L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

PER SAPERNE DI PIÙ CI SONO UNA COLLANA DI LIBRI E UN BLOG IN VARIE LINGUE…

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domenica 30 dicembre 2012

DUE OTTAVE E UN DISTICO A MO' DI AUGURIO PER IL 2013, di Gualtiero Via

Parliamo di utopia in fondo, per dire
che il mondo non è piatto, e c'è un futuro,
o che l'essere umano può capire
che un modo c'è, di vivere, men duro
di quel che al sol denaro ha da servire.
Non può la vita farsi un cieco muro
perché manca il lavoro: ciò è sbagliato
e servo è chi lo nega: “ma è il mercato!”

Torniamo invece a dire: non è dato
che al capitale s'abbia ad esser schiavi.
Chi a ciò s'è ribellato nel passato
rifulge in mezzo a tutti i nostri avi.
A chi a questa rivolta ha rinunciato
chiediamo: è il tuo destino tra gli ignavi?
Noi di Utopia Rossa non ci stiamo
e insieme, a mente aperta, combattiamo.

Che sia l'anno che inizia assai diverso
chi a questo lotta è vivo, non è perso.


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

giovedì 20 dicembre 2012

APROXIMACIÓN AL TIEMPO, por Tito Alvarado

Me han pedido esta nota, ignoro cuantas personas la leerán y por lo mismo ignoro si tendrá impacto. Creo que el impacto es algo así como una fuerza que choca con otra. A diario vemos estos impactos que son un chispazo leve, un pequeño polvo que se levanta, hasta algo mayor, dentro de lo pequeño, metafóricamente hablando, pues la tierra es un grano de arena en un espacio infinito donde hay cifras imposibles de escribir de granos de arena y hasta rocas mayores. Que en nuestra realidad un auto choque con otro, es un impacto mayor, en lo pequeño, y que de ese impacto no quede nada reconocible, incluidos los ocupantes, nos habla solamente de la fragilidad de las cosas y las personas.

Entonces decíamos que ignoro el impacto, de esta ignorancia me salva el saber que en la comunicación escrita hay desde lo que impacta y ocupa un breve tiempo y desaparece hasta aquello que lentamente va abriéndose paso en la mente de la gente hasta que logra el impacto de un cambio permanente.

Dice Nathan Hagens en su libro La espina en la dorsal columna del saber:
“En los 70 tuvimos una crisis de recursos y para combatirla optamos por ir hacia una economía basada en el crédito. Hicimos del dólar el patrón global y creamos cantidades masivas de deuda pública y privada. Pero ahora nos enfrentamos con límites en ambas: una verdadera crisis en la que los conductores del crédito y los recursos ya no son lo que se necesita para alimentar el crecimiento. Así que no creo que haya ninguna posibilidad de que vayamos a crecer en el futuro, a partir de estos niveles. Y creo que hay una relación clara, pero no reconocida, entre dinero y energía. El dinero es una reclamación de energía y recursos futuros. La deuda es una reclamación sobre dinero futuro. La deuda no crea energía, pero su disponibilidad nos permite extraer la energía existente más rápidamente. Así como los pozos de perforación horizontal y la inyección de nitrógeno en un campo como Cantarell extraen más petróleo temporalmente a cambio de un declive más rápido, la deuda hace lo mismo con la economía. En este caso, la economía mundial.”
Quizá como un consuelo más que una solución nos resume en cuanto a la respuesta de la gente: “creo que la gente debería ser más activa e involucrarse más en prepararse física y emocionalmente para un mundo con menos… creo que si hubiese un 5 o 10% de gente que de forma clara y transparente fuese en esa dirección, muchos otros les seguirían.”

martedì 18 dicembre 2012

VENEZUELA SIN CHÁVEZ, por Marcelo Colussi

Plantearse cómo sería por ejemplo Estados Unidos sin Barack Obama, o Alemania sin Angela Merkel; o si se quiere, extremando las cosas, cómo serían Bourkina Fasso o Turkmenistán sin sus actuales mandatarios (que seguramente los lectores de este artículo ni sabremos quiénes son), ya nos da una pista: lo más probable es que cualquiera de estos países, ricos y poderosos o pobres y olvidados, no sufrirán ninguna alteración con los jefes de Estado que sucederán a los actuales. No es lo mismo en el caso del país caribeño. Venezuela sin Chávez puede implicar cualquier escenario: guerra civil, guerra interna en las filas del Psuv, retroceso en las conquistas populares, quizá avance y profundización en el proceso socialista. Pero de lo que podemos estar seguros es que, sin Chávez, las cosas no van a continuar sin cambios.
Lo que viene sucediendo en la República Bolivariana de Venezuela desde hace casi una década y media no admite parangón; el proceso en marcha -una transformación de las relaciones político-sociales que, sin ser una revolución al estilo de los socialismos conocidos, permite un nivel de vida sustancialmente mejorado para las grandes mayorías populares-, sin que entremos a evaluarlo aquí en relación a otras experiencias socialistas conocidas, todo ello se liga indisolublemente a la figura de Hugo Chávez.
Sin la menor duda, la figura de Chávez es ya un ícono de fines del siglo XX e inicios del XXI. Fue él quien, luego de los terribles años en que se implementaron los planes de capitalismo salvaje eufemísticamente llamados “neoliberalismo” o “globalización neoliberal”, volvió a poner en agenda una actitud de protesta, desaparecida para entonces en cualquier gobernante. Fue él quien, a su muy particular modo, trajo nuevamente a escena las ideas de socialismo. Fue él quien, con sus políticas redistributivas, volvió a dar protagonismo a los sectores populares de su país natal, contribuyendo así, directa o indirectamente, a un resurgir del campo popular latinoamericano. Negar o subestimar su papel en todas estas nuevas dinámicas es imposible.

