L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

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domenica 25 settembre 2011

TORNARE ALLA LIRA E CANCELLARE IL DEBITO?, di Michele Nobile


Quando si vuole gestire il capitalismo meglio della propria borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo

di Michele Nobile
(in base a discussioni e riflessioni svoltesi nella redazione di Utopia rossa) 

1. Due diverse prospettive politiche nella lotta contro l’«austerità».

Per necessità di sopravvivenza e senso di giustizia i lavoratori avvertono di non essere responsabili della crisi economica e di non doverne pagare i costi. È per questo motivo, dettato da un sano istinto di classe, che essi lottano contro le inique misure d’«austerità» del governo e rifiutano di pagare i costi del debito dello Stato, ora in gran parte conseguente dal salvataggio delle banche private.
Battersi contro l’«austerità» è però cosa molto diversa dal rivendicare che lo Stato capitalistico azzeri o «cancelli» i propri debiti con terzi, quali banche private, governi esteri, agenzie internazionali.
Quando lottano contro l’«austerità», i lavoratori affermano la propria autonomia come classe a fronte dello Stato capitalistico e dei padroni, nazionali ed esteri. Così facendo, infatti, essi si oppongono a un ulteriore tributo effettuato dallo Stato e destinato a finire nelle borse dei capitalisti e al circuito finanziario internazionale.
Se invece si rivendica che lo Stato «cancelli» i propri debiti, allora non si fa altro che attuare una versione «in grande» della logica per cui i lavoratori avrebbero interesse a difendere la «loro» impresa contro la concorrenza di altre imprese capitalistiche e dai creditori della stessa. Quel che un onesto sindacalista e l’istinto di classe trovano inaccettabile sul piano microeconomico aziendale, sembra invece essere diventato improvvisamente accettabile sul piano macroeconomico del debito statale: si crede di difendere gli interessi dei lavoratori, ma in realtà si «difende» lo Stato capitalistico dai suoi creditori. Il fatto è che la crisi economica è la crisi dei capitalisti privati e dello Stato capitalistico, entità socio-politiche del tutto separate dal mondo del lavoro fisico e mentale. Ragion per cui come i salariati non hanno alcun interesse a sacrificare la propria autonomia sindacale e politica per mettere il naso nella competizione intrapadronale, allo stesso modo essi non hanno alcun interesse a intrufolarsi nelle beghe tra governi, banche internazionali, istituzioni europee, Fondo monetario ecc. Rivendicare la «cancellazione» del debito, però, è proprio questo, con l’aggiunta di un pericoloso sentimento sciovinistico e nazionalistico.
L’autonomia di classe a fronte del «proprio» Stato e della propria borghesia è condizione per la solidarietà internazionale tra lavoratori. Inversamente, dalla difesa del «proprio» Stato capitalistico dai creditori esteri consegue che i creditori esteri dovranno «rifarsi» con i «loro» lavoratori, ovviamente con l’aiuto dei loro rispettivi Stati capitalistici: alla faccia dell’internazionalismo proletario di antica memoria…
Non dubito delle buone intenzioni di chi propone di cancellare il debito; ma, obiettivamente, abbiamo sul campo due opposte logiche politiche: una punta a determinare e rafforzare l’autonomia di classe contro lo Stato capitalistico, l’altra tende a identificare l’interesse di classe con quello dello Stato; l’una è orientata in senso internazionalistico, l’altra è implicitamente nazionalistica, e lo è per giunta all’interno di uno Stato imperialistico (italiano, nella fattispecie).

2. Gli appelli per «cancellare il debito» e «uscire dall’euro», tra nazionalismo e confusionismo.

Nel caso dell’appello per l’assemblea di Chianciano, i cui obiettivi sono «fuori dal debito! fuori dall’euro!», il nazionalismo è tanto chiaro quanto confuse sono le prospettive politiche. 
Vi si legge infatti che cancellare il debito è necessario per «la rinascita dell’Italia, per rilanciare l’economia produttiva, pubblica e privata»: dove, ovviamente, la «rinascita» di cui si parla non può che essere quella dell’economia capitalistica italiana (l’unica al momento esistente in Italia). Che se ne sia consapevoli o meno, ci si atteggia in tal modo a consiglieri della borghesia, le cui capacità di comprendonio si devono presumere, nonostante la sua plurisecolare esperienza e la conquista del mondo, gravemente limitate (chiaro erroe di prospettiva, che porta a sottovalutare la capacità di analisi e di azione dell’avversario). Ma, forse per placare un rimorso di coscienza, s’aggiunge: «per gettare le fondamenta di un nuovo ordine sociale».
In questo appello si chiede anche di «tornare alla lira», come se la lira fosse un qualche feticcio meno capitalistico dell’euro. O forse si pensa che in una società integralmente monetaria come quella capitalistica «l’economia produttiva» possa essere separata dal finanziamento dell’investimento e dallo sviluppo del circuito finanziario mondiale?
In una società capitalistica la moneta è sempre un rapporto sociale, la forma dello sfruttamento del lavoro salariato, non un «oggetto» neutro. Scambiando l’euro con la lira si avanza verso il socialismo quanto giocando alle tre carte in una pubblica piazza.
L’appello per Chianciano ha un merito, anche se assai discutibile: è più esplicito e più coerente di quello dell’assemblea romana del Primo ottobre, indetta da Cremaschi e da fette della ex estrema sinistra (da tempo inserite nella logica del sistema parlamentare capitalistico) sotto lo slogan generico «Dobbiamo fermarli». Leggendo attentamente, si vede che il nocciolo di questo secondo appello è «non pagare il debito», ma esso si trova annegato in una lista di obiettivi, molti dei quali - in astratto e presi singolarmente - sono giusti e condivisibili. Forse si pensa che pretendere di non far pagare il debito allo Stato e a determinati settori di borghesia italiana possa conferire unità all’insieme degli obiettivi e costituirne un’efficace sintesi politica? Questa pia illusione è invece una vera disgrazia in campo ideologico. Per fortuna, grazie alla sua irrealizzabilità, essa non può avere però conseguenze pratiche (allo stato attuale delle cose e dati gli attuali rapporti di forze).
Occorre decidere tra lottare contro l’offensiva padronale e governativa lasciando alla Casta politica italiana il compito di regolare i suoi (propri) conti con l’oligarchia internazionale; oppure finire col fungere da involontari e indesiderati «sindacalisti» dello Stato italiano presso i suoi creditori. Mi auguro che tale contraddizione venga risolta positivamente, perché l’obiettivo della «cancellazione» del debito distoglie da altri compiti di lotta sociale, più necessari e fecondi, introducendo anche una distorsione politica. Anticapitalismo e antistatalismo devono marciare insieme.

Il manifesto per l’assemblea romana tace sull’uscita dall’eurozona. Ma se si rivendica la cancellazione del debito dello Stato non se ne possono ignorare le conseguenze, e questa è la maggiore, perché (sempre in astratto) se non si pagano i debiti si viene espulsi certamente dall’area dell’euro e dalla Ue (ma probabilmente non dalla Nato, dove si potrebbe continuare ad avere un ruolo “costruttivo”).
È mia convinzione che rivendicare l’uscita dall’eurosistema (in pratica il ritorno alla lira, che piaccia o no) e la cancellazione del debito sia errato e controproducente: il velleitario surrogato di una controffensiva popolare che non c’è e che se prendesse corpo andrebbe indirizzata verso altre mete, più realistiche, concrete, meno ambigue e contrapposte agli interessi “nazionalistici” dello Stato e della borghesia italiana.
Chi rivendica la fuoriuscita dall’euro e la «cancellazione» si pone di fatto come consigliere della classe dominante circa il modo migliore, ovviamente più «sociale» o di «compromesso», per uscire dalla sua crisi. Ma questa classe sa benissimo e da moltissimo tempo come fare i propri affari e risolvere le proprie crisi. È certamente un modo doloroso e contraddittorio, perché la borghesia è rigorosamente e duramente classista: non per nulla è la classe dominante, la classe egemone.

