Io non invento niente, leggo molto. La mia originalità, e il mio fardello,
sta nel credere che il cinema sia fatto più per pensare che per raccontare storie.
(Jean-Luc Godard)
I.
Il cinema brucia! Viva il cinema!
Un’annotazione fuori margine. La macchina/cinema è un’industria zuccheriera (anche quando fabbrica terrori e violenze inaudite) atta alla domesticazione degli sguardi e prona a tutte le servitù mercantili che la incensano e la proiettano nel cielo della stupidità planetaria... la macchina/cinema è parte integrante della merda sociale e politica nella quale sguazzano produttori, registi, attori... il pubblico che sostiene questa macchina desiderante è un insieme di banalità mitologiche che in cambio di un paio di ore d’imbecillità fotografate (sovente male) ricambia col consenso e acquista ogni sorta di oggetto che gronda dallo schermo (merchandising)... i passaggi dei film in televisione poi fanno il resto... pochi si accorgono che là dove la vita è finzione manipolata, lì i sogni sono appestati dalla morte sociale. Occorrerebbe un’impresa di demolizione spontanea che, con eleganza e disinvoltura, mettesse fine a questa baracconata estetizzante o mediocre che è il cinema/merce nel suo insieme... e con la noncuranza dei maestri carbonari che sapevano guardare le stelle con i sogni negli occhi e il coltello nelle mani, passare all’incendio dello schermo (con produttori, registi, attori e pubblico compresi)... uno strappo alla regola significa ricercare la bellezza e la giustizia che sono all’interno di ogni arte autentica. Il cinema brucia! Viva il cinema!
Jean-Luca Godard,
il grande demistificatore del cinema brutalizzato, ha scardinato i meccanismi
della narrazione cinematografica e fatto saltare in aria le regole di ripresa,
fotografia, montaggio, attorialità... la sua (prolifica) opera cinematografica
non è mai definita, chiusa, conclusa... è una forma — cinema che trapassa i
generi (documentario, finzione, pamphlet) e abbatte le barriere tra realtà e
costruzione cinematografica... tutto è vero quando ogni frammento di pellicola
disvela il falso e fa della politica uno strumento di sollevazione
dell’immaginario collettivo. Si tratta di “usare suoni ed immagini come unghie
e denti su cui graffiare... Il cinema è come una battaglia: amore... odio...
azione... violenza... in una parola: emozione (Jean-Luc Godard) o non è niente.
Il cinema di Godard è una requisitoria contro la società omologata e la svendita
della memoria storica popolare (dei valori autentici)... il cinema libertario
di Godard ha anticipato le turbolenze generazionali del ’68 (Le Petit soldat, un apologo contro la
guerra, proibito dalla censura francese per più di due anni e mai veramente
distribuito, 1960; Week-end-Un
uomo e una donna da Sabato a Domenica, 1967;
La
cinese,
1967) e affabulato un cinema eversivo di grande presa del reale (La gaia scienza, censurato dalla
tv francese, 1968; British
Sound,
co-regia con Jean-Henri Roger, cortometraggio per la tv britannica, 1969; Pravda, in collaborazione
con il Groupe Dziga Vertov, 1969; Vento
dell'est,
in collaborazione con il Groupe Dziga Vertov, 1969; Lotte in Italia, in collaborazione
con il Groupe Dziga Vertov,
commissionato dalla tv italiana e mai trasmesso, 1969; Vladimir et Rosa, in collaborazione
con il Groupe Dziga Vertov, 1971; Crepa
padrone, tutto va bene,
co-regia con Jean-Pierre Gorin, 1972)... l’intera opera di questo maestro della
sovversione non sospetta è un invito al viaggio in anarchia in favore degli
uomini e delle donne di ogni tempo che osano passare dall’indignazione alla
rivolta sociale.
Quando anche i
ciechi e i sordomuti della critica velinara si accorsero della grandezza epica
di questo randagio del cinema, assegnarono il Leone d’Oro a Venezia a Prénom Carmen (1982), tra elogi,
insulti e fesserie varie, ci fu quel coglione di Paolo Mereghetti che scrisse:
“Intrighi incomprensibili, dialoghi strampalati e pieni di citazioni, musica
classica, fanciulle con le tette di fuori”... aveva visto un altro film, forse
era Las
orgías inconfesables de Emmanuelle
di Jesús Franco... è
difficile stabilire il confine che separa il cinema dagli affari... l’arte
autentica rivela il profondo di ogni attentatore ai templi della servitù volontaria.