lunedì 17 dicembre 2012

EDUCARE ALLA LIBERTÀ (VIII), di Alessandro Gigli

Conclusioni

“La scuola, anticamera della fabbrica e della caserma, è il luogo dove si inculcano le prime forme di disciplina che regolerà la vita dell’adulto. Alla costrizione fisica corrisponde la perversione del senso morale: si esaltano, attraverso la storia, i delitti, il furto e la violenza; si istillano ammirazione per i grandi conquistatori e disprezzo verso gli spiriti ribelli che hanno lottato, soccombendo,per la libertà e l’emancipazione dell’individuo; si insegna a venerare i ricchi e a odiare le vittime della tirannia e dell’intolleranza politica”.
(documento del comitato per un insegnamento libertario: Reclus, Michel, Grale, Malato, Degalves, Giraud, Kropotkin, Ferriere,Tolstoj. Parigi 1898)

Credo di aver fornito con i miei testi precedenti un buon punto di partenza per approfondire il discorso sul concetto di una buona e giusta educazione, adatta a un vero cambiamento di prospettiva e che serva al primo atto rivoluzionario di base: vale a dire la rivoluzione culturale, educativa, relazionale per poter vivere vite autentiche in società solidali e libere da imposizioni esterne, cioè non eterodirette.
Nella scuola contemporanea, gli insegnanti con una formazione culturale come la mia sono molto rari e guardati a vista dal potere istituzionale.
Nella mia scuola, per esempio, sono costretto a guardarmi le spalle non dagli alunni, con i quali ho ottimi rapporti umani, ma dai colleghi spesso invidiosi del fatto che sono il prof  più stimato e amato dai ragazzi.
Loro, i colleghi, pensano che questo accada perché con me sono liberi di essere se stessi e di autogestire la loro vita in palestra, concretizzando i propri desideri e le proprie  inclinazioni.
Con me non esistono “casi gravi”, mentre per tutti gli altri insegnanti molte classi risultano ingovernabili, insubordinate, apatiche, rivoltose, non-motivate.
Purtroppo, non c’è mai il minimo accenno all’autocritica e al mettersi in discussione, perché quando si rovina il rapporto insegnante-alunno, la colpa viene fatta ricadere sempre e comunque sull’alunno o sui genitori di quest’ultimo.
Nelle riunioni pomeridiane in cui si valutano il comportamento e lo studio delle varie classi, spesso viene fuori, per chi vuol capire, che sono proprio gli insegnanti che non conoscono il vero scopo dell’educazione e il vero valore di questo concetto.
Molti, quasi tutti, non conoscono né la metodologia , né la psicologia dell’età evolutiva, né hanno riferimenti culturali e pedagogici concreti e profondi.
Oltre a ciò, non conoscono affatto l’organizzazione sociale odierna, chi la dirige e chi ha messo le mani sulla scuola per sottoporla alle dipendenze del mercato e del consumo, cioè alle dipendenze del capitale. La prima e più importante lotta di classe la si dovrebbe iniziare proprio dalla scuola, laddove cioè, si manipola e si modifica il bambino sino a farlo diventare uno strumento adatto al consenso e allo status quo. Questo indottrinamento psicologico fa entrare in società individui inadatti anche ad un minimo pensiero o aspirazione alla trasformazione sociale, avendo interiorizzato l’organizzazione gerarchica, l’eterodirezione e l’omologazione in consumatori bisognosi.
L’educazione alla libertà rompe le catene dei condizionamenti sociali, libera i desideri, aiuta a collaborare invece che competere, serve a dare quegli strumenti di emancipazione e liberazione  frutto dell’autogestione solidale che porta all’autonomia e alla responsabilità individuale e collettiva. Ma la libertà fa paura a molti e la lettura di un libro fondamentale come Fuga dalla libertà di Erich Fromm, potrà aiutarvi a capire quale ad esempio è stato il substrato psicologico di massa che ha contribuito al consenso delle brutali dittature del ‘900.
Se non si viene educati alla libertà è quasi impossibile che gli umani abbiano desiderio di questo valore primario, e la società, così com’è andrà sempre bene, magari con qualche piccolo cambiamento parcellare per chi  si sente “buon elettore di sinistra” come lo chiamava lo scomparso Massimo Bontempelli, con la sua amara ironia, nel secondo volume della collana di libri “Utopia rossa”.
Sto cercando di diffondere il modello educativo libertario a quei pochi colleghi che pur avendo interiorizzato la “religione della scuola” stanno cominciando a capire che se le cose non vanno non è per colpa dei ragazzi, ma per responsabilità oggettive e soggettive di una scuola sbagliata nei suoi princìpi fondanti, nei suoi metodi, nei suoi scopi.
Il lavoro è più che duro, anche perché sono solo, ma non mi arrendo e lotterò con tutte le risorse fisiche e mentali che ho per  educare le nuove generazioni al desiderio di cambiare il mondo. I sogni o le utopie rimangono tali solo se non si cerca il modo di concretizzarli, con calma, senza fretta, lasciando che i semi maturino.

