Per un imperdonabile mio
errore di posta elettronica è stato pubblicato come 23° articolo sul mondo
arabo non il testo che segue, ma un materiale preparatorio tratto da un
giornale quotidiano. Mi scuso con la Redazione e in modo particolare con i
lettori, ammesso che ciò sia possibile. (Pier Francesco Zarcone)
Libia: premesse “a futura memoria” sui prossimi
sviluppi
Praticamente finito Gheddafi, si aprono i giochi
tra i vincitori
Indipendentemente dai possibili “colpi di coda”, la conquista di Tripoli
dovrebbe aver posto fine a un regime durato 41 anni. A questo punto è d’obbligo
chiedersi problematicamente cosa accadrà dopo. La Libia è un contesto tutto
particolare, anche all’interno del cosiddetto mondo arabo (che in realtà ha
come elemento unitario solo la religione) e in più non siamo in presenza di
rivoluzione sociale: su queste basi un atteggiamento diffidente è giustificato.
Al momento si può solo prendere atto della caduta di un tiranno sanguinario
e folle, restare in attesa degli sviluppi successivi e cercare intanto di
individuare i problemi esistenti. Ma per quel paese non si può escludere un
futuro anche peggiore, giacché l’esserci stata una rivolta popolare lascia
impregiudicato cosa ci presenti la Libia con la parola “popolo” (peraltro una
fra le meno chiare del lessico politico, senza che i vari connotati ideologici
a essa dati siano di utilità per definirne il contenuto, che poi tutti tirano
dalla propria parte). Se a questo si aggiunge che le sollevazioni contro i
tiranni possono avere le più svariate connotazioni politiche, allora si capisce
meglio perché nelle precedenti corrispondenze si sia evitato l’abbandono a
prematuri entusiasmi e si sia preferito tentare analisi degli avvenimenti e
valutazioni magari un po’ freddine.
Uno scenario difficile con la
prospettiva di una democrazia importata e artificiale
Il dopo-Gheddafi si presenta estremamente difficoltoso, e tale da motivare
l’espressione - coniata all’interno della Nato appena si è profilata la
vittoria - “successo catastrofico”. Cerchiamo dunque di capire meglio.
Una marea di “se” ipotetici sta di fronte ai vincitori in relazione alla
loro capacità/possibilità di costruire “una” Libia. Non è casuale se non
parliamo di ricostruzione della Libia, poiché dopo tanti anni di regime
gheddafiano da costruire c’è tutto, e da ricostruire poco e niente. Gheddafi
col suo pensiero “verde” (da lui definito “Terza Teoria Universale”) e sotto
l’apparenza di una pseudodemocrazia diretta - che, sotto il suo dominio
personale, non è stata nè democrazia né qualcosa di diretto, bensì devastazione
istituzionale per una “libera tirannia” - ha demonizzato e bandito tutte le
realtà e le istituzioni che, piaccia o no, permettono di parlare di “società
moderna”. Niente Costituzione, niente partiti (nemmeno il partito unico),
niente Parlamento, la stampa pubblicabile solo a cura dei “comitati popolari”.
In poche parole, mancanza totale delle strutture idonee a svolgere le funzioni
basilari di uno Stato e mancanza dell’indispensabile psicologia della
cittadinanza. Su questa base la democrazia rappresentativa viene a essere
impiantata sul nulla e partire dal nulla.
Che dire dei vincitori
libici?
Ma i gravi problemi non finiscono qui, e in primo luogo riguardano i libici
che hanno combattuto contro Gheddafi.. Che sappiamo dei vincitori? Chi sono e
come si articolano? I rispettivi intendimenti sono compatibili o componibili in
una pacifica dialettica politica? Che ruolo avrà la religione e che faranno i
radicali islamici (o meglio, che possibilità di manovra in teoria hanno)?