3. Ma chi e come dovrebbe «cancellare» il debito e rompere con l’euro?

Rivendicare la «cancellazione» del debito implica quasi certamente l’espulsione o l’uscita dall’eurosistema. Di questa possibilità e delle sue conseguenze occorre essere ben consapevoli, se si vuole mantenere i piedi ben piantati sulla Terra.
Osservo innanzitutto che nessun governo può semplicemente tirare un frego rosso sul debito e allegramente «cancellarlo» in toto (questo è il motivo per cui impiego le virgolette). Anche un governo socialista dovrebbe specificare i termini della «cancellazione»: ciò sia per giustizia nei confronti dei lavoratori-risparmiatori, nazionali ed esteri, sia perché, a meno che non ci si metta nella prospettiva dell’autarchia alla Enver Hoxha e del «socialismo in un solo paese», occorre pure contrattare con governi e capitale estero. Ovviamente, il governo di un’economia socializzata, tanto più se avanzata, contratterebbe da una posizione enormemente più forte di quello di un’economia capitalistica, e ben diversi sarebbero gli scopi.
Uscire dall’eurosistema o «cancellare» il debito sono misure che, a loro volta, concorrono a creare nuove condizioni nelle quali condurre un qualche tipo di politica economica.
La mia vaghezza è qui deliberata, perché per uno Stato ci sono diversi modi di dichiararsi insolvente (di fare default) e di uscire dall’euro, alcuni dei quali decisamente sgradevoli per i lavoratori, per essere eufemistici, e invece relativamente convenienti, almeno come male minore, per la classe dominante, settori della quale potrebbero vedersi sgravati da una sorta di ipoteca. Proprio per questo motivo, e se non si vuole finire dalla padella nella brace, chi punta sulla «cancellazione» del debito e/o sull’uscita dall’eurozona deve porsi come immediata la questione del potere o, più prosaicamente, del governo che sia alternativo a un fantomatico «governo unico delle banche» (appello per Roma) o che sia espressione di un ipotetico «blocco popolare» (appello per Chianciano).

Sorge allora una domanda: nell’Italia del 2012 o del 2013, da quali partiti o entità politiche sarebbe costituito questo governo?

Di certo non si pensa al centrodestra. Restando seri, allora non resta che il centrosinistra, che Paolo Ferrero ha già cominciato a chiamare «il nuovo Ulivo» (Cpn di Rifondazione del 24 settembre 2011). 
In tal caso saremmo di fronte a un allarmante caso di patologica smemoratezza.
Ricordo che dal gennaio 1995 al maggio 2001 il centrosinistra riuscì a realizzare il più grande successo del capitalismo italiano almeno da trent’anni a quella parte: la «convergenza» con i parametri di Maastricht e l’entrata dell’Italia nella zona dell’euro. In quei 2211 giorni, a fronte dei 226 del primo governo Berlusconi, il centrosinistra fece il grosso del lavoro sporco necessario al capitale nazionale e internazionale. In quel periodo la disoccupazione rimase per anni al livello medio del 10% (non inferiore a quello attuale, ma allora non mi pare che si parlasse di depressione o di crollo del sistema), la precarietà divenne norma, l’attacco ai diritti socioeconomici fu contrabbandato come necessaria «modernizzazione» per rilanciare la competitività dell’impresa-Italia, il rigore fiscale a danno dei servizi pubblici fu esaltato come virtù civile. Tutto questo e altro venne fatto in nome dell’entrata dell’Italia nel sistema monetario europeo. I bombardamenti e la guerra furono dichiarati «umanitari» e ammantati di retorica europeistica. In quegli stessi anni il Prc, il Pdci e i Verdi, sostennero il centrosinistra, fino all’ultimo e con ministri Pdci e Verdi, per tutta la fase cruciale anche il Prc. Si ricorderà che nel 2008 i postcomunisti e i Verdi furono di nuovo nella maggioranza e nel governo insieme a Prodi, il grande protagonista delle privatizzazioni, della «convergenza» e della convinta adesione ai vincoli esterni posti da Maastricht e dalla permanenza nell’eurosistema.
Si vuole forse scherzare sulla possibilità che questi partiti possano gestire una soluzione «popolare» della crisi? O non si è imparato nulla dalla pagliacciata della «sinistra radicale» circa il «ponte» tra «palazzo» e piazza, giustamente punita dall’elettorato quando mandò a casa i 110 Forchettoni rossi che si erano appena insediati in Parlamento?
Il fatto è che il centrosinistra è una frazione politica dell’imperialismo italiano; e per il capitalismo internazionale è anche la frazione politica più affidabile, innanzitutto per le maggiori capacità di prevenire e attutire il conflitto sociale. 
Ma se invece si vuole essere antagonisti a entrambe le frazioni politiche già esistenti dell’imperialismo italiano, sia di centrosinistra sia di centrodestra (e alla terza opzione che si va delineando al «centro» con Casini, Fini, Rutelli), allora chi si vuole che governi la «cancellazione» e la «fuoriuscita» e gestisca una nuova politica economica e sociale? Chi ha la presunzione di candidarsi al governo, non in un futuro indeterminato, ma nell’orizzonte temporale della crisi in corso, allo scopo di tornare alla lira e cancellare il debito?
Sembra incredibile che mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici italiane subisce i costi e i contraccolpi dellla crisi pressoché inerme (cioè non riuscendo a difendere nulla delle proprie conquiste passate, in salari, sanità, previdenza e occupazione), ci sia qualcuno così ingenuo da rivendicare una linea economica alternativa (ma al di là del ritorno alla lira, non si sa bene quale) e addirittura un qualche genere di governo «alternativo» (anche se poi sappiamo che tanto alternativo non è, visto che alla fine sempre al centrosinistra guardano le stesse correnti politiche che ora propongono il ritorno alla lira o la cancellazione del debito, e che domani accetteranno sicuramente il blocco elettorale col centrosinistra alla luce della tradizionale italianissima politica del «male minore», del «meno peggio). Se si usasse un minimo di fraseologia vetero-anticapitalistica, questo velleitarismo verrebbe a identificarsi con la rivendicazione della... rivoluzione.
Sarà simpatico, sarà gratificante, esprimerà un’identità antagonistica, ma si tratta di mero propagandismo che non sposta di un millimetro i rapporti di forza reali, una diversione di tempo, intelligenza ed energie. E il catastrofismo nell’analisi economica – che sottende tutta questa frenetica mobilitazione per il ritorno alla lira e il non-pagamento del debito - non accorcia di un metro la lunga strada verso la rivoluzione, anzi la ostacola teoricamente. Per costruire un grande movimento sociale anticapitalista occorrono tempi più lunghi di quelli della crisi del debito sovrano, passi più piccoli ma politicamente difficili e discriminanti. E ovviamente, una conoscenza precisa del rapporto tra Stato capitalistico e interessi economici dell’imperialismo italiano (a loro volta parte integrante dell’imperialismo internazionale, come si è confermato anche nella riunione del G20 a Washington).
Oppure, mentre il governo Berlusconi traballa e si affaccia l’eventualità di elezioni, questa della «cancellazione» del debito è una sorta di lancio pubblicitario per una nuova operazione elettorale? Ecco, che tutto ciò prefiguri una manovra per le prossime elezioni politiche, suona più realistico e concreto.