giovedì 13 dicembre 2012

mercoledì 12 dicembre 2012

martedì 11 dicembre 2012

EL NARCOTRÁFICO: UN ARMA DEL IMPERIO, 1, por Marcelo Colussi



Indice
Introducción
El narcotráfico: un problema social
Algunas preguntas
El narcotráfico como estrategia política
  1 Mucho dinero!
  2 Una transnacional muy poderosa
  3 El botín y sus consecuencias
  4 La sociedad controlada
  5 Dominación versus resistencia
  6 Mesa redonda sobre el narcotráfico
A modo de conclusión: ¿qué hacer?
Entrevistas
  1 Un campesino cocalero
  2 Un toxicómano
  3 Un narcotraficante
Un funcionario del gobierno estadounidense…
Bibliografía
Introducción

Narcotráfico: según el Diccionario de la Real Academia Española, “Comercio de drogas tóxicas en grandes cantidades”. Según la enciclopedia electrónica Wikipedia: “Delito contra la salud pública, consistente en la realización, normalmente con fines lucrativos, de actos que sirvan para promover, favorecer o facilitar el consumo ilegal de drogas naturales o sintéticas, ya sean estupefacientes, psicotrópicos o de cualquier otro tipo. Se trata de acciones que, aunque recogidas y definidas de forma muy diversa, están contempladas en las diferentes legislaciones como hechos ilícitos y son objeto de represión tanto en el ámbito interno como internacional. Todas ellas son englobadas habitualmente bajo la denominación de narcotráfico”.

El tema que vamos a abordar es particularmente complejo. Lo es, como mínimo, en dos sentidos. Por un lado, por la cantidad de aristas que se entrecruzan en su determinación, en su dinámica, en su proyección en el tiempo. Se articulan ahí cuestiones de orden subjetivo tanto como objetivo; hay aspectos psicológicos, sociales, criminales, legales y políticos en juego. En otros términos: estamos ante una verdadera maraña de causas y efectos. Ello, por sí mismo, ya constituye un gran problema para la investigación, pues el fenómeno en su conjunto no admite una lectura única, monocausal, sino que debe ser abordado siempre en esta multitud de facetas. Si se trata de un delito, ello ya nos plantea un enorme reto conceptual.

Justamente por esa amplia diversidad de factores intervinientes es muy complejo el abordaje metodológico. Ahí está, por tanto, el segundo gran problema: ¿qué priorizar?, ¿insistir en lo sociológico sobre lo subjetivo-individual?, ¿tomarlo como un hecho del ámbito policial, o incluso militar? Si el narcotráfico es una estrategia implementada por grandes centros de poder, tal como queremos manifestar: ¿cómo hacerlo evidente? ¿Qué bibliografía de apoyo utilizar? ¿Cómo demostrar eso? Los aspectos políticos presentes en todo esto son algo que, en todo caso, se pueden ir deduciendo, pero que difícilmente figurarán en documentos de acceso público. ¿De qué manera, entonces, demostrar la lógica interna de todo este entramado? ¿Cómo hacer evidente lo que se quiere señalar siendo que estamos ante iniciativas políticas casi secretas? ¿Cómo pasar del hecho delictivo cotidiano a la estrategia global de poderosos centros de decisión mundial? ¿Dónde buscar esa información?

venerdì 7 dicembre 2012

LAS MAQUILAS EN LATINOAMÉRICA: UNA NUEVA FORMA DE ESCLAVITUD, por Marcelo Colussi


«Por una camisa marca GAP un consumidor canadiense paga 34 dólares, mientras en El Salvador una obrera gana 27 centavos de dólar por confeccionarla en una planta maquiladora.»

