Quando si vuole gestire il capitalismo meglio della
propria borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo
di Michele Nobile
(in base a
discussioni e riflessioni svoltesi nella redazione di Utopia rossa)
1. Due diverse
prospettive politiche nella lotta contro l’«austerità».
Per necessità di sopravvivenza e senso di giustizia i lavoratori
avvertono di non essere responsabili della crisi economica e di non doverne
pagare i costi. È per questo motivo, dettato da un sano istinto di classe, che
essi lottano contro le inique misure d’«austerità» del governo e rifiutano di
pagare i costi del debito dello Stato, ora in gran parte conseguente dal
salvataggio delle banche private.
Battersi contro
l’«austerità» è però cosa molto diversa dal rivendicare che lo Stato
capitalistico azzeri o «cancelli» i propri debiti con terzi, quali banche private, governi esteri, agenzie
internazionali.
Quando lottano contro l’«austerità», i lavoratori affermano la propria
autonomia come classe a fronte dello Stato capitalistico e dei padroni,
nazionali ed esteri. Così facendo, infatti, essi si oppongono a un ulteriore tributo effettuato dallo Stato
e destinato a finire nelle borse dei capitalisti e al circuito finanziario
internazionale.
Se invece si rivendica che lo Stato «cancelli» i propri debiti, allora
non si fa altro che attuare una versione «in grande» della logica per cui i
lavoratori avrebbero interesse a difendere la «loro» impresa contro la
concorrenza di altre imprese capitalistiche e dai creditori della stessa. Quel che un onesto sindacalista e l’istinto
di classe trovano inaccettabile sul piano microeconomico aziendale, sembra
invece essere diventato improvvisamente accettabile sul piano macroeconomico del
debito statale: si crede di difendere gli
interessi dei lavoratori, ma in realtà si «difende» lo Stato capitalistico dai
suoi creditori. Il fatto è che la crisi economica è la crisi dei
capitalisti privati e dello Stato
capitalistico, entità socio-politiche del tutto separate dal mondo del lavoro
fisico e mentale. Ragion per cui come i salariati non hanno alcun interesse a
sacrificare la propria autonomia sindacale e politica per mettere il naso nella
competizione intrapadronale, allo stesso modo essi non hanno alcun interesse a
intrufolarsi nelle beghe tra governi, banche internazionali, istituzioni
europee, Fondo monetario ecc. Rivendicare la «cancellazione» del debito, però,
è proprio questo, con l’aggiunta di un pericoloso sentimento sciovinistico e nazionalistico.
L’autonomia di classe a fronte del «proprio» Stato e della propria
borghesia è condizione per la solidarietà internazionale tra lavoratori.
Inversamente, dalla difesa del «proprio» Stato capitalistico dai creditori
esteri consegue che i creditori esteri dovranno «rifarsi» con i «loro»
lavoratori, ovviamente con l’aiuto dei loro rispettivi Stati capitalistici:
alla faccia dell’internazionalismo proletario di antica memoria…
Non dubito delle buone intenzioni di chi propone di cancellare il debito;
ma, obiettivamente, abbiamo sul campo due opposte logiche
politiche: una punta a determinare e rafforzare l’autonomia di classe contro lo
Stato capitalistico, l’altra tende a identificare l’interesse di classe con
quello dello Stato; l’una è orientata in senso internazionalistico, l’altra è
implicitamente nazionalistica, e lo è per giunta all’interno di uno Stato
imperialistico (italiano, nella fattispecie).
2. Gli appelli
per «cancellare il debito» e «uscire dall’euro», tra nazionalismo e confusionismo.
Nel caso dell’appello per l’assemblea di Chianciano, i cui obiettivi
sono «fuori dal debito! fuori dall’euro!», il nazionalismo è tanto chiaro quanto confuse sono le
prospettive politiche.
Vi si legge infatti che cancellare il debito è necessario per «la rinascita dell’Italia, per rilanciare l’economia produttiva, pubblica e
privata»: dove, ovviamente, la «rinascita»
di cui si parla non può che essere quella dell’economia capitalistica italiana
(l’unica al momento esistente in Italia). Che se ne sia consapevoli o meno, ci
si atteggia in tal modo a consiglieri della borghesia, le cui capacità di
comprendonio si devono presumere, nonostante la sua plurisecolare esperienza e
la conquista del mondo, gravemente limitate (chiaro erroe di prospettiva, che
porta a sottovalutare la capacità di analisi e di azione dell’avversario). Ma,
forse per placare un rimorso di coscienza, s’aggiunge: «per
gettare le fondamenta di un nuovo ordine sociale».
In
questo appello si chiede anche di
«tornare alla lira», come se la lira fosse un qualche feticcio meno capitalistico dell’euro. O forse si pensa che in una società integralmente monetaria come quella capitalistica
«l’economia produttiva» possa essere separata
dal finanziamento dell’investimento e dallo sviluppo del circuito finanziario
mondiale?
In una società capitalistica la moneta è sempre un rapporto sociale,
la forma dello sfruttamento del lavoro salariato, non un «oggetto» neutro.