4. Scenari realistici circa l’insolvenza, il ritorno alla lira, il crollo dell’eurozona.

Uscire dal sistema monetario europeo e «cancellare» il debito non solo non costituiscono una soluzione socialista della crisi economica, ma possono perfino portare al peggioramento della situazione e ad ancor più gravi misure di «austerità» per i comuni cittadini. Per quanto non sia la soluzione preferita, per governanti, banche e istituzioni internazionali il default (o insolvenza) e la ristrutturazione del debito estero sono sicuramente un’opzione accettabile come male minore.
Esaminiamo ora in quali circostanze potrebbero verificarsi e con quali conseguenze per i lavoratori.
L’ulteriore aggravarsi della crisi potrebbe precipitare l’insolvenza e l’uscita dall’eurosistema di un singolo paese, poniamo la Grecia. Che il governo sia di centrosinistra oppure di centrodestra, la differenza sarebbe minima. Sicuri, invece, i risultati. Quel che accadrebbe non è la «cancellazione», ma la ristrutturazione dei termini del pagamento del debito con l’estero (di cui una parte sarebbe cancellata), con i creditori in posizione forte, tale da garantire i propri interessi in senso finanziario e politico. Quanto ai comuni cittadini, sarebbero comunque essi a pagare per la ristrutturazione del debito: verrebbero imposte misure di «austerità» draconiane, ancora più gravi di quelle ora in essere. Stiamo già provando un assaggio. Quel poco che i capitalisti potrebbero guadagnare (loro, non i lavoratori) grazie alle esportazioni favorite dalla svalutazione sarebbe perso dall’impennata dei costi delle importazioni. Il servizio del debito risulterebbe ancor più gravoso, il finanziamento dell’investimento si arresterebbe, la disoccupazione crescerebbe ulteriormente. I salari reali crollerebbero sia a causa della disoccupazione che dell’inflazione. Il quadro, in sintesi, sarebbe quello di una depressione grave, prolungata, senza evidenti vie d’uscita se non dopo anni di «lacrime, sudore e - speriamo di no - sangue». A questo proposito disponiamo già della lunga e triste esperienza della «crisi del debito estero» dei cosiddetti «paesi in via di sviluppo», o di un paese «socialista» come la Polonia, negli anni Ottanta del secolo scorso.
Uscire dall’eurosistema e tornare alla lira non significa affatto sottrarsi a condizionalità antipopolari gravosissime. 

E se invece si verificasse il crollo dell’unione monetaria europea, ciascun paese tornando alla vecchia moneta?
Per questo caso occorre innanzitutto che chi propone l’uscita dall’euro chiarisca a se stesso e al prossimo il rapporto tra la prognosi e la terapia. Il punto è questo: se si prevede come inevitabile il crollo dell’eurosistema, tanto più in tempi relativamente brevi, allora premere per l’uscita anticipata e unilaterale è peggio che inutile, è decisamente dannoso per i lavoratori. Non è che il paese all’avanguardia nell’inesorabile processo conducente all’inevitabile crollo, che presumibilmente sarebbe un paese mediterraneo già inguaiato e poco competitivo, godrebbe di un qualche vantaggio. Al contrario, lo sventurato in oggetto sarebbe semplicemente il primo a essere investito dalla tempesta. Allora, è di gran lunga preferibile lasciare l’intera responsabilità ai governanti, se non si vuol finire, oltre che «mazziati» anche «cornificati». La casta politica europea, e in specie quella italiana, sarebbe infatti più che felice di alleggerire il proprio fallimento prendendosela con gli «irresponsabili» che, tra tante nefandezze, hanno pure fatto pressione per uscire dall’euro.
In ogni caso, il crollo della moneta comune non sarebbe affatto in se stesso un passo avanti verso una soluzione «popolare» della crisi. Tutti i capitalismi europei ne sarebbero danneggiati, ma alcuni meno di altri. Si verificherebbe un ciclo di svalutazioni competitive in un contesto di marasma finanziario, con accresciute pressioni sul contenimento del costo del lavoro e della domanda interna. Il divario tra la Germania e i paesi meno competitivi e più indebitati (come espresso, ad esempio, dai differenziali o spreads sul rendimento dei titoli di stato) aumenterebbe: la posizione dominante del capitalismo tedesco sarebbe ancora più forte. Viceversa, più gravi diventerebbero i problemi di finanziamento, dell’investimento, della produttività, dell’ambiente dei capitalismi più deboli.

5. Un’ipotesi fantapolitica.

Facciamo ora un’ipotesi diversa, al momento decisamente fantapolitica. Immaginiamo pure che sui palazzi del potere di un qualche paese giunga a sventolare la bandiera rossa o, se si preferisce, una bella bandiera arcobaleno. Se l’ipotesi pare eccessiva, allora si può più modestamente immaginare un grande e potente movimento popolare, tale da fermare l’offensiva capitalistica e conseguire importanti vittorie parziali; e magari (?) che sussista un «governo amico» (nei cui confronti, dati i precedenti, dovrebbe però valere la massima «dagli amici mi guardi Iddio, che ai nemici ci penso io»). Ebbene, potrebbe un governo rosso-arcobaleno rimanere nell’eurosistema così come è ora? La risposta è no, non potrebbe rimanerci (per i fini di questo articolo non è necessario discutere la politica della Banca centrale europea e le contraddizioni congenite dell’Unione monetaria europea, ragion per cui sorvolo rimandando alla bibliografia). 
Ma tempi e modi della rottura non sono irrilevanti. In effetti la casta politica europea cercherebbe di espellere dall’eurozona alla massima velocità possibile il paese con tale governo, ciò al fine preciso di recargli il danno più grande. Per l’opposto motivo, il suddetto governo dovrebbe cercare di ritardare l’espulsione e di farsi cacciare in modo tale da chiarire in modo inequivocabile ai popoli d’Europa la natura integralmente capitalistica della Bce, espressione di Stati imperialistici, e la sua conseguente politica aggressiva nei confronti dei lavoratori. Dovrebbe compiere un’operazione propagandistica su scala continentale. Il ragionamento, ripeto, è fantapolitico, ma credo s’intenda la differenza tra farsi espellere e fare il favore di andarsene subito e tranquillamente di propria volontà.
Completo il punto notando che, nel caso dell’attuale costruzione europea, la critica teorica e pratica alla borghesia deve vertere sul fatto che essa è incapace di unificare realmente l’Europa, di costruire una comunità di popoli che non sia solo un’unione monetaria che riproduce gerarchie di potere nazionale e genera al suo interno ulteriori squilibri socioeconomici.  Una borghesia (un insieme di borghesie) che è perfino incapace di costruire un suo Stato europeo dotato di un bilancio e di poteri che gli permettano di affrontare crisi come quella in corso. L’europeismo borghese non è solo capitalistico, è anche fermo alla dimensione della sommatoria di Stati nazionali.  E tutti coloro che contrappongono al falso internazionalismo del capitale il ritorno al nazionalismo statuale (della propria borghesia), stanno proponendo soluzioni retrograde, più reazionarie di quelle giù in atto, anche se, per fortuna, sono ormai irrealizzabili concretamente.
Bisogna però riconoscere che non è una bella cosa vedere personalità di provenienza marxista o comunque «di sinistra» che propongono passi indietro di tipo autarchico e nazionalistico, facendosi così scavalcare sul piano ideologico dalla stessa borghesia che si dice di voler combattere. Sul carattere fallimentare di queste posizioni retrograde e antistoriche ci sono stati dei precedenti con lo stalinismo e ognuno ha potuto vedere come è andata a finire. Tornare a proporre soluzioni nazionalistiche nel 2011 mi sembra una prova di testardaggine molto poco politica e comunque da respingere con decisione.

La politica rivoluzionaria non può prendere posizione per una delle parti negli affari e nei regolamenti di conti tra padroni e tra Stati capitalistici, se non a prezzo di rinunciare al principio basilare dell’autonomia a fronte del nemico di classe: per questo non può rivendicare il non-pagamento del debito contratto proprio da quel «nemico». Ma non può neanche prescindere dall’utilizzare ogni occasione - dapprima in forma di propaganda e appena possibile come obiettivo immediato per cui lottare - per sostenere una prospettiva storica superiore a quella borghese. È per questo che l’idea del ritorno alla lira appare nettamente in contrasto anche con la prospettiva (al momento solo utopica o propagandistica) della costruzione di una comunità socialista continentale che abbia in comune la moneta e molto altro, superando lo statalismo nazionale.