Organización Internacional del Trabajo


Permítasenos comenzar con esta cita escuchada a dos obreras de maquila en El Salvador (Centroamérica): "Con estas condiciones de trabajo parece que volvemos al tiempo de la esclavitud", afirma una de ellas, respondiendo la otra: "¿Volvemos? Pero… ¿cuándo nos habíamos ido?".


Entre los años 60 y 70 del siglo pasado comienza el proceso de traslado de parte de la industria de ensamblaje desde Estados Unidos hacia América Latina. Para los 90, con el gran impulso a la liberalización del comercio internacional y la absoluta globalización de la economía, el fenómeno ya se había expandido por todo el mundo, siendo el capital invertido no sólo estadounidense sino también europeo y japonés. En Latinoamérica, esas industrias son actual y comúnmente conocidas como "maquilas" (maquila es un término que procede del árabe y significa "porción de grano, harina o aceite que corresponde al molinero por la molienda, con lo que se describe un sistema de moler el trigo en molino ajeno, pagando al molinero con parte de la harina obtenida"). Esta noción de maquila que se ha venido imponiendo desde algunos años invariablemente se asocia a precariedad laboral, falta de libertad sindical y de negociación, salarios de hambre, largas y agotadoras jornadas de trabajo y –nota muy importante– primacía de la contratación de mujeres. Esto último, por cuanto la cultura machista dominante permite explotar más aún a las mujeres, a quienes se paga menos por igual trabajo que los varones, y a quienes se manipula y atemoriza con mayor facilidad (un embarazo, por ejemplo, puede ser motivo de despido). 

Estas industrias, en realidad, no representan ningún beneficio para los países donde se instalan. Lo son, en todo caso, para los capitales que las impulsan, en tanto se favorecen de las ventajas ofrecidas por los países receptores (mano de obra barata y no sindicalizada, exención de impuestos, falta de controles medioambientales). En los países que las reciben, nada queda. A lo que debe agregarse que es tan grande la pobreza general, tan precarias las condiciones de vida de estos países, que la llegada de estas iniciativas más que verse como un atentado a la soberanía, como una agresión artera a derechos mínimos, se vive como un logro: para los trabajadores, porque es una fuente de trabajo, aunque precaria, pero fuente de trabajo al fin. Y para los gobiernos, porque representan válvulas de escape a las ollas de presión que resultan sociedades cada vez más empobrecidas y donde la conflictividad crece y está siempre a punto de estallar. Dato curioso (u observación patética): algunas décadas atrás en la región se pedía la salida de capitales extranjeros y era ya todo un símbolo la quema de una bandera estadounidense; hoy, la llegada de una maquila se festeja como un elemento "modernizador".  

La relocalización (eufemismo en boga por decir "ubicación en lugares más convenientes para los capitales") de la actividad productiva transnacional es un fenómeno mundial y se ha efectuado desde Estados Unidos hacia México, América Central y Asia, pero también desde Taiwán, Japón y Corea del Sur hacia el sudeste asiático y hacia Latinoamérica, con miras a abastecer al mercado estadounidense, en principio, y luego el mercado global, tal como va siendo la tendencia sin marcha atrás del capitalismo actual. En el caso de Europa, las empresas italianas, alemanas y francesas primero trasladaron sus actividades productivas hacia los países de menores salarios como Grecia, Turquía y Portugal, y luego de la caída del muro de Berlín a Europa del Este. Actualmente se han instalado también en América Latina y en el África.

Las empresas maquiladoras inician, terminan o contribuyen de alguna forma en la elaboración de un producto destinado a la exportación, ubicándose en las "zonas francas" o "zonas procesadoras de exportación", enclaves que quedan prácticamente por fuera de cualquier control. En general no producen la totalidad de la mercadería final; son sólo un punto de la cadena aportando, fundamentalmente, la mano de obra creadora  en condiciones de super explotación laboral. Siempre dependen integralmente del exterior, tanto en la provisión de insumos básicos, tecnologías y patentes, así como del mercado que habrá de absorber su producto terminado. Son, sin ninguna duda, la expresión más genuina de lo que puede significar "globalización": con materias primas de un país (por ejemplo: petróleo de Irak), tecnologías de otro (Estados Unidos), mano de obra barata de otro más (la maquila en, por ejemplo, Indonesia), se elaboran juguetes destinados al mercado europeo; es decir que las distancias desaparecen y el mundo se homogeniza, se interconecta. Ahora bien: las ganancias producidas por la venta de esos juguetes, por supuesto que no se globalizan, sino que quedan en la casa matriz de la empresa multinacional que vende sus mercancías por todo el mundo, digamos en Estados Unidos.
En el subcontinente latinoamericano, dada la pobreza estructural y la desindustrialización histórica, más aún con el auge neoliberal que ha barrido esta región estas tres últimas décadas, los gobiernos y muchos sectores de la sociedad civil claman a gritos por su instalación con el supuesto de que así llega inversión, se genera ocupación y la economía nacional crece. Lamentablemente, nada de ello sucede.
En realidad las empresas transnacionales buscan rebajar al máximo los costos de producción trasladando algunas actividades de los países industrializados a los países periféricos con bajos salarios, sobre todo en aquellas ramas en las que se requiere un uso intensivo de mano de obra (textil, montaje de productos eléctricos y electrónicos, de juguetes, de muebles). Si esas condiciones de acogida cambian, inmediatamente las empresas levantan vuelo sin que nada las ate al sitio donde circunstancialmente estaban desarrollando operaciones. Qué quede tras su partida, no les importa. En definitiva: su llegada no se inscribe –ni remotamente– en un proyecto de industrialización, de modernización productiva, más allá de un engañoso discurso que las pueda presentar como tal.
Toda esta reestructuración empresarial se produce en medio de no pocos conflictos sociales en los países del Norte, pues cientos de fábricas cierran y dejan desocupados a miles de trabajadores. Por ejemplo, en la década del 90 del pasado siglo más de 900.000 empleos se perdieron en Estados Unidos en la rama textil y 200.000 en el sector electrónico. El proceso continúa aceleradamente, y hoy día las grandes transnacionales buscan maquilar prácticamente todo en el Sur, incluso ya no sólo bienes industriales sino también partes de los negocios de servicios. De ahí que, para sorpresa de nosotros, latinoamericanos, se vea un crecimiento exponencial de los llamados call centers en nuestros países: super explotación de la mano de obra local calificada que domina el idioma inglés, siempre jóvenes. En definitiva: otra maquila más.

Todo esto permite ver que en el capitalismo actual, llamado eufemísticamente "neoliberal" (capitalismo salvaje, sin anestesia, para ser más precisos), las grandes corporaciones actúan con una visión global: no les preocupa ya el mercado interno de los países donde nacieron y crecieron, sino que pueden cerrar operaciones allí despidiendo infinidad de trabajadores –que, obviamente, ya no serán compradores de sus productos en ese mercado local– pues trasladan las maquilas a lugares más baratos pensando en un mercado ampliado de extensión mundial: venden menos, o no venden, en su país de origen, porque sus asalariados ya no tienen poder de compra, pero venden en un mercado global, habiendo producido a precios infinitamente más bajos.

El fenómeno parece no detenerse sino, al contrario, acrecentarse. La firma de tratados comerciales como los actuales TLC’s (Tratado de Libre Comercio) entre Washington y determinados países latinoamericanos, no son sino el escenario donde toda la región apunta a convertirse en una gran maquila. Las consecuencias son más que previsibles, y por supuesto no son las mejores para Latinoamérica: en el trazado del mapa geoestratégico de las potencias, y fundamentalmente de los capitales representados por la Casa Blanca, nuestros países quedan como agro-exportadores netos (productos agrícolas primarios, recursos minerales, agua dulce, biodiversidad) y facilitadores de mano de obra semi-esclava para las maquilas. 

En alguna medida, y salvando las distancias de la comparación, China también apuesta a la recepción de capitales extranjeros ofreciendo mano de obra barata y disciplinada; en otros términos: una gigantesca maquila. La diferencia, sin embargo, está en que ahí existe un Estado que regula la vida del país (con características de control fascista a veces), ofreciendo políticas en beneficio de su población y con proyectos de nación a futuro. No entraremos a considerar ese complejo engendro de un "socialismo de mercado", pero sin dudas toda esta re-ingeniería humana desarrollada por el Partido Comunista ha llevado a China a ser la segunda potencia económica mundial en la actualidad, y ahora se habla de comenzar a volcar esos beneficios a favor de las grandes mayorías paupérrimas. Por el contrario, las maquilas latinoamericanas no han dejado ningún beneficio hasta la fecha para las poblaciones; en todo caso, fomentan la ideología de la dependencia y la sumisión. Eso es el capitalismo en su versión globalizada, por lo que sólo resta decir que la lucha popular, aunque hoy día bastante debilitada, por supuesto que continúa.

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martedì 4 dicembre 2012

EDUCARE ALLA LIBERTÀ (VII), di Alessandro Gigli


Il mio percorso di insegnante

“Oggi si confonde la scuola con l’educazione, come un tempo si confondeva la Chiesa con la religione” (Ivan Illich)


L’educazione fisica
C’è una materia che gli scolari amano a priori: l’educazione fisica. Purtroppo però, anche questa materia può essere insegnata in maniera tradizionale, istituzionale e spesso assomiglia all’addestramento militare sia nella forma che nella sostanza.
File ordinate, schieramenti, petto in fuori e pancia in dentro, fischietti, cronometri, divise ecc. ecc, tutto questo ricorda l’attività fisica dei percorsi di guerra con il sergente istruttore che insulta a più non posso chi non riesce nella giusta esecuzione.