“È ora di smetterla di di fare film che
parlano di politica. È ora di fare film in modo politico” (Jean-Luc Godard). I
ragazzi, i precari, i disoccupati... che si sono riversati nelle piazze
italiane in questo inizio di secolo ed hanno incrinato l’arroganza e
l’indecenza dei partiti e dei governi... fuoriescono anche dall’insorgenza (non
solo) cinematografica di questo “cane sciolto” che ha anticipato le rivolte
sociali degli internauti e a partire dal 1975 ha teorizzato e messo
in pratica l’uso delle tecnologie elettroniche, la sperimentazione in video e
costruito film personali, girati a bassissimo costo, nella propria casa, con
amici, attori disposti a non recitare ma a vivere la storia che interpretano e
mostrato che al cannibalismo dei dominatori si può contrapporre la fantasia, la
meraviglia e lo stupore dei ladri di sogni.
II.
The Tree of Life
Il cinema di
Terrence Malick figura un’anomalia all’interno della macchina/cinema hollywoodiana...
tra il suo esordio sullo schermo, Lanton
Mills
(1969, cortometraggio) e The
Tree of Life (2011,
Palma d’oro al 64° Festival di Cannes) ha girato soltanto sei film (La rabbia giovane, 1973; I giorni del
cielo,
1978; La
sottile line rossa,
1998; The
New World
— Il
nuovo mondo,
2005 e The
Tree of Life)...
uno davvero brutto (The
New World
— Il
nuovo mondo e
gli altri di notevole pregnanza etica/estetica... tuttavia, per noi, La rabbia giovane (tratto da un
fatto di cronaca) resta un autentico gioiello libertario, quasi un manifesto
contro l’ordine borghese, sospeso tra la rivolta dell’emarginazione e
l’emarginazione del sistema spettacolare/parassitario che educa all’obbedienza
e alla repressione i “cattivi soggetti”.
Malick è autore
cinematografico (produttore, sceneggiatore, compositore) singolare, un visionario
della “scatola delle illusioni”... non ama essere intervistato, fotografato e
non va a ritirare i premi che qualche volta gli conferiscono (nemmeno a
Cannes)... non ci è dato sapere se è per una naturale idiosincrasia verso la
rapacità il mondo di cartapesta dorata di Hollywood o soltanto perché gli piace
stare un po’ appartato da tutto quanto rappresenta la schiuma culturale che
imperversa sui “tappeti rossi” delle rassegne, festival del cinema... ha fatto
l’operaio ai pozzi di petrolio, professore di filosofia (al MIT), giornalista,
ornitologo e tradotto alcuni saggi di Martin Heidegger... qualcuno lo ha affiancato
all’autoisolamento di J.D. Salinger (il grande scrittore di Il giovane Holden)... non ci sembra
così... la riservatezza di Malick non ci pare avere sfumature patologiche ma
istanze etiche... la disperazione, la solitudine, la violenza (ma anche
l’amore, la passione, la vitalità) dei personaggi dei suoi film, del resto,
caratterizzano un fare — cinema intenso e complesso, che porta a riflettere
sull’esistenza dell’uomo e la sopravvivenza del pianeta.
The Tree of Life è un film strano...
anzi estraniante... gli interpreti (come accade nel grande cinema) sono
secondari rispetto alla struttura filmica... Malick inserisce nell’opera un
lungo documentario sulla nascita della vita sulla terra e altri frammenti
visionari corredati da una musica insistente, scritta con la grandezza che gli
è propria, dal francese Alexandre
Desplat (autore di colonne sonore cinematografiche di pregevole sensibilità, come
quelle di La
ragazza con l’orecchino di perla,
2003; The
Queen,
2006; Il
profeta,
2009 o Il
discorso del re,
2010)... la storia è narrata per mezzo di flashback e incrocia la vita
quotidiana di una famiglia con la grazia materica (laica) dell’universo come
metafora dell’amore... Dio non c’entra e nemmeno i suoi profeti in terra...
tantomeno le gerarchie ecclesiastiche... c’entra invece la possibilità di amare
l’altro senza chiedere perché e di amare il mondo, e non violarlo nel profondo
della sua bellezza.
Jack O'Brien è un ragazzo
del Texas e insieme ai suoi fratelli riceve l’educazione autoritaria del padre
(Brad Pitt, la cui interpretazione è piuttosto anonima, spesso fuori parte) che
indica a tutti come avere successo nella vita... la madre dei ragazzi (Jessica
Chastain) invece insegna loro i valori dell’amore e la pratica delle passioni e
dei sentimenti... la famiglia appartiene al ceto medio, sono ferventi cattolici
(siamo negli anni ’50) e il padre di Jack vuole da lui una crescita da
adulto... i litigi con il figlio e la moglie sono frequenti, a volte
imbarazzanti... accusa Jack di codardia e la moglie di passività... Jack
rinnega l’esistenza di Dio e attraverso un tormentato percorso interiore
desidera la morte del padre... la scomparsa (suicidio) del fratello di 19 anni
lo angoscia e lo rende insicuro... quando è uomo (la forza interpretativa di
Sean Penn è misurata, quanto straordinaria) è uno spirito perso all’interno di
una società omologata e competitiva... cerca risposte al suo dolore di esistere
e in chiusa del film Jack (in una lunga sequenza surreale/onirica) ritrova
l’amore della madre, dei fratelli e si riconcilia con il padre.