6. Conclusione retrospettiva.

Al termine del mio libro del 2006, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, e nella serie di articoli sulla crisi (pubblicati nel blog di Utopia rossa: www.utopiarossa.blogspot.com) ho sostenuto con forza che gli orientamenti di politica economica detti molto impropriamente «neoliberisti» sono radicati nella struttura contemporanea dell’economia mondiale. Da questo consegue, scrivevo, che i governanti e le borghesie non avrebbero né potuto né voluto modificare tali orientamenti anche in caso di grave crisi.
Inoltre, a differenza della maggior parte dei commentatori, giornalisti ed economisti di sinistra, non ho affatto visto, nell’esplodere della crisi nell’autunno 2008, né l’approssimarsi della catastrofe imminente né la fine delle politiche «neoliberali» e l’occasione per un nuovo new deal, quando molti ingenui cantavano liricamente l’avvento del messia Obama.
 Al contrario, sostenevo che gli Stati imperialistici sarebbero intervenuti pesantemente per «salvare» il sistema dalla caduta nella depressione, ma che questo avrebbe anche implicato l’utilizzo della crisi per sferrare un ancor più feroce attacco ai diritti socioeconomici dei lavoratori. Che è esattamente quanto accaduto e sta accadendo.
Scrivevo anche che, tanto più a lungo sarebbero durate le illusioni in una qualche positiva «evoluzione» dei partiti di «sinistra» e di centrosinistra, il voto nella logica del «male minore», il «sostegno critico» o la partecipazione al governo delle formazioni «comuniste» ed ecologiste, tanto più difficile sarebbe stata un’efficace mobilitazione difensiva dei lavoratori e della cittadinanza e, a maggior ragione, la costruzione di una grande movimento sociale anticapitalistico. 
Ora non paghiamo solo e principalmente il berlusconismo: dovrebbe ormai essere palese anche ai ciechi l’inesistenza di uno specifico «regime» statuale di Berlusconi. Mentre è in corso la più grave crisi economica del dopoguerra paghiamo in tutti i sensi troppi anni di illusioni e opportunismo, elettoralismo e degenerazione etico-politica. Non è una situazione dalla quale si esca con le impennate velleitarie e il confusionismo venato di sciovinismo; tantomeno lanciando appelli e campagne fondate sulla pia illusione che, urlando in piazza buoni consigli alla borghesia e alla Casta politica – in tanti, magari tantissimi - si possa ricavare il benché minimo vantaggio per il mondo del lavoro fisico e mentale. Come ho cercato di dimostrare, si rischia addirittura di fare peggio. Le più celebri campagne degli scorsi decenni  (per es. quella sul fanfascismo» o quella sul Referendum «a perdere» sull’art. 18) stanno lì a dimostrarlo. Lo dimostrerà anche questa, se non la si ferma in tempo

Appendice. Notarella storica.
Poiché i riferimenti alla depressione degli anni Trenta sono cosa comune, mi si scuserà una breve nota storica.

Nel 1933, nel pieno della Grande depressione o Great crash, gli Stati Uniti abbandonarono il gold exchange standard (il sistema monetario internazionale tra le due guerre, basato sull’oro e sulle valute più importanti). Non erano i primi e non furono gli ultimi. L’abbandono del vincolo aureo e la svalutazione erano misure diffuse e connesse: l’intenzione iniziale era quella di bloccare la spirale depressiva con misure eccezionali che violassero solo temporaneamente l’ortodossia finanziaria vigente. Rompere le catene dell’oro si rivelò come un passo necessario perché potesse svilupparsi la nuova frontiera della politica economica, allora eterodossa, della creazione di domanda da parte dello Stato. Ciò avvenne col massiccio piano di riarmo della Germania nazista, i lavori pubblici del new deal roosveltiano e, infine, l’esplodere della Guerra mondiale.
In tempi, combinazioni ed efficacia differenti a seconda degli Stati, si affermò la nuova ortodossia della gestione macroeconomica cosiddetta «keynesiana», crebbero il peso dei posti di lavoro statali nell’occupazione totale e del bilancio pubblico sul prodotto interno, si svilupparono strumenti e istituti che tendevano a contrastare automaticamente le crisi.
Il capitalismo rischiò di cadere nel baratro, ma sopravvisse alla depressione e avviò un processo di profonda trasformazione strutturale dei rapporti tra Stato ed economia, i cui profondi effetti sono tuttora operanti. Il 1929 può ripetersi, ma ora è meno probabile.

Ma i lavoratori statunitensi lottavano forse per la fuoriuscita dal sistema monetario internazionale e l’abbandono dell’odiata catena aurea? La risposta è un secco no. Quello era «affare» dei padroni. Nel popolo dei poveri, chi poteva si organizzava per sopravvivere in reti di  reciproco aiuto materiale. Gli operai scioperavano e a volte occupavano le fabbriche; si scontravano con la polizia, le guardie private e la milizia; si opponevano ai licenziamenti, rivendicavano aumenti salariali e chiedevano nuovi posti di lavoro, che durante il new deal vennero effettivamente creati direttamente dallo Stat. Mentre le amministrazioni roosveltiane cercavano a tentoni di stabilizzare l’economia capitalistica, i lavoratori nordamericani utilizzavano le normative come meglio potevano, forzandone l’applicazione, ma non si ponevano loro il compito di salvare il sistema o di riformare il sistema monetario internazionale. Quello era il compito di Franklin Delano Roosevelt e del suo staff. Salariati e disoccupati lottavano, invece, contro gli effetti sociali del sistema capitalistico, per i loro bisogni immediati, cercavano di darsi un’organizzazione autonoma di classe: e se alcune normative del new deal favorirono l’organizzazione sindacale in un quadro procedurale «neocorporativo», gli scioperi e le occupazioni di fabbriche maggiori avvennero senza o contro la volontà dei sindacati. Quanto più si radicalizzavano tanto meno i lavoratori si ponevano la questione di inventare loro una politica economica: con una coscienza di classe sviluppata comprendevano che per attuare una politica economica occorre avere in mano le leve del governo, del potere.
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Piccola bibliografia personale cui rinviare il lettore che voglia approfondire i temi qui accennati.

Nobile, Michele, Merce-natura ed ecosocialismo. Per la critica del «capitalismo reale», Erre emme/Massari editore, Roma 1993.
Id.Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, (collana Utopia rossa), Massari editore, Bolsena 2006.
Id.,  «La crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama. Nota 1 sulla crisi», 8 marzo 2009, pubblicata nei Quaderni del Craet n. 9, marzo 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel blog di Utopia Rossa http://www.utopiarossa.org/Nobile%20note%sulla%20crisi%201.pdf.
Id.,  «Previsioni sui tassi di disoccupazione nei prossimi anni. Nota 2 sulla crisi. 10 aprile 2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 10, giugno 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel blog di Utopia Rossa
Id.,  «Una pia illusione: la crisi economica come catarsi politica. Nota 3 sulla crisi. Giugno 2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 11, settembre 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel blog di Utopia Rossa
Id.,  «La disoccupazione, durante e oltre la crisi. Previsioni per i prossimi anni. Nota 4 sulla crisi. 26 giugno 2009», in rete nel blog di Utopia Rossa,
Id., «Sulla crisi economica», 14 novembre 2010, [risposta di Michele Nobile all'invio dell'articolo di Antonio Peredo, "Descubren a Marx" da parte di Enzo Valls, dall'Argentina.] in rete nel blog di Utopia Rossa,
Id., «La crisi dell’Irlanda, un esempio delle contraddizioni dell’Unione Europea. Nota 5 sulla crisi», aprile 2011, in rete nel blog di Utopia Rossa,


sabato 24 settembre 2011

FOR THE FIFTH INTERNATIONAL - POR LA QUINTA INTERNACIONAL - PER LA QUINTA INTERNAZIONALE

IN ENGLISH



The political association Red Utopia believes that for the construction of the Fifth International it would be beneficial to make use of the cultural patrimony it has acquired during years of formulating theoretical ideas and accumulating practical experience. In light of this heritage, the Fifth should be unitarian, totally open to all the workers of the world - intellectual and physical workers - and without discriminating ideologies (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).
We also propose that the Fifth International be organized on the foundation of the principles expressed succinctly in the following very simple sentences (with indications in brackets of the Internationals that are the historical references for the particular points):
a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end. [Priority of ethics (Guevara) and the scientific truth above every other consideration]
b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships. [Beginning of the Third International]
c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism. [The Left of Zimmerwald from the Second International]
d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism). [First International]
e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy. [Anti-authoritarian International of Saint-Imier and the Fourth International]
f) Save all life on the Planet, save humanity. [Real new historical task of the Fifth].
(January 2010)