Molti colleghi della mia materia, educazione fisica, o assomigliano a quel sergente o lanciano un pallone e poi si mettono a leggere il giornale: autoritarismo e permissivismo sono due facce della stessa medaglia, non educano nessuno. E mentre il primo produce risentimento e odio, il secondo caos, disinteresse e noia.
All’inizio della mia carriera di insegnante ero sì diverso dai miei colleghi, ma certamente conservavo delle caratteristiche più autoritarie in quanto i miei riferimenti pedagogici e culturali erano perlopiù istituzionali anche se considerati progressisti e moderni.
Sicuramente non ero uguale agli altri, ma ancora non avevo intrapreso quel percorso di letture e conoscenze attraverso il quale  sono arrivato a capire, apprezzare e proporre l’educazione alla libertà e alla gioia di vivere e muoversi. Cercavo il dialogo con i ragazzi, proponevo esercitazioni particolari e cercavo di stimolarli continuamente, anche se mi arrabbiavo troppo, alzavo troppo la voce e mi sentivo frustrato se qualcuno non voleva partecipare alle lezioni o non s’impegnava. Man mano che passava il tempo e facevo esperienze, ho iniziato ad interessarmi di politica e a leggere testi di Ivan Illich, Raoul Vaneigem, Bertrand Russell ecc., tutti sulla pedagogia antiautoritaria e il modo corretto di intendere l’educazione e l’istituzione scolastica.

Un nuovo modo di essere educatore
Dentro di me già tutto era predisposto per assorbire, digerire e criticare all’occorrenza questa nuova cultura. Infatti iniziai a sperimentare un nuovo modo di essere educatore, nonostante le resistenze e i pregiudizi dei colleghi e dei dirigenti fossero molto forti, e anche con i ragazzi stentavo a farmi capire ed apprezzare, abituati a confondere libertà con licenza di fare tutto quello che avevano voglia di fare senza alcun rispetto per gli altri.
Sono stati anni difficili, non solo come insegnante ma anche come uomo: era cessato un rapporto con una donna per me molto importante, ero uscito da Rifondazione comunista perché non avevo più fiducia nel partito e nei compagni; stavo avvicinandomi al pensiero libertario, anarchico, situazionista, trovando in essi un valido supporto e vicinanza  con la mia personalità e il mio modo di vivere e pensare.
Questo percorso  nuovo e impegnativo mi ha fatto arrivare a quello che sono oggi: un educatore alla libertà, all’autonomia, alla responsabilità e all’autogestione della vita motoria e sportiva (insegno ginnastica artistica al di fuori della scuola e faccio il preparatore atletico di base per ogni tipo di sport).
Cambiando metodo di insegnamento, quello che si è modificato di più è il grado di stress e tensione dopo 5 ore di lezione: una volta arrivavo a casa sfinito e provato, oggi sereno e spesso felice. Sono cambiate tante cose in meglio naturalmente, ma non solo per me, soprattutto per i ragazzi che possono trascorrere 1 o 2 ore lontani dalle assurde pretese di una scuola che li vuole come tanti soldatini efficienti e ubbidienti, tutti uguali, soffocando i loro interessi, le loro inclinazioni e i loro intimi desideri.
La scuola soffoca, indottrina, violenta, distrugge le diversità, i cuori, le pulsioni, snatura i piccoli esseri e li omogeneizza e li conforma al volere degli adulti, del sistema, del capitale.
Io cerco con tanta fatica e passione di liberarli da queste catene per non fargliele portare dietro al di fuori della scuola, nella società.
Il lavoro è quasi disumano, soprattutto per la diffidenza, se non l’ostilità dei colleghi, ormai sedotti dalla religione della scuola istituzionale e repressiva, imbrigliati in un immaginario fatto di premi e castighi, approvazioni e punizioni, tutti alla ricerca dell’omologazione forzata degli ex spiriti liberi in cani di Pavlov. Ed ecco la scuola al servizio del salario e del lavoro, della posizione sociale gerarchica cucita addosso ad ognuno: i cosiddetti meritevoli in classe dirigente, tutti gli altri in scarti di magazzino, braccia al servizio dell’economia di mercato, relegati in fondo alla piramide sociale a reggere il peso del sistema accettato supinamente da tutti, come unico sistema possibile per gli umani.
Naturalmente, una piccola percentuale di colleghi curiosi di conoscere i miei metodi c’è, esiste, e io intrattengo con loro, nei momenti liberi, conversazioni interessanti, spiego il retroterra culturale e pedagogico che mi spinge ad agire come agisco; faccio leggere testi di educazione antiautoritaria o le cose che scrivo e pubblico sul blog di Utopia rossa, cerco di motivarli a interessarsi di tutto ciò che è diverso e innovativo, spingendoli ad autocriticarsi, forte del fatto che i miei allievi  sono entusiasti della libertà  e lo dicono ai loro genitori e a tutti gli insegnanti della scuola, compresa la dirigente.
Questo stato di cose mi dà forza e autorevolezza e non mi sento più solo e sfiduciato: sono i miei allievi che si battono per me affinché io possa continuare a farli felici.