Poiché il Consiglio di Transizione attualmente non ha il controllo totale della
Libia – e non ci si riferisce solo a Sirte, a Gadames e all’estesa parte
sahariana del paese - a breve si vedrà se effettivamente la tribù degli Zentan,
a cui si deve la caduta di Tripoli, non riconosce l’autorità del Consiglio di
Transizione; cosa verrà fuori da una composita coalizione di ribelli
comprensiva di tutto e del contrario di tutto (monarchici e repubblicani, laici
e islamisti, dissidenti della vecchia guardia e ribelli dell’ultima ora) e fino
a che punto giocheranno i tradizionali contrasti fra Tripoli e Bengasi e le
rivalità tribali. In astratto uno scenario di decomposizione di tipo afghano
aleggia sul paese.
Si dice che fra otto mesi ci sarà un’Assemblea Costituente, e fra venti
mesi le elezioni politiche: prima di chiedersi se esse saranno la panacea
presentata dai mass-media, si deve sottolineare la mancanza dei necessari
presupposti, cioè una società civile “unitaria” alla maniera occidentale,
mentre quella libica è frammentata in nuclei tribali e regionali, altresì
suscettibile di ulteriori spaccature/aggregazioni per l’azione del radicalismo
islamico.
L’incognita rappresentata da quest’ultimo oggettivamente esiste, e al
momento non è ponderabile. Poi saranno i fatti futuri a parlare.
Pluralità di fazioni e
problema islamista
Sia per le articolazioni interne ai ribelli di Bengasi, sia per la
tradizionale e non sopita divaricazione fra essi e i tripolini non è azzardato
prevedere – se non si arrivasse a una spartizione soddisfacente per tutte le
componenti del fronte - il prossimo aprirsi di una diffusa e frammentata lotta
per il potere dagli esiti non piacevoli, all’interno come all’estero. A pesare
sarà certo il fatto che si deve la caduta di Tripoli agli ultimi arrivati, e
non ai cirenaici, i ribelli della prima ora. Significativamente il 3 settembre
il ministro degli Interni del Consiglio di Transizione, Ahmed Darrad, ha
formalmente chiesto ai reparti di insorti non-tripolini di lasciare la
capitale, con ciò causando gli intuibili malumori in gente che ha alle spalle
una maggiore quantità di combattimenti e oggi ha sentore di misconoscimenti dei
sacrifici affrontati.
Intanto il pericolo islamista, anche se non quantificabile, comincia ad
apparire, e non più sullo sfondo, ma in primo piano. Per quanto discreta sia
l’azione sviluppata dai circoli radicali islamici, il direttore del quotidiano
londinese al-Quds al-Arabi, ‘Abd
al-Bari Atwan, li ha di recente definiti “forti, ben armati e implacabilmente
ostili alla Nato”. Potrebbe non sensibilizzare più di tanto l’aver deciso
giorni fa il Consiglio di Transizione che la sharía sarà fonte d’ispirazione per le leggi dello Stato. Per
quanto ciò possa dispiacere a laici e neokemalisti, non si tratta però di una
novità nel mondo arabo, atteso che lo stesso accade per esempio in Egitto. Ma
tutto sommato un po’ più preoccupante è la figura del nuovo comandante militare
di Tripoli ‘Abdelhakim Belhaj (o anche Abu Abdallāh al Sadik), sospettato di
rapporti con la galassia di al-Qaida.
Sarà vero oppure no? Indipendentemente da questo particolare, asserito ma
non provato, il suo curriculum non è tale da rassicurare, e questo si riverbera
sulle sue esibizioni verbali di moderatismo. Ex combattente in Afghanistan
insieme ai Mujahiddin negli anni ‘80,
nel 1995 fondò in patria il Gruppo Islamico di Combattimento Libico (Lifg), a
cui si deve l’anno successivo un tentativo di uccidere Gheddafi (in quel
periodo la politica del dittatore era contraria al radicalismo islamico sia
perché da lui non controllato, sia per esigenze di make-up verso l’Occidente al fine di poter concludere proficui
affari economico/finanziari). Nel 2004 era stato preso dalla Cia e poi
consegnato a Gheddafi, dalle cui carceri era uscito nel 2008 a seguito di
un’amnistia. Vuoi per il suo attuale incarico, vuoi per essere a capo di un
gruppo di insorti duri e puri, oltre che ben arnati, di lui risentiremo
parlare.