EN ESPAÑOL

La asociación política Utopía Roja considera que para la construcción de la Quinta Internacional pueda ser útil valorizar también el patrimonio de Utopía Roja, acumulado en estos años de elaboraciones teóricas y experiencia práctica. A la luz de tal patrimonio, considera que la Quinta Internacional deba ser unitaria, totalmente abierta al mundo del trabajo intelectual y físico, y sin discriminaciones ideológicas (a excepción de las bases anticapitalistas, antiimperialistas y por el socialismo).
Propone además que la Quinta se organice sobre bases de principio expresadas sintéticamente en las siguientes frases (con indicación, entre corchetes, de las referencias históricas de los diferentes puntos):
a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin. [Prioridad de la ética (Guevara) y de la verdad científica sobre cualquier otra consideración.]
b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas. [Inicios de la Tercera internacional]
c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo. [Izquierda de Zimmerwald en la Segunda internacional]
d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”. [Primera internacional]
e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista. [Internacional de Saint-Imier y Cuarta internacional]
f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad. [verdadera novedad histórica de la Quinta].
(Enero de 2010)

IN ITALIANO

L'associazione politica Utopia Rossa ritiene che per la costruzione della Quinta internazionale possa essere utile valorizzare anche il proprio patrimonio, accumulato in questi anni di elaborazione teorica ed esperienza pratica. Alla luce di tale patrimonio ritiene che la Quinta debba essere unitaria, totalmente aperta al mondo del lavoro mentale e materiale, e senza discriminanti ideologiche (a parte le basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo).
Propone inoltre che la Quinta internazionale si organizzi su basi di principio espresse sinteticamente nelle frasi seguenti (con indicazione nelle parentesi quadre delle Internazionali alle quali fanno riferimento storico i singoli punti):
a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine. [Priorità dell’etica (Guevara) e della verità scientifica su ogni altra considerazione]
b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche. [Inizi della Terza internazionale]
c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo. [Sinistra di Zimmerwald nella Seconda internazionale]
d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo»). [Prima internazionale]
e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare. [Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier e Quarta internazionale]
f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità. [vera novità storica della Quinta].
(Gennaio 2010)

giovedì 22 settembre 2011

L'UTOPIA ROSSA DI VICTOR SERGE, di Roberto Massari

Victor Serge a Orenburg, 20 marzo 1936
C'è un Victor Serge anarchico che, reduce dal carcere e dall'internamento, raggiunge il movimento rivoluzionario nella Russia del 1919, divenendo il Serge «bolscevico» che nell'estate del 1920 scrive un panegirico molto poco libertario del processo ivi in corso:
«Chi dice rivoluzione dice violenza. Ogni violenza è dittatoriale. Ogni violenza impone una volontà che spezza le resistenze… Ammetto di non concepire che si possa essere rivoluzionari (se non in modo puramente individualistico) senza riconoscere la necessità della dittatura del proletariato… Pena la morte, pena cioè l'essere immediatamente messi a morte dalla vittoria di una dittatura reazionaria, bisognerà che i rivoluzionari instaurino subito la dittatura».
E c'è un Victor Serge - sfuggito eccezionalmente allo sterminio dei vecchi bolscevichi, dopo un triennio d'internamento siberiano (Orenburg negli Urali), esule in Messico e conquistato ormai all'idea che sia indispensabile una sintesi rivoluzionaria di pensiero marxista e libertario - che scrive nell'estate del 1947, a pochi mesi dalla morte:
Massari editore, 2011
«Il totalitarismo, così come si è instaurato in Urss, nel Terzo Reich e debolmente abbozzato nell'Italia fascista e altrove, è un regime caratterizzato dallo sfruttamento dispotico del lavoro, dalla collettivizzazione della produzione, dal monopolio burocratico e poliziesco (meglio sarebbe dire terroristico) del potere, dal pensiero asservito, dal mito del capo-simbolo…
In questo senso, la rivoluzione proletaria non è più, ai miei occhi, il nostro fine; la rivoluzione che intendiamo servire non può essere che socialista, nel senso umanistico del temine, e più esattamente socialisteggiante, democraticamente, libertariamente compiuta».
In mezzo ci sono le grandi vicende del Novecento (burrascoso dopoguerra, Rivoluzione russa, ascesa dello stalinismo, tentativi insurrezionali in vari Paesi, fronti popolari, guerra civile in Spagna, patto Hitler-Stalin, Seconda guerra mondiale, spartizione del mondo in due blocchi, sconfitta storica del movimento operaio organizzato) vissute in prima persona da un grande scrittore belga-russo, naturalizzato… apolide.

martedì 20 settembre 2011

THE TREE OF LIFE (Terrence Malick, 2011), di Pino Bertelli

Io non invento niente, leggo molto. La mia originalità, e il mio fardello,
sta nel credere che il cinema sia fatto più per pensare che per raccontare storie.
(Jean-Luc Godard)

I. Il cinema brucia! Viva il cinema!

Un’annotazione fuori margine. La macchina/cinema è un’industria zuccheriera (anche quando fabbrica terrori e violenze inaudite) atta alla domesticazione degli sguardi e prona a tutte le servitù mercantili che la incensano e la proiettano nel cielo della stupidità planetaria... la macchina/cinema è parte integrante della merda sociale e politica nella quale sguazzano produttori, registi, attori... il pubblico che sostiene questa macchina desiderante è un insieme di banalità mitologiche che in cambio di un paio di ore d’imbecillità fotografate (sovente male) ricambia col consenso e acquista ogni sorta di oggetto che gronda dallo schermo (merchandising)... i passaggi dei film in televisione poi fanno il resto... pochi si accorgono che là dove la vita è finzione manipolata, lì i sogni sono appestati dalla morte sociale. Occorrerebbe un’impresa di demolizione spontanea che, con eleganza e disinvoltura, mettesse fine a questa baracconata estetizzante o mediocre che è il cinema/merce nel suo insieme... e con la noncuranza dei maestri carbonari che sapevano guardare le stelle con i sogni negli occhi e il coltello nelle mani, passare all’incendio dello schermo (con produttori, registi, attori e pubblico compresi)... uno strappo alla regola significa ricercare la bellezza e la giustizia che sono all’interno di ogni arte autentica. Il cinema brucia! Viva il cinema!
Jean-Luca Godard, il grande demistificatore del cinema brutalizzato, ha scardinato i meccanismi della narrazione cinematografica e fatto saltare in aria le regole di ripresa, fotografia, montaggio, attorialità... la sua (prolifica) opera cinematografica non è mai definita, chiusa, conclusa... è una forma — cinema che trapassa i generi (documentario, finzione, pamphlet) e abbatte le barriere tra realtà e costruzione cinematografica... tutto è vero quando ogni frammento di pellicola disvela il falso e fa della politica uno strumento di sollevazione dell’immaginario collettivo. Si tratta di “usare suoni ed immagini come unghie e denti su cui graffiare... Il cinema è come una battaglia: amore... odio... azione... violenza... in una parola: emozione (Jean-Luc Godard) o non è niente. Il cinema di Godard è una requisitoria contro la società omologata e la svendita della memoria storica popolare (dei valori autentici)... il cinema libertario di Godard ha anticipato le turbolenze generazionali del  ’68 (Le Petit soldat, un apologo contro la guerra, proibito dalla censura francese per più di due anni e mai veramente distribuito, 1960; Week-end-Un uomo e una donna da Sabato a Domenica, 1967; La cinese, 1967) e affabulato un cinema eversivo di grande presa del reale (La gaia scienza, censurato dalla tv francese, 1968; British Sound, co-regia con Jean-Henri Roger, cortometraggio per la tv britannica, 1969; Pravda, in collaborazione con il Groupe Dziga Vertov, 1969; Vento dell'est, in collaborazione con il Groupe Dziga Vertov, 1969; Lotte in Italia, in collaborazione con il  Groupe Dziga Vertov, commissionato dalla tv italiana e mai trasmesso, 1969; Vladimir et Rosa, in collaborazione con il Groupe Dziga Vertov, 1971; Crepa padrone, tutto va bene, co-regia con Jean-Pierre Gorin, 1972)... l’intera opera di questo maestro della sovversione non sospetta è un invito al viaggio in anarchia in favore degli uomini e delle donne di ogni tempo che osano passare dall’indignazione alla rivolta sociale.