L’insegnante facilitatore

Sin dalla prima lezione ho spiegato loro cosa contesto della scuola tradizionale e come ho intenzione di procedere: chiedo il loro parere, sento le loro critiche e alla fine decidiamo insieme che non metterò note sul registro, voti, non darò né premi né punizioni, che l’attività da svolgere sarà autogestita e che farò l’insegnante facilitatore, intervenendo solo quando se ne sente il bisogno o su loro specifica richiesta. Ho spiegato la differenza tra libertà e licenza e che, per riuscire a vivere situazioni di vera libertà, c’è bisogno di responsabilità e di rispetto per gli altri.
I ragazzi, anche se piccoli, hanno capito quasi subito (all’inizio un po’ di caos è naturale), sapendo gestire la loro attività motoria nella maniera più intelligente, corretta e soddisfacente, rendendo le lezioni un valido esempio di come l’autonomia generata dall’autogestione si accresca giorno dopo giorno, facendoli maturare con l’esperienza sul campo, le relazioni, i piccoli conflitti, l’aiuto reciproco, la solidarietà e una competizione più sana e meno distruttiva, dove la verità vince sulla falsità e il buon senso vince sulla furbizia e sull’astuzia. Le regole che sono alla base del vivere sociale, se le danno da soli (anche se spesso chiedono un mio consiglio) e le rispettano tutti, senza inganni e sopraffazioni dei più forti sui più deboli, dei più svegli sui più lenti, dei maschi sulle femmine.
Le attività motorie e sportive, caotiche e disordinate dei primi giorni si sono trasformate in ordinate ed equilibrate, rispettose degli spazi e dei desideri degli altri, cosicché le lezioni trascorrono senza stress e con la massima felicità dei ragazzi: ognuno fa quello che gli piace e l’insegnante aiuta, consiglia, soccorre, supporta, spiega….ogni volta che viene richiesto il suo intervento o ritenga opportuno farlo.

Le valutazioni dei ragazzi
Vorrei concludere questo scritto con alcune valutazioni che i ragazzi hanno fatto su di me (su mia richiesta periodicamente i ragazzi mi valutano in forma scritta e anonima così che io possa capire se sono sulla giusta strada o no) affinché capiate che anche se giovanissimi (scuole medie) sono in grado di tirar fuori concetti importanti e intelligenti e capire se la loro vita migliora o peggiora a seconda dei metodi  educativi proposti dall’insegnante.

“Il professor Gigli è il mio insegnante di educazione fisica. È diverso dagli altri prof ma questo non significa che sia una cosa negativa anzi, questa è una sua caratteristica positiva. Durante una sua ora di lezione  ci ha parlato della libertà all’interno di una società. La libertà è ridotta per cui, quando siamo con lui vuole che ci sentiamo liberi di essere noi stessi rispettando comunque gli altri. Ci fa scegliere i giochi da fare. A me piace perché so che ci si può contare. Se dovessi avere dei problemi penso che andrei da lui perché mi ascolterebbe”.

“Prof lei è una persona molto simpatica e divertente. Il suo modo di impegnarsi mi piace molto perché mi diverto; ci fa rilassare con un’ora serena e non ci costringe a fare ciò che non ci piace. Di lei ammiro il suo stile di insegnare, la sua fiducia in noi e la libertà che nessun prof ci ha mai dato”.

“Ciao prof! La prima volta che l’ho vista mi sembrava un terrorista o un finocchio (si tolga quegli orecchini!). Prof lei si droga? Lei è troppo femminista, mio padre dice che le donne devono fare cose da donna. Una cosa però apprezzo, lei mi accetta per quello che sono mentre gli altri prof dicono ai miei genitori che sono sbagliato e che devo cambiare con le buone o con le cattive”.

“Io credo che sei molto bravo perché nessun prof ha mai capito che noi studenti abbiamo voglia di sfogarci. Per esempio gli altri professori quando chiacchieriamo, ci alziamo o non chiediamo il permesso per fare delle cose, ci ritengono maleducati e ci ricattano dicendo di metterci rapporti o note. Insomma secondo me fai bene il tuo lavoro, ci capisci e ci lasci fare quelle cose che nessun professore ci ha mai  fatto fare, come , per esempio, essere autosufficienti , perché noi non siamo delle macchinette che hanno bisogno di essere programmate”.

“Voglio dire una cosa a chi dicesse che la motoria del prof Gigli non serve a niente : la motoria del prof Gigli serve a due cose: imparare a muoversi e ogni volta a diventare una persona migliore!”