I “salvatori” europei: fonte
di complicazioni
A questo punto appare problematico il ruolo delle maggiori potenze della
Nato nel prossimo futuro. Questo ruolo, a seconda di come si metteranno le cose
e di come dette potenze riusciranno a esercitare il loro potere, potrà essere
destabilizzante o autoritativamente stabilizzatore.
Non si dimentichi mai che il regime di Gheddafi non è stato abbattuto dalla
rivolta popolare: senza l’intervento militare esterno (essenzialmente di
Francia e Gran Bretagna), effettuato in violazione sia del diritto
internazionale sia di un ambiguo deliberato dell’Onu, già da tempo Gheddafi
avrebbe massacrato i ribelli (Bengasi si salvò in corner, grazie all’intervento dell’aviazione francese che
attaccò non appena il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 19 marzo scorso
autorizzò l’intervento “ a difesa dei civili”). L’intervento straniero ha del
tutto rovesciato i rapporti di forza sul campo.
In buona sostanza la Nato, che ha abbattuto il regime libico, riuscirà a
sostituirlo con un altro capace di prendere in pugno la situazione? Una buona
parte del problema sta qui. Dalla stampa si apprende che sono in corso colloqui
europei per la spartizione del petrolio libico, che a essi partecipa anche
l’Italia. La Francia vorrebbe una quota del 35% per la Total, e l’Italia una
forte presenza dell’Eni. Anche per il grande business della ricostruzione del paese ci sarà un’analoga
quotizzazione e la Repubblica Popolare Cinese si è già affacciata con la sua
candidatura.
Soffermarsi sugli aspetti etici è del tutto fuori luogo perché in assenza
di quell’intervento ci sarebbero state ondate di proteste contro l’indifferenza
del consesso degli Stati di fronte al massacro libico; e poiché c’è stato,
implicando spese enormi, è ovvio che i “salvati” dovranno pagare il conto. Qui
diciamo solo che ben difficilmente un condominio straniero di compari non
dotati di pari forza (e determinazione) riuscirà a egemonizzare gli sviluppi
futuri senza suscitare opposizioni: sia tra gli stessi partners, sia da parte
della società libica. Quest’ultima troverà di fronte a sè aspiranti padroni
europei, famelici e in lotta fra loro, con i governanti locali (che a costoro
tutto devono) non certo in condizioni di fare resistenza e suscettibili di
dividersi clientelarmente in rapporto ai singoli “salvatori” europei. Non è
quindi esagerato prevedere una risposta dura da parte di quei settori che
resteranno esclusi da un potere neocolonizzato. Il grande “ballo” deve ancora
iniziare, e non si tratterà solo di “transizione”.
Un commiato?
Con un numero consistente di corrispondenze si è cercato di seguire i
maggiori eventi attuali del mondo arabo commentandoli in modo da offrirne (si
spera di averlo fatto) una visione diversa da quella presentata dai grandi (e
vincolati) mezzi di comunicazione.
A questo punto possiamo prenderci una pausa, salvo eventi di straordinario
o particolare rilievo. Infatti, chi fin qui ha avuto la pazienza di seguire i
ben 23 interventi ospitati da “Utopia Rossa” ha a disposizione adeguate chiavi
di lettura per continuare a commentare da sé i successivi sviluppi. Soprattutto
libici, tunisini ed egiziani. E la situazione siriana? Anche per essa vale
quanto detto, non solo per la sua stasi attuale. Se all’autore di questi
scritti si dà licenza di indossare gli aleatori panni dell’indovino, se ne
presenta la previsione: al-Assad non sarà rovesciato dalla piazza; e se le
Forze Armate siriane continueranno a operare come hanno fatto finora, allora
egli resterà al potere.