sabato 17 settembre 2011

ROSA LUXEMBURG E LA QUESTIONE NAZIONALE (SULLA POLONIA, 2), di Michele Nobile

Per gran parte del XIX secolo il regime autocratico zarista fu il pilastro della Restaurazione e del legittimismo, concreta minaccia militare nei confronti di qualsiasi movimento democratico e di liberazione nazionale europeo: la sua caduta era dunque questione vitale per il progresso politico e sociale del continente. «Anello debole» del regime era la ribelle Polonia, o meglio la parte della Polonia annessa all'impero russo, comprendente Varsavia, Łódź e Lublino (Cracovia era invece nella parte annessa all'impero asburgico e Danzica in quella prussiana), sicché la lotta dei patrioti polacchi suscitava grandi speranze nei democratici e nei socialisti europei, suonando come una campana a raccolta per la causa della libertà e del fraterno sostegno tra i popoli. L'appoggio all'insurrezione polacca esplosa nel 1863 fu la ragione immediata delle riunioni di Londra del 22 e 23 luglio tra delegazioni operaie inglesi e francesi, dirette precorritrici dell'assemblea di St. Martin's Hall dell'anno seguente nella quale sarebbe stata costituita l'Associazione internazionale dei lavoratori (la Prima internazionale).


Vent'anni dopo quella storica assemblea la Polonia era ancora sotto il giogo zarista. Non aveva avuto luogo una rivoluzione politica borghese, nazionale e costituzionale, ma il capitalismo industriale germogliava, il proletariato urbano iniziava a far sentire la propria voce e nascevano organizzazioni operaie e socialiste.
Per i socialisti occorreva definire l'orientamento strategico della rivoluzione polacca in un quadro geopolitico che interessava direttamente i tre grandi imperi dell'Europa centrale e orientale che si spartivano il paese. Con quali metodi condurre la lotta? Quali i rapporti tra i socialisti polacchi e quelli dei tre imperi? In che modo dovevano combinarsi la lotta per gli obiettivi democratici e nazionali e quella per il socialismo? E, infine, la domanda che fra tutte sarà la più bruciante: in quale forma statuale doveva darsi la liberazione nazionale?
Questioni spinose, che vennero ulteriormente complicate dall'irrompere sulla scena politica della Socialdemocrazia del regno di Polonia (Sdkp), e di quella che si rivelò come la mente più brillante del socialismo internazionale: Rosa Luxemburg. La Sdkp ruppe con la tradizione ottocentesca a proposito della questione nazionale polacca: Rosa Luxemburg sviluppò una nuova sintesi politica che comprendeva quanto di meglio si poteva trarre dall'esperienza socialista dell'Oriente e dell'Occidente d'Europa, nello stesso tempo opponendosi al burocratismo occidentale e all'inclinazione «giacobina» orientale.
Coerentemente con la posizione di ponte tra Oriente e Occidente della Polonia, i militanti del Sdkpil (Socialdemocrazia del regno di Polonia e Lituania) lasciarono un segno profondo nella storia della rivoluzione russa e ancor più in quella tedesca.

giovedì 15 settembre 2011

TURCHIA, ISRAELE, CIPRO, UE: LA SVOLTA DI ANKARA, di Pier Francesco Zarcone


Il 12 ottobre il premier turco Recep Tayyip Erdoğan ha iniziato al Cairo un trionfale tour che dall’Egitto lo porterà in Tunisia e poi in Libia. Si tratta di un evento di estrema importanza politica, attestante l’esattezza dell’uso da noi fatto dell’aggettivo “neo-ottomana” per qualificare l’attuale strategia turca nei rapporti internazionali. Oltre a riproiettarsi sui Balcani, vale a dire, la Turchia (ormai potenza regionale di tutto rispetto ai livelli militare ed economico) si propone come punto di riferimento per gli sbocchi delle rivolte arabe, in palese alternativa all’Iran e non certo in sintonia con gli interessi Usa o dell’Ue nell’area.

La rottura con Israele
La sostanziale rottura dei rapporti con Israele – vecchia alleata di Ankara, ma ormai ingombrante concorrente (come meglio diremo) – appartiene alla stessa logica. Qui la faccenda si fa interessante, ed è teoricamente suscettibile di sviluppi finora non previsti. In Turchia brucia ancora il ricordo dei 9 cittadini ammazzati dagli israeliani sulla Mavi Marmara, insieme alle rifiutate scuse di Israele, e quindi la sfida di recente lanciata da Erdoğan ai sionisti – fare scortare dalla marina militare turca un prossimo convoglio umanitario verso Gaza – finisce con l’assumere una triplice finalità: galvanizzare l’opinione pubblica interna, ormai attestata su posizioni anti-israeliane; affermare la Turchia quale sostenitricee della causa palestinese; evidenziare la differenza rispetto agli Stati arabi - finora collezionatori di brutte figure, o peggio.
A quest’ultimo riguardo c’è da notare che se effettivamente la marina turca scorterà il prossimo convoglio “umanitario”, allora Ankara passerà dalle parole ai fatti, giacché le opzioni possibili si riducono a tre: a) di fronte al blocco israeliano il convoglio fa marcia indietro, e allora per la Turchia sarebbe una tale brutta figura da mandare all’aria tutta una strategia globale di politica estera; b) gli Israeliani fanno passare il convoglio; è chiaro quali sarebbero l’effetto altamente positivo per la Turchia e il grado di galvanizzazione dei Palestinesi e del mondo arabo in generale; inoltre tra le conseguenze cio sarebbe anche una diminuzione del prestigio dell’Iran; c) gli israeliani non cedono e le navi militari turche intervengono con le armi. Questa opzione costituirebbe un disastro per Israele: disastro militare e politico dalle conseguenze non predeterminabili.

Ma non si tratta solo di questioni ideali
La presa di posizione turca contro Israele non rientra solo nel quadro della strategia verso il Mediterraneo islamico, ma si inserisce anche – strumentalmente – nelle relazioni con l’Unione Europea e nella politica energetica di Ankara. Sono quindi in ballo questioni rilevanti, foriere di sviluppi non secondari.
Esaminiamole separatamente, pur essendo oggettivamente intrecciate.
Notoriamente la Turchia continua a fare anticamera per entrare nell’Ue, e questo da molti anni. Dopo che nel 2005 la Turchia era stata riconosciuta come “candidata”, le trattative si sono arenate. Tuttavia, prima di esprimere apprezzamento per la pazienza turca si devono fare alcune considerazioni.
Il partito Akp di Erdoğan – cosiddetto “islamico moderato” – ha tratto vantaggi notevoli dall’apertura delle trattative con l’Ue, innanzi tutto ai danni dell’opposizione laica per il fatto di potersi presentare – grazie a esse – come realtà politica ritenuta affidabile dall’Europa benché di matrice musulmana. Vantaggi sia politici sia economici, ma nel frattempo gli interessi del governo turco si sono rivolti a un orizzonte che va al di là di un’Europa sorda e muta e lo sbandierato europeismo degli inizi si è assai affievolito. D’altro canto oggi non può dirsi proprio esaltante entrare in un contesto come l’Ue, in forte crisi economica aggravata da inesistenti basi politiche unitarie. Rinunciare formalmente alla candidatura vorrebbe dire per Ankara sottoscrivere una sconfitta storica. Cosa da evitare, esistendo un’esigenza politica da realizzare a medio termine (così spera Erdoğan) e un possibile pretesto per assumere verso l’Europa un’atteggiamento duro non collegato formalmente al tuttora denegato ingresso della Turchia nell’Unione.
Quale sia l’esigenza politica da concretizzare è presto detto: alle ultime elezioni il partito di Erdoğan ha vinto di nuovo, e con più del 40% dei voti, ma senza conseguire quella maggioranza che gli consentirebbe di modificare la Costituzione, ovviamente nel senso di renderla un po’ meno laica. I successi della politica neo-ottomana e le prese di posizione verso l’Ue a tutela degli interessi nazionali possono servire per le prossime elezioni.
Il pretesto – che oltre tutto riguarda gli obiettivi della politica energetica – non c’è bisogno di crearlo, esiste e si tratta solo di utilizzarlo. Il suo nome è “questione cipriota”.

Che c’entra Cipro?
Cipro c’entra poiché, alla fine dei conti, se fosse risolto l’inerente contenzioso greco-turco l’Ue richierebbe di dover gettare la maschera e dire chiaro e tondo ai Turchi di scordarsi l’ingresso in Europa essendo musulmani. Quindi, con evidenti ripercussioni negative in tutto il mondo islamico. Non risolvere il contenzioso, peraltro, è utile ad Ankara per abbandonare di fatto la candidatura europea riaffermando però l’autonomia e la dignità della Nazione.
Il contenziosi greco-turco è diventato un vero e proprio affare internazionale dal 1974. In quell’anno, a seguito di un colpo di stato di destra nell’isola contro il Presidente Makarios e finalizzato all’unione (énosis) con la Grecia (all’epoca ancora sotto il dominio dei militari), il governo turco – presieduto dal laico Bulent Ecevit – mandò l’esercito a invadere la parte settentrionale dell’isola con la scusa di proteggere la locale minoranza turca lì più consistente. In quella parte dell’isola è stata costituita una Repubblica turco-cipriota, riconosciuta solo da Ankara. A motivo dello stato dei rapporti fra i ciprioti delle due etnie, di riunificazione in un’unico Stato non è proprio il caso di parlare, talché si tratterebbe di concordare un assetto cantonale o confederale che lasci autonome le due comunità sia pure sotto il cappello di una formale aggregazione. Cosa più facile a dirsi che a farsi, non foss’altro per il rifiuto turco-cipriota a far rientrare (e risarcire) i greci a suo tempo fuggiti dalla parte nord.
La Repubblica di Cipro (con capitale Nicosia) a differenza dello Stato turco del nord è internazionalmente riconosciuta, fa parte dell’Ue e nel 2012 ne assumerà la presidenza. Circa questo prossimo avvenimento Erdoğan ha già messo le mani avanti, nel senso che fino a quando l’Ue sarà guidata da un cipriota la Turchia non potrà collaborare con l’Unione. Infatti, il bello è che se il contesto internazionale non riconosce la Repubblica turco-cipriota, dal canto suo Ankara non riconosce la Repubblica con capitale Nicosia!
Si potrebbe aggiungere, per capire quale inestricabile intreccio ci sia a Cipro, che la stessa politica di Ankara piace sempre meno ai turchi di Cipro, ormai ridotti a 1/3 a causa della massiccia immigrazione di turchi anatolici che – nella loro qualità di membri di uno Stato-fantoccio hanno dovuto subire.
L’Europa non si impegna per una soluzione del problema perché il suo persistere giustifica l’esclusione della Turchia; la Turchia non può mollare per altri e consistenti motivi: il ruolo strategico assunto dalla Turchia quale punto di passaggio delle risorse energetiche verso l’Europa. Ebbene, la Turchia non può lasciare il controllo delle risorse esistenti nel fondo del Mediteraneo in prossimità delle coste cipriote: cioè gas e petrolio.



E Israele?
Sempre in relazione a queste risorse Israele svolge la sua politica in oggettiva concorrenza con quella della Turchia, cosa che Erdoğan e il suo governo (ma lo stesso vale per qualsivoglia governo turco) non possono tollerare.
L’attuale “faccia feroce” turca verso Israele interviene sì dopo i fatti della Mavi Marmara, ma successivamente all’accordo della fine del 2010 tra Nicosia e Gerusalemme per lo sfruttamento delle risorse energetiche dei fondali. Vero è che queste risorse si tiovano in acque che in teoria sarebbero internazionali, ma va ricordata la contestazione di Ankara, di vecchia data, sull’esatta definizione delle acque territoriali turche. Se si considera l’importanza delle risorse energetiche esistenti nel mare fra Cipro, Turchia, Libano, Israele e Gaza - il cui sfruttamento permetterebbe di creare un’alternativa al gas russo portato da South Stream, oltre a quelli del Caspio e dell’Iran - allora ci si rende conto dell’enormità degli interessi in gioco.
In questa situazione per Ankara chiudere Israele in un angolo diventa una priorità politica ed economica, e ad essere in difficoltà non sarebbero solo gli Stati Uniti (già fortemente indeboliti nel Vicino Oriente), ma anche l’Unione Europea, che si troverebbe a dover affrontare un’eventualità tra le peggiori: scegliere.

mercoledì 7 settembre 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XXIII, di Pier Francesco Zarcone


Per un imperdonabile mio errore di posta elettronica è stato pubblicato come 23° articolo sul mondo arabo non il testo che segue, ma un materiale preparatorio tratto da un giornale quotidiano. Mi scuso con la Redazione e in modo particolare con i lettori, ammesso che ciò sia possibile. (Pier Francesco Zarcone)

Libia: premesse “a futura memoria” sui prossimi sviluppi

Praticamente finito Gheddafi, si aprono i giochi tra i vincitori
Indipendentemente dai possibili “colpi di coda”, la conquista di Tripoli dovrebbe aver posto fine a un regime durato 41 anni. A questo punto è d’obbligo chiedersi problematicamente cosa accadrà dopo. La Libia è un contesto tutto particolare, anche all’interno del cosiddetto mondo arabo (che in realtà ha come elemento unitario solo la religione) e in più non siamo in presenza di rivoluzione sociale: su queste basi un atteggiamento diffidente è giustificato.
Al momento si può solo prendere atto della caduta di un tiranno sanguinario e folle, restare in attesa degli sviluppi successivi e cercare intanto di individuare i problemi esistenti. Ma per quel paese non si può escludere un futuro anche peggiore, giacché l’esserci stata una rivolta popolare lascia impregiudicato cosa ci presenti la Libia con la parola “popolo” (peraltro una fra le meno chiare del lessico politico, senza che i vari connotati ideologici a essa dati siano di utilità per definirne il contenuto, che poi tutti tirano dalla propria parte). Se a questo si aggiunge che le sollevazioni contro i tiranni possono avere le più svariate connotazioni politiche, allora si capisce meglio perché nelle precedenti corrispondenze si sia evitato l’abbandono a prematuri entusiasmi e si sia preferito tentare analisi degli avvenimenti e valutazioni magari un po’ freddine.

Uno scenario difficile con la prospettiva di una democrazia importata e artificiale
Il dopo-Gheddafi si presenta estremamente difficoltoso, e tale da motivare l’espressione - coniata all’interno della Nato appena si è profilata la vittoria - “successo catastrofico”. Cerchiamo dunque di capire meglio.
Una marea di “se” ipotetici sta di fronte ai vincitori in relazione alla loro capacità/possibilità di costruire “una” Libia. Non è casuale se non parliamo di ricostruzione della Libia, poiché dopo tanti anni di regime gheddafiano da costruire c’è tutto, e da ricostruire poco e niente. Gheddafi col suo pensiero “verde” (da lui definito “Terza Teoria Universale”) e sotto l’apparenza di una pseudodemocrazia diretta - che, sotto il suo dominio personale, non è stata nè democrazia né qualcosa di diretto, bensì devastazione istituzionale per una “libera tirannia” - ha demonizzato e bandito tutte le realtà e le istituzioni che, piaccia o no, permettono di parlare di “società moderna”. Niente Costituzione, niente partiti (nemmeno il partito unico), niente Parlamento, la stampa pubblicabile solo a cura dei “comitati popolari”. In poche parole, mancanza totale delle strutture idonee a svolgere le funzioni basilari di uno Stato e mancanza dell’indispensabile psicologia della cittadinanza. Su questa base la democrazia rappresentativa viene a essere impiantata sul nulla e partire dal nulla.