Il film è piuttosto
lungo... due anni di ripensamenti e tagli del regista hanno permesso di
giungere dai 480 minuti iniziali (dicono le veline—stampa) fino ai 138
attuali... tuttavia il flusso delle immagini è così accattivante, atonale,
avvolgente... che sembra di vedere una sinfonia visiva nella quale lo
spettatore partecipa fortemente agli avvenimenti che debordano dallo schermo...
The
Tree of Life
è un film antitelevisivo per eccellenza, le inquadrature, gli stacchi, la
narrazione aperta non sono per nulla dedicati a futuri smerciamenti televisivi
e quando approderà nei “tinelli” di tutto il mondo, avrà poco o nulla a che
fare con l’incantamento che fuoriesce dal grande schermo... i riferimenti a 2001.Odissea
nello spazio
di Stanley Kubrick o la tenerezza simbolica del finale felliniano di La dolce vita sono evidenti, per
noi, tuttavia il film di Malick contiene filamenti personali, intimi, vicini ai
lavori un po’ marginali del regista inglese Terence Davies che, in modo
particolare, in The
Terence Davies Trilogy (1984),
scava nello stesso giardino esistenziale di Malick con strumenti espressivi (e
mezzi produttivi) meno eclatanti ma ugualmente
afferrati all’autobiografia.
Malick firma il soggetto,
la sceneggiatura e la regia, molte inquadrature sono di una forza costruttiva
imponente e rendono il film indimenticabile... la fotografia di Emmanuel
Lubezki Morgenstern (che aveva già lavorato con Malick per The New World — Il nuovo mondo, è di
straordinaria fattura cromatica... il montaggio di Hank Corwin, Daniel Rezende,
Billy Weber, Mark Yoshikawa e Jay Rabinowitz esegue una sorta di ventaglio
visuale a sostegno di una potenza descrittiva che accompagna la scenografia di
Jack Fisk fin dove l’immaginazione del regista s’invola... la genialità
autoriale di Malick (sorretta da pochi efficienti dialoghi) ha la capacità di
attanagliare alla lettura gli spettatori più diversi... la lezione scritturale
dei migliori film di Clint Eastwood (per quanto discutibili sul piano etico)
non sembra estranea all’opera di Malick, che tuttavia riesce a riattualizzare
le spinte di rottura dell’assoggettamento (in virtù del principio secondo cui
il frammento esprime il tutto, la parte che significa l’insieme) e intrecciare
intelligenza estetica e linguaggio filmico.
La nascita, l’infanzia,
l’adolescenza, la memoria, il futuro, il divenire (l’aldilà...) che Malick
tratta con maestria ereticale e da grande navigatore della surrealtà maledetta,
anche... sono depositati sul piano comunicazionale dell’incertezza e decifrano
la limitatezza della vita di fronte al mistero della nascita della terra (la
voce fuori campo del resto raccoglie la filosofia metafisica del texano e
accompagna lo spettatore fin dentro la bellezza possibile del vivere
insieme)... l’albero
della vita
cresce comunque e l’uomo è solo una piccola parte di qualcosa di universale che
lo assorbe e sovente lo annienta o mortifica... la sola via verso la felicità
possibile è rimandata agli individui che si chiamano fuori dalle educazioni,
dalle fedi, delle ideologie imposte e fanno della propria diversità una forma
di viaggio alla conoscenza di sé. La carica sovversiva dell’ironia non fa
difetto a Malick... decongestiona luoghi e persone in cui si manifesta e sembra
dire che non ci sono rinascimenti senza rivoluzioni personali... l’atto
creativo è anche la qualità dell’espressione liberata da tutti i ciarpami del
conformismo ed esprime le lacrime, il riso, l’invettiva o la bellezza di
qualcosa che libera i sogni della verità impossibile e attanaglia gli uomini a
una storia già scritta come teatro della crudeltà. The Tree of Life sostiene che tutto
crea senso e nulla è innocente. Solo la libertà di sé fuoriesce da un’etica del
dispendio e convoca il peggio (ma anche i suoi opposti) nel corpo trasfigurato
della sopravvivenza dell’uomo e del mondo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 7 volte luglio 2011