Scambiando l’euro con la lira si avanza verso il socialismo quanto giocando
alle tre carte in una pubblica piazza.
L’appello per Chianciano ha un merito, anche se assai discutibile: è
più esplicito e più coerente di quello dell’assemblea romana del Primo ottobre,
indetta da Cremaschi e da fette della ex estrema sinistra (da tempo inserite
nella logica del sistema parlamentare capitalistico) sotto lo slogan generico «Dobbiamo fermarli». Leggendo attentamente, si
vede che il nocciolo di questo secondo appello è «non pagare il debito», ma esso si trova annegato in
una lista di obiettivi, molti dei quali - in astratto e presi singolarmente -
sono giusti e condivisibili. Forse si pensa che pretendere di non far pagare il
debito allo Stato e a determinati settori di borghesia italiana possa conferire
unità all’insieme degli obiettivi e costituirne un’efficace sintesi politica?
Questa pia illusione è invece una vera disgrazia in campo ideologico. Per
fortuna, grazie alla sua irrealizzabilità, essa non può avere però conseguenze
pratiche (allo stato attuale delle cose e dati gli attuali rapporti di forze).
Occorre decidere tra lottare contro l’offensiva
padronale e governativa lasciando alla Casta politica italiana il compito di
regolare i suoi (propri) conti con l’oligarchia internazionale; oppure finire col
fungere da involontari e indesiderati «sindacalisti» dello Stato italiano
presso i suoi creditori. Mi auguro che tale contraddizione venga risolta
positivamente, perché l’obiettivo della «cancellazione» del debito distoglie da
altri compiti di lotta sociale, più necessari e fecondi, introducendo anche una
distorsione politica. Anticapitalismo e
antistatalismo devono marciare insieme.
Il manifesto per l’assemblea romana tace sull’uscita
dall’eurozona. Ma se si rivendica la cancellazione del debito dello Stato non
se ne possono ignorare le conseguenze, e questa è la maggiore, perché (sempre
in astratto) se non si pagano i debiti si viene espulsi certamente dall’area
dell’euro e dalla Ue (ma probabilmente non dalla Nato, dove si potrebbe
continuare ad avere un ruolo “costruttivo”).
È mia convinzione che rivendicare
l’uscita dall’eurosistema (in pratica il ritorno alla lira, che piaccia o no) e
la cancellazione del debito sia errato e controproducente: il velleitario
surrogato di una controffensiva popolare che non c’è e che se prendesse corpo andrebbe
indirizzata verso altre mete, più realistiche, concrete, meno ambigue e
contrapposte agli interessi “nazionalistici” dello Stato e della borghesia
italiana.
Chi rivendica la fuoriuscita dall’euro e la «cancellazione» si pone di
fatto come consigliere della classe dominante circa il modo migliore,
ovviamente più «sociale» o di «compromesso», per uscire dalla sua crisi. Ma
questa classe sa benissimo e da moltissimo tempo come fare i propri affari e
risolvere le proprie crisi. È certamente un modo doloroso e contraddittorio,
perché la borghesia è rigorosamente e duramente classista: non per nulla è la
classe dominante, la classe egemone.
3. Ma chi e
come dovrebbe «cancellare» il debito e rompere con l’euro?
Rivendicare la «cancellazione» del debito implica quasi certamente
l’espulsione o l’uscita dall’eurosistema. Di questa possibilità e delle sue
conseguenze occorre essere ben consapevoli, se si vuole mantenere i piedi ben
piantati sulla Terra.
Osservo innanzitutto che nessun
governo può semplicemente tirare un frego rosso sul debito e allegramente
«cancellarlo» in toto (questo è il motivo per cui impiego le virgolette).
Anche un governo socialista dovrebbe specificare i termini della
«cancellazione»: ciò sia per giustizia nei confronti dei lavoratori-risparmiatori,
nazionali ed esteri, sia perché, a meno che non ci si metta nella prospettiva
dell’autarchia alla Enver Hoxha e del «socialismo in un solo paese», occorre pure
contrattare con governi e capitale estero. Ovviamente, il governo di un’economia
socializzata, tanto più se avanzata, contratterebbe da una posizione
enormemente più forte di quello di un’economia capitalistica, e ben diversi
sarebbero gli scopi.
Uscire dall’eurosistema o «cancellare» il debito sono misure che, a
loro volta, concorrono a creare nuove condizioni nelle quali condurre un
qualche tipo di politica economica.
La mia vaghezza è qui deliberata, perché per uno Stato ci sono diversi
modi di dichiararsi insolvente (di fare default)
e di uscire dall’euro, alcuni dei quali decisamente sgradevoli per i
lavoratori, per essere eufemistici, e invece relativamente convenienti, almeno
come male minore, per la classe dominante, settori della quale potrebbero
vedersi sgravati da una sorta di ipoteca. Proprio per questo motivo, e se non
si vuole finire dalla padella nella brace, chi punta sulla «cancellazione» del
debito e/o sull’uscita dall’eurozona deve porