Féin, storico partito nazionalista irlandese e volto legale dell'Irish Republican Army, ha pure annunciato di voler lanciare un referendum per l'unificazione con l'Irlanda, implicitamente rientrando nella Ue. Nei distretti che hanno eletto deputati del Sinn Féin, il voto per restare nell'Unione ha raggiunto il 74% a Belfast West e il 60% in Mid Ulster. La conclusione paradossale è che in Scozia e in Irlanda del Nord l'essere membri dell'Ue è percepito come garanzia dei diritti nazionali, non il contrario. Si profila l'aggravarsi del conflitto fra nazionalismi dentro il Regno Unito.

mercoledì 22 giugno 2016

LA DEMOCRACIA COMO TRAGEDIA, por Enrique Contreras

Los escenarios que han aparecidos históricamente en Venezuela como en el resto de América Latina, acerca de las llamadas democracias, no expresan la verdadera identidad de lo que realmente deberían ser.
La razón colonial ha impedido a los pueblos que el ciudadano la ejerza en toda su dimensión humana –ontológicamente hablando- con su respectiva ética, valores, libertades, disidencias, antagonismos, realidades y sin eso que llaman estado.
Lo que los grupos dominantes llaman democracia, donde la gente vota pero nunca elige, el ciudadano no es autónomo, soberano y sin darse cuenta por esa cotidianidad tramposa que lo envuelve, renuncia a su propia libertad. Acepta de manera sumisa su condición de siervo, pues le teme al partido, al patrón o al gobierno porque puede perder su empleo o aspirar al mismo. Sabe y entiende que la clase que domina, de rebelarse contra ella, cuestionarla o criticarla pone en peligro su estabilidad económica y su movilidad social, eso hace que en el oscuro del subconsciente guarde su miedo.
La democracia que nos han impuesto a través de la razón colonial nos impide la igualdad ante la ley, ante las oportunidades, ante el llamado estado, estado que sólo ha servido para esconder las relaciones de poder y los privilegios de las clases políticas y económicas que impulsan esta tragedia.
Nuestra democracia ha sido simplemente una sombra, un eco, una mala copia de otra cultura política producto del colonialismo. “Mientras el europeo ha venido partiendo, hasta ayer, de la segura creencia en la universalidad de su cultura, nosotros hemos estado partiendo de la no menos segura creencia de la insuficiencia de la nuestra. Mientras Europa crea y recrea a sus clásicos nosotros ignoramos a los nuestros. Y los ignoramos porque partimos del falso supuesto que nos ofrece la comparación de lo nuestro con lo europeo. Partiendo de este supuesto nos empeñamos en no tener nuestros clásicos, sino los clásicos que nos ofrece Europa”. (Fuente: Leopoldo Zea, “Justificación de una tarea”, América como conciencia, México, UNAM, 1972.)

RUPTURA CREADORA

En medio de éste quehacer político hecho cotidianidad, todo esto nos parece normal, pero lo cierto que tales prácticas forman parte de los procesos colonizadores que hemos tenido, porque hasta el momento no existe en nuestros procesos históricos una ruptura creadora que rompa la relación dominante-dominado. Nos impusieron un modo de vida, nos “inventaron” la sociedad en que vivimos y crearon una “democracia” en el marco de una estructura jurídico-político que sólo ha servido para encadenar y condicionar la libertad, atrapando el libre pensamiento, el derecho a disentir, a crear y estableciendo claros privilegios entre los que conforman la sociedad en donde se desarrolla. Se formó en medio de esta “democracia” una clase política llena de privilegios económicos, nos entramparon y nos crearon partidos políticos que sólo han servido para consolidar los beneficios de la clase dominante y “legitimar” y consolidar los intereses de esa misma clase a nombre de progreso, desarrollo, civilización y libertad. Partidos políticos que surgieron para tener el control ideológico y político de la población son espacios panópticos para de esta manera amarrar el pensamiento y evitar los procesos descolonizadores y la rebelión de los saberes que buscan la emancipación de los pueblos.

mercoledì 15 giugno 2016

MUJERES CONDENADAS POR LAS RELIGIONES, por Marcelo Colussi

La cultura machista-patriarcal está hondamente arraigada en todas las sociedades del planeta. Es cierto que ya ha comenzado un cambio, lento todavía, pero sin pausa. De todos modos, es muchísimo lo que resta por avanzar aún. No está claro cómo seguirán esos cambios; en todo caso, en nombre de una justicia universal todas y todos debemos apoyarlos.
Lo que sí está claro es que las religiones -todas ellas- no juegan un papel precisamente progresista en ese cambio: más que ayudar a la igualación de las relaciones entre los géneros, promueven el mantenimiento de las más odiosas y repudiables diferenciaciones injustas (¿puede haber alguna diferenciación injusta que no sea odiosa y repudiable?).
Amparados en la pseudo explicación de “ancestrales motivos culturales”, podemos entender -jamás justificar- el patriarcado, los arreglos matrimoniales hechos por los varones a espaldas de las mujeres, el papel sumiso jugado por éstas en la historia, el harem, la ablación clitoridiana; podemos entender que una comadrona en las comunidades rurales de Latinoamérica cobre más por atender el nacimiento de un niño que el de una niña, o podemos entender la lógica que lleva a la lapidación de una mujer adúltera en el África.
En esta línea, entonces, podríamos decir que las religiones ancestrales son la justificación ideológico-cultural de este estado de cosas; las religiones en tanto cosmovisiones (filosofía, código de ética, manual para la vida práctica) han venido bendiciendo las diferencias de género, por supuesto siempre a favor de los varones. ¿Por qué los poderes, al menos hasta ahora, han sido siempre masculinos y misóginos? Esto demuestra que todas las religiones son machistas, nunca progresistas, nunca promueven la equidad real; y si hay diosas mujeres, como efectivamente las hay, la feligresía está atravesada por el más absoluto patriarcado. ¿Cuándo habrá una Papisa? La única que se cuenta en la historia de la Iglesia Católica -Juana I, nunca reconocida oficialmente por el Vaticano- fue linchada. Estamos ahora en el Siglo XXI, donde sin dudas se han empezado a producir cambios en la relación entre géneros, pero la misoginia sigue mandando.
Quizá en un arrebato de modernidad podríamos llegar a estar tentados de decir que las religiones más antiguas, o los albores de las actuales grandes religiones monoteístas, son explícitas en su expresión abiertamente patriarcal, consecuencia de sociedades mucho más “atrasadas”, sociedades donde hoy ya se comienza a establecer la agenda de los derechos humanos, incluidos los de las mujeres, sociedades que van dejando atrás la nebulosa del “sub-desarrollo”. Así, no nos sorprende que dos milenios y medio atrás, Confucio, el gran pensador chino, pudiera decir que “La mujer es lo más corruptor y lo más corruptible que hay en el mundo”, o que el fundador del budismo, Sidhartha Gautama, aproximadamente para la misma época expresara que “La mujer es mala. Cada vez que se le presente la ocasión, toda mujer pecará”.
Tampoco nos sorprende hoy, en una serena lectura historiográfica y sociológica de las Sagradas Escrituras de la tradición católica, que en el Eclesiastés 22:3 pueda encontrarse que “El nacimiento de una hija es una pérdida”, o en el mismo libro, 7:26-28, que “El hombre que agrada a Dios debe escapar de la mujer, pero el pecador en ella habrá de enredarse. Mientras yo, tranquilo, buscaba sin encontrar, encontré a un hombre justo entre mil, más no encontré una sola mujer justa entre todas”. O que el Génesis enseñe a la mujer que “parirás tus hijos con dolor. Tu deseo será el de tu marido y él tendrá autoridad sobre ti”, o el Timoteo 2:11-14 nos diga que “La mujer debe aprender a estar en calma y en plena sumisión. Yo no permito a una mujer enseñar o tener autoridad sobre un hombre; debe estar en silencio”.

domenica 12 giugno 2016

TERRORISMO SPETTACOLARE DI MASSA, di Roberto Massari

IN DUE LINGUE (Italiano, Portoghese)

La società portatrice di spettacolo non domina solo mediante l'egemonia economica le regioni sottosviluppate. Le domina in quanto società dello spettacolo… parte dello spettacolo totale… del funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale di compiti spettacolari…
(Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967)

Martedì 11 settembre 2001, ore 8,45: le Torri Gemelle di Manhattan esplodono e crollano al suolo colpite da due aerei di linea guidati da piloti suicidi della rete di al-Qaeda.
Il mondo non dimenticherà facilmente quella data, anche perché da allora le numerose foto che ritraggono le Torri avvolte dal fuoco si sono irreversibilmente trasformate in «foto-simbolo» della nostra epoca. In quanto tali vengono utilizzate in continuazione - e sempre di più lo saranno nel futuro - su una scala industriale e di massa. Continueranno ad essere sottoposte a serie infinite di riproduzioni, a variazioni grafiche d'ogni genere che non possiamo nemmeno lontanamente immaginare. Tali manipolazioni grafiche dipendono infatti dall'innovazione nel campo della tecnologia informatica e postcomputeristica, con le sue ricadute nel campo dell'internautica (la navigazione in Internet).
È un fenomeno che già da tempo si verificava col procedere così rassicurante dei lavoratori nel quadro del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (1901), con il fungo atomico di Hiroshima, con la maliziosa foto di Marilyn a gonne levate o con l'indimenticabile foto di Guevara ripresa da Korda. Stiamo parlando di «foto simbolo della nostra epoca» e non di foto soltanto celebri: vale a dire, foto che hanno uno straordinario potere evocativo; che comunicano direttamente con l'immaginario individuale e di massa; che sintetizzano nella frazione di un istante ottico-percettivo miriadi di parametri culturali e di coordinate spazio-temporali, per lo più remote e irriconoscibili (di fatto superflue); che alludono a «un prima» e a «un dopo» totalmente distaccati dall'oggetto occasionale dell'immagine (che rimane quindi arbitrario e disponibile per ogni possibile manipolazione).
È infatti la serialità - vale a dire la possibilità di riproduzione tecnica e di variazione grafica infinite (in presenza di condizioni di comprensibilità universale e generalizzata) - che in ultima analisi rende tali immagini foto-simbolo della nostra epoca.
E che simbolo, nel crollo delle Torri Gemelle!
Chi fosse stato in cerca di un logo con cui raffigurare agli occhi delle future generazioni il passaggio dal «secolo breve», ultimo del secondo millennio - il Novecento delle grandi colpe storico-sociali (nazifascismo, stalinismo, colonialismo, guerre mondiali) - alle angosce collettive per le incognite del terzo millennio, non potrà che dirsi soddisfatto. La più scatenata evocazione filmica di Armageddon potrà apparire solo acqua fresca in rapporto a quei filmati, a quelle immagini.
Dopo la tragedia, i giornali fecero a gara nello stabilire quali record fossero stati battuti: il record del maggior numero di vittime in un solo giorno (guerre e calamità naturali escluse); il primo attacco agli Usa, sul loro territorio, dal 1812; l'evento sanguinoso più intensamente coperto dai mass media, in rapporto alla sua breve durata; il maggior danno economico con una sola azione (perdite per 40 miliardi di dollari circa); l'estrema rappresentatività architettonico-urbanistica degli obiettivi prescelti; ma anche l'attentato più interetnico, con vittime di 87 paesi diversi (e più interclassista in rapporto al numero delle vittime - aggiungiamo noi, ponendoci in coda a questa macabra hit parade) e così via.

O ESPETÁCULO DO TERRORISMO DE GRANDES PROPORÇÕES, por Roberto Massari

IN DUE LINGUE (Italiano, Portoghese)
EM DUAS LÍNGUAS (Italiano, Português)

Não é somente pela sua hegemonia econômica que a sociedade portadora do espetáculo domina as regiões subdesenvolvidas. Domina-as enquanto sociedade do espetáculo ao nível do funcionamento global do sistema, numa divisão mundial das tarefas espetaculares.
(Guy Debord, A sociedade do espetáculo, 1967)

Terça-feira, 11 de setembro de 2001, 8h45: as Torres Gêmeas em Manhattan explodem e caem no chão após o impacto de duas aeronaves guiadas por pilotos suicidas da rede al-Qaeda.
O mundo não vai esquecer facilmente essa data, porque, desde então, inúmeras fotos que retratam as torres envoltas pelo fogo transformaram-se em "imagens-símbolo" da nossa época. Como tal, elas são utilizadas de forma contínua - e serão cada vez mais no futuro - em escala industrial e de massa. Continuar a ser submetido a uma série infindável de reproduções, em variações gráficas de todo o tipo que não podemos imaginar, mesmo remotamente. Tais manipulações gráficas dependem das inovações no campo da tecnologia e informática pós era da computação, com suas repercussões ao navegar pela Internet.
É um fenômeno que há muito se verifica com o progresso tão reconfortante dos trabalhadores no âmbito do Quarto Estado de Pellizza da Volpedo (1901), com a bomba atômica de Hiroshima, com a maliciosa foto de Marilyn com a saia do vestido voando ou com as inesquecíveis fotos de Guevara tiradas por Korda. Estamos falando de "imagens-símbolo de nossa época" e não apenas de imagens famosas: ou seja, fotos que têm um tremendo poder evocador; que se comunicam diretamente com a imaginação dos indivíduos e da coletividade; que em uma fração de segundos sintetizam os parâmetros culturais e coordenam o espaço-tempo, por mais remotas e irreconhecíveis (na verdade supérfluas); que aludimos "antes" e "depois" totalmente separados da imagem ocasional do objeto (que permanece arbitrária e, portanto, disponível para qualquer tipo de manipulação).
Na verdade, é a sequência - ou seja, a possibilidade de reprodução técnica de variações gráficas infinitas (na presença de condições de compreensão universal e generalizada) - que em última análise fazem dessas imagens símbolo da nossa época.
E que símbolo é a queda das Torres Gêmeas!
Como se estivesse à procura de uma marca que retratasse os olhos das gerações futuras para a transição do "século breve", o último do segundo milênio - o século XX dos grandes pecados históricos e sociais (nazifascismo, stalinismo, colonialismo, guerras mundiais) - as ansiedades coletivas para as dúvidas do terceiro milênio, não poderão ser respondidas. A mais bela evocação cinematográfica de Armageddon poderá parecer apenas algo banal para aqueles que filmaram tais imagens.
Depois da tragédia, os jornais competiram para determinar quais recordes foram batidos: o maior número de vítimas em um único dia (guerra e desastres naturais excluídos); o primeiro ataque contra os EUA, no seu próprio território, desde 1812; o evento mais sangrento e intensamente coberto pela mídia; o maior dano econômico em uma única ação (perda de 40 bilhões de dólares aproximadamente); a extrema representatividade arquitetônica-urbanística do alvo; mas também o ataque mais inter-étnico, com as vítimas originárias de 87 diferentes países (e o mais interclassista em relação ao número de vítimas - estamos nos incluindo nesta relação macabra).

martedì 7 giugno 2016

MIROSLAV TICHÝ: ELOGIO DELL'IMPERFEZIONE NELLA FOTOGRAFIA RANDAGIA DI UN FLÂNEUR, di Pino Bertelli

Il tempo di una mia passeggiata determina quello che voglio fotografare…
Io sono un profeta della decadenza e un pioniere del caos,
perché solo dal caos è possibile che emerga qualcosa di nuovo…
Il tuo pensiero è troppo astratto! La fotografia è qualcosa di concreto.
La fotografia è percezione, sono gli occhi che intravedi, e succede così velocemente che potresti non vedere
proprio nulla! Per raggiungere questo, ti serve innanzitutto una pessima macchina fotografica!…
Prima di tutto è necessario avere una macchina fotografica scadente…
Se vuoi essere famoso, è necessario fare qualcosa peggio di chiunque altro al mondo…
Tutti i disegni sono già stati disegnati, tutti i dipinti sono già stati dipinti, cos'era rimasto per me?
(Miroslav Tichý)

I. SULLA FOTOGRAFIA RANDAGIA DI UN FLÂNEUR

Bisogna amarla molto la fotografia, per volerla distruggere… la coscienza della fotografia dominante è coscienza del mito che ne consegue… la creatività liberata dai cenacoli dello spettacolo è per essenza rivoluzionaria. «La funzione dello spettacolo ideologico, artistico, culturale, consiste nel trasformare i lupi della spontaneità in pastori del sapere e della bellezza»1 (Raoul Vaneigem) condannati a morte. Di fotografi del consenso sono lastricati gli annali e le antologie della fotografia insegnata, galleristica o museale… la storia li conserva così perfettamente nella gelateria della loro durata che si dimentica di leggere o intendere, meglio ancora, di comprendere la messe di banalità sulle quali ogni fotografo (non importa che sia di successo, anche un fotoamatore con la spocchia imprenditoriale fa lo stesso) ha diritto a un posto nel confortorio dell'imbecillità. Ogni apocalisse fotografica è bella di una bellezza uccisa o del suo contrario! Ogni storia va rifatta al rovescio… i ribelli non hanno bisogno di conoscersi per pensare la stessa cosa! la liquidazione della civiltà parassitaria (finanziaria, ideologica, religiosa, sapienziale) non merita di essere in alcun modo difesa, ma va aiutata a cadere. La fotografia, tutta la fotografia, o attende alla libertà dell'uomo o è il boia che lo impicca.
Sulla fotografia dell'imperfezione. Le immagini dell'imperfezione esprimono una fare-fotografia che smaschera le ipocrisie della fotografia come apologia del bello e toglie i veli all'avvenimento, alla maschera, al ruolo… risveglia l'estraniamento brechtiano della presenza che lo obbliga a prendere decisioni e comunicare conoscenze e argomentazioni… la fotografia dell'imperfezione è l'immagine rovesciata della realtà prostituita alle codificazioni del mercato dell'arte e della politica. «La pretesa di fare arte è sempre stata la prerogativa dei mercanti di fotografie» (Gisèle Freund). Ora tocca ai fotografi dell'imperfezione fare della fotografia millantata la cloaca di tutte le stupidità fantasmate come successo artistico. La fotografia non pensa quello che sa, può pensare soltanto quello che ignora. L'ignoranza del sapere è immensa! Il divenire degli spiriti liberi è nella fotografia dell'indignazione! Sotto il sole della fotografia paludata trionfa una primavera di carogne.
Da qualche parte abbiamo scritto: «La Bellezza non può entrare nell'arte se lo spirito dell'individuo non è ancorato alla sua opera e non riflette la decostruzione del sacro. La Bellezza ha a che fare con la nuda anarchia dell'immaginazione… la via alla Bellezza comincia nell'incontro d'amore tra le genti… camminare insieme alla Bellezza significa opporsi a tutto quanto si mostra come negazione del piacere o rituale del puritanesimo mercantile delle idee». La bellezza dell'imperfezione (in fotografia e dappertutto) si schiude alla veridicità del suo dolore e fa della fierezza il luogo di pubblico passaggio, come possiamo vedere e restare abbagliati nella poetica libertaria e libertina delle fotografie di Miroslav Tichý. La fotografia dell'imperfezione sboccia nel mondo con il bene dei giusti e combatte - con tutti i mezzi necessari - l'origine del male.