Che dire dei vincitori libici?
Ma i gravi problemi non finiscono qui, e in primo luogo riguardano i libici che hanno combattuto contro Gheddafi.. Che sappiamo dei vincitori? Chi sono e come si articolano? I rispettivi intendimenti sono compatibili o componibili in una pacifica dialettica politica? Che ruolo avrà la religione e che faranno i radicali islamici (o meglio, che possibilità di manovra in teoria hanno)? Poiché il Consiglio di Transizione attualmente non ha il controllo totale della Libia – e non ci si riferisce solo a Sirte, a Gadames e all’estesa parte sahariana del paese - a breve si vedrà se effettivamente la tribù degli Zentan, a cui si deve la caduta di Tripoli, non riconosce l’autorità del Consiglio di Transizione; cosa verrà fuori da una composita coalizione di ribelli comprensiva di tutto e del contrario di tutto (monarchici e repubblicani, laici e islamisti, dissidenti della vecchia guardia e ribelli dell’ultima ora) e fino a che punto giocheranno i tradizionali contrasti fra Tripoli e Bengasi e le rivalità tribali. In astratto uno scenario di decomposizione di tipo afghano aleggia sul paese.
Si dice che fra otto mesi ci sarà un’Assemblea Costituente, e fra venti mesi le elezioni politiche: prima di chiedersi se esse saranno la panacea presentata dai mass-media, si deve sottolineare la mancanza dei necessari presupposti, cioè una società civile “unitaria” alla maniera occidentale, mentre quella libica è frammentata in nuclei tribali e regionali, altresì suscettibile di ulteriori spaccature/aggregazioni per l’azione del radicalismo islamico.
L’incognita rappresentata da quest’ultimo oggettivamente esiste, e al momento non è ponderabile. Poi saranno i fatti futuri a parlare.

Pluralità di fazioni e problema islamista
Sia per le articolazioni interne ai ribelli di Bengasi, sia per la tradizionale e non sopita divaricazione fra essi e i tripolini non è azzardato prevedere – se non si arrivasse a una spartizione soddisfacente per tutte le componenti del fronte - il prossimo aprirsi di una diffusa e frammentata lotta per il potere dagli esiti non piacevoli, all’interno come all’estero. A pesare sarà certo il fatto che si deve la caduta di Tripoli agli ultimi arrivati, e non ai cirenaici, i ribelli della prima ora. Significativamente il 3 settembre il ministro degli Interni del Consiglio di Transizione, Ahmed Darrad, ha formalmente chiesto ai reparti di insorti non-tripolini di lasciare la capitale, con ciò causando gli intuibili malumori in gente che ha alle spalle una maggiore quantità di combattimenti e oggi ha sentore di misconoscimenti dei sacrifici affrontati.
Intanto il pericolo islamista, anche se non quantificabile, comincia ad apparire, e non più sullo sfondo, ma in primo piano. Per quanto discreta sia l’azione sviluppata dai circoli radicali islamici, il direttore del quotidiano londinese al-Quds al-Arabi, ‘Abd al-Bari Atwan, li ha di recente definiti “forti, ben armati e implacabilmente ostili alla Nato”. Potrebbe non sensibilizzare più di tanto l’aver deciso giorni fa il Consiglio di Transizione che la sharía sarà fonte d’ispirazione per le leggi dello Stato. Per quanto ciò possa dispiacere a laici e neokemalisti, non si tratta però di una novità nel mondo arabo, atteso che lo stesso accade per esempio in Egitto. Ma tutto sommato un po’ più preoccupante è la figura del nuovo comandante militare di Tripoli ‘Abdelhakim Belhaj (o anche Abu Abdallāh al Sadik), sospettato di rapporti con la galassia di al-Qaida.
Sarà vero oppure no? Indipendentemente da questo particolare, asserito ma non provato, il suo curriculum non è tale da rassicurare, e questo si riverbera sulle sue esibizioni verbali di moderatismo. Ex combattente in Afghanistan insieme ai Mujahiddin negli anni ‘80, nel 1995 fondò in patria il Gruppo Islamico di Combattimento Libico (Lifg), a cui si deve l’anno successivo un tentativo di uccidere Gheddafi (in quel periodo la politica del dittatore era contraria al radicalismo islamico sia perché da lui non controllato, sia per esigenze di make-up verso l’Occidente al fine di poter concludere proficui affari economico/finanziari). Nel 2004 era stato preso dalla Cia e poi consegnato a Gheddafi, dalle cui carceri era uscito nel 2008 a seguito di un’amnistia. Vuoi per il suo attuale incarico, vuoi per essere a capo di un gruppo di insorti duri e puri, oltre che ben arnati, di lui risentiremo parlare.

I “salvatori” europei: fonte di complicazioni
A questo punto appare problematico il ruolo delle maggiori potenze della Nato nel prossimo futuro. Questo ruolo, a seconda di come si metteranno le cose e di come dette potenze riusciranno a esercitare il loro potere, potrà essere destabilizzante o autoritativamente stabilizzatore.
Non si dimentichi mai che il regime di Gheddafi non è stato abbattuto dalla rivolta popolare: senza l’intervento militare esterno (essenzialmente di Francia e Gran Bretagna), effettuato in violazione sia del diritto internazionale sia di un ambiguo deliberato dell’Onu, già da tempo Gheddafi avrebbe massacrato i ribelli (Bengasi si salvò in corner, grazie all’intervento dell’aviazione francese che attaccò non appena il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 19 marzo scorso autorizzò l’intervento “ a difesa dei civili”). L’intervento straniero ha del tutto rovesciato i rapporti di forza sul campo.
In buona sostanza la Nato, che ha abbattuto il regime libico, riuscirà a sostituirlo con un altro capace di prendere in pugno la situazione? Una buona parte del problema sta qui. Dalla stampa si apprende che sono in corso colloqui europei per la spartizione del petrolio libico, che a essi partecipa anche l’Italia. La Francia vorrebbe una quota del 35% per la Total, e l’Italia una forte presenza dell’Eni. Anche per il grande business della ricostruzione del paese ci sarà un’analoga quotizzazione e la Repubblica Popolare Cinese si è già affacciata con la sua candidatura.
Soffermarsi sugli aspetti etici è del tutto fuori luogo perché in assenza di quell’intervento ci sarebbero state ondate di proteste contro l’indifferenza del consesso degli Stati di fronte al massacro libico; e poiché c’è stato, implicando spese enormi, è ovvio che i “salvati” dovranno pagare il conto. Qui diciamo solo che ben difficilmente un condominio straniero di compari non dotati di pari forza (e determinazione) riuscirà a egemonizzare gli sviluppi futuri senza suscitare opposizioni: sia tra gli stessi partners, sia da parte della società libica. Quest’ultima troverà di fronte a sè aspiranti padroni europei, famelici e in lotta fra loro, con i governanti locali (che a costoro tutto devono) non certo in condizioni di fare resistenza e suscettibili di dividersi clientelarmente in rapporto ai singoli “salvatori” europei. Non è quindi esagerato prevedere una risposta dura da parte di quei settori che resteranno esclusi da un potere neocolonizzato. Il grande “ballo” deve ancora iniziare, e non si tratterà solo di “transizione”.

Un commiato?
Con un numero consistente di corrispondenze si è cercato di seguire i maggiori eventi attuali del mondo arabo commentandoli in modo da offrirne (si spera di averlo fatto) una visione diversa da quella presentata dai grandi (e vincolati) mezzi di comunicazione.
A questo punto possiamo prenderci una pausa, salvo eventi di straordinario o particolare rilievo. Infatti, chi fin qui ha avuto la pazienza di seguire i ben 23 interventi ospitati da “Utopia Rossa” ha a disposizione adeguate chiavi di lettura per continuare a commentare da sé i successivi sviluppi. Soprattutto libici, tunisini ed egiziani. E la situazione siriana? Anche per essa vale quanto detto, non solo per la sua stasi attuale. Se all’autore di questi scritti si dà licenza di indossare gli aleatori panni dell’indovino, se ne presenta la previsione: al-Assad non sarà rovesciato dalla piazza; e se le Forze Armate siriane continueranno a operare come hanno fatto finora, allora egli resterà al potere.

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

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a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.