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sabato 1 dicembre 2012

RICORDO DI IVAN ILLICH, di Antonio Marchi


Ivan Illich è stato un pensatore critico, ribelle, un gigante del pensiero sociale moderno. Amava essere definito uno storico, perché era dalla storia che traeva le sue analisi per dimostrare la "controproduttività" delle grandi istituzioni moderne, che generano il contrario di ciò che promettono. Della modernità denunciava la tecnostruttura che confisca le capacità naturali del vivere, costringe ad appaltarsi a competenze specialistiche, quantifica l’essere umano in una somma di bisogni e lo misura in termini di produttività. Il nostro modo di vita industriale e predace - diceva - è irrimediabilmente condannato, difficilmente potrà durare ancora mezzo secolo. Il petrolio sta finendo e l’aumento della temperatura terrestre per l’inquinamento devasterà acque e terre. Se vorrà sopravvivere l’umanità dovrà cambiare vita, smettere di divorare energia, non produrre sempre più merci, non confondere lo sviluppo con la crescita del Pil, abbandonare il mito della produttività. Questo modo di vivere ci ha tradito, ci ha estraniato dal mondo, ha distrutto la natura e ingoiato miliardi di persone in inconcepibili astrazioni e il dover rinunciare è da tutti considerato una catastrofe e non invece un rimettere i piedi per terra e avere una vita più ricca e felice.In una lettera ad un amico scritta nel 1992 e letta al suo funerale diceva che la generazione a cui apparteneva aveva vissuto la rottura col mondo e visto l’esilio della carne dalla trama della storia, che il mondo nel quale era nato era svanito nel non senso e che la sua memoria non si era depositata come le rovine del passato negli strati inferiori della terra, ma era scomparsa come una riga cancellata dalla memoria del computer. Parlava della morte e della sua morte, che voleva non fosse "una fine mortale", ma un "morire nel senso intransitivo", con i piedi sulla terra, celebrando "la gloria del mondo reale attraverso il nostro stesso addio ad esso". Voleva una morte che serva a quelli che restano e non una morte che si subisce, che arriva da fuori come un fulmine. Alludeva ad un morire che sia un fare, un decidersi, un compiersi. Come non associare tutto ciò ai delittuosi eventi di questi tempi in Iraq e altrove? La guerra è la massima organizzazione della morte, e nello stesso tempo è la negazione del morire. Come stupirsi che qualcuno, lanciandosi con un’auto imbottita di esplosivo contro un carro armato o un edificio abitato, decida di non farsi dare la morte, ma di morire uccidendo? È la stessa differenza che c’è tra il vivere e l’essere fatti vivere per consumare. Abitare, non stare in una scatola prefabbricata come abitazione. Educarsi, non essere parcheggiati in una scuola scambiata per educazione. Informarsi, non essere "fruitori" e bersaglio dell’informazione. Curarsi, non consegnarsi al potere terapeutico della sanità. Illich è stato un grande paladino della cultura dei popoli, dei loro saperi, dell’arte del vivere praticata anche nelle condizioni più povere ma non per questo miserabili. Da anni non leggeva più i giornali. L’attualità quotidiana gli appariva fatua ed inconsistente, cosi come i "media". Non rilasciava interviste e non accettava il ruolo del conferenziere che "dà la linea". Piuttosto cercava il dialogo attraverso la ricchezza delle osservazioni e delle domande. Un maestro che svolge con gusto una funzione "didascalica" e non vuole trasformarsi in tuttologo, per quanto vari e ampi siano i suoi campi di indagine.La sua idea forza è che, se non in particolari eventi clamorosi, non esiste la "scarsità". I bisogni umani sono commisurati a ciò che la terra può offrire quantitativamente e qualitativamente, con una grande e irripetibile varietà da luogo a luogo. "La dimensione naturale dell’uomo" dunque. Dove per "naturale" s’intende non una nozione "biologica" ma storica. Invece la necessità di scavalcare tempo e spazio con le tecnologie della velocità e della comunicazione, gli squilibri... tutto questo produce il frutto velenoso di rotture, di separazioni, di definizione di confini tra "proprio" ed "alieno", tra lingua e dialetto, tra bene d’uso e bene di scambio, tra ambiente e risorsa, tra norma e devianza, tra salute e malattia, tra comunità e istituzione.L’uomo che conosciamo è l’uomo "economico", che pensa in base al principio di utilità, in base al rapporto costo-profitti. Ma esiste un’altra umanità, esistono, altri modi di pensare la convivenza basati sul dono, sulla comunità, sull’autosufficienza, sulla solidarietà.
Queste possibilità sono state indubbiamente sconfitte. Ma la loro sconfitta non è prova della loro non-verità. La storia non è infatti un tribunale. La storia è il dominio del più forte, spesso del più violento. 

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

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a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.