lunedì 6 giugno 2016

¿REFUNDACIÓN DEL ESTADO O REVOLUCIÓN?, por Marcelo Colussi

Algunos años atrás se hablaba de lucha de clases. Hoy, de democracia. Para aquella época –unas dos o tres décadas atrás– se hablaba de poder popular; hoy se habla de participación ciudadana. Años atrás se hablaba de Marx, con x al final; ahora se habla de Marc’s (métodos alternativos de resolución de conflictos). Antes se hablaba de revolución. ¿Ahora se habla de refundación del Estado?
La derecha política se ha ido apropiando paulatinamente de lo que años atrás era el discurso de la izquierda. Eso es gatopardismo: cambiar algo para que no cambie nada. Hoy, abiertamente y sin ningún temor, los organismos financieros internacionales como el Banco Mundial o el Fondo Monetario Internacional pueden denunciar la situación económica del mundo y hablar de lucha contra la pobreza. Eso puede parecer loable; pero ¡cuidado! Luchar contra la pobreza no es lo mismo que luchar contra la injusticia, contra las verdaderas causas que producen la pobreza.
En ese orden de cosas, hoy día en Guatemala comenzó a hablarse (demasiado insistentemente quizá) de “refundación del Estado”. Ante todo, como punto mínimo, partamos por definir qué es eso del Estado. Y ahí sigue siendo absolutamente válida la definición dada por Vladimir Ilich Ulianov (Lenin) en 1917 en su texto El Estado y la revolución: “Producto del carácter irreconciliable de las contradicciones de clase”. En otros términos: es el aparato que sirve para mantener la dominación de clase.
En cualquier parte del mundo, y en Guatemala en particular, podrá discutirse mucho sobre el carácter del Estado imperante. Pero en cualquier parte se repite siempre la misma función: el Estado es el garante de la explotación de una clase sobre otra. Para eso está, no para otra cosa. La provisión de servicios básicos es su responsabilidad, y a veces (en el Norte próspero) eso se cumple. En el Sur –y tomemos el caso de Guatemala– eso es una quimera. En el Norte los Estados tienen hasta un 60% de recaudación fiscal sobre el producto interno bruto. En el país centroamericano no llega al 10%. ¿Cómo podría funcionar así ese Estado?
En otros términos: los Estados de los países pobres (la abrumadora mayoría del mundo) a duras penas brindan algún servicio, pero están siempre listos para mantener los privilegios de las clases dominantes (léase: reprimir la protesta popular). En Guatemala –típico banana country, plagado históricamente de dictaduras militares y corrupción, con una oligarquía extremadamente rica sobre la base de una población extremadamente pobre– el Estado estuvo ausente de la solución de los problemas básicos; Estado racista, centrado en la defensa de la agroexportación, de espaldas a la población indígena, sin la más mínima presencia en buena parte del territorio nacional (falta de escuelas, de centros de salud, de caminos, de planes de contingencia antes eventos naturales) no falló al momento de reprimir brutalmente durante la guerra interna. En otras palabras: no es un Estado fallido (término puesto de moda recientemente). Es un Estado ausente, que solo sirve para mantener inalterables las contradicciones de clase, los privilegios.

sabato 4 giugno 2016

MUHAMMAD ALI: HA PARTIDO UN ÍCONO…, por Nechi Dorado

Joe Frazier y Muhammad Ali, 1971
Ha partido para siempre Muhammad Ali -Cassius Clay-, el boxeador de quien se decía “vuela como mariposa, pica como abeja”.
Un hombre despreciado en su tierra por ser negro (sabido es que en la tierra que lo vio nacer se despreció siempre la vida).
Un hombre que desde niño supo que debía aprender a defenderse en una sociedad hostil donde la negritud es un estigma.
Ha muerto un hombre que a los 18 años, habiendo logrado una medalla de oro para los Estados Unidos en los Juegos Olímpicos, no pudo sentarse en un restaurante para blancos, por lo que sin más y sin miedo arrojó la medalla al río, seguramente pensando que su dignidad era más valiosa que el oro.
Un hombre que no quiso seguir utilizando el apellido Clay, porque había sido impuesto por los terratenientes que esclavizaron a sus ancestros. Y eligió ser Muhammad Ali.
Un hombre que se negó a ir la Guerra de Vietnam, dando lugar a que la asociación de boxeo gringa le quitara el título de los pesos pesados, además de ejecutarle la suspensión para practicar el deporte que lo consagró, durante más de tres años.
Ha muerto un hombre, nace una leyenda. Quedan en las páginas del boxeo mundial sus alas de mariposa y el aguijón que supo clavar en las entrañas de un país donde el odio dejó estampado su cordón umbilical.

VUELA TRANQUILO CAMPEÓN!!
SEGUIRÁS AGUIJONEANDO LA HISTORIA!!

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

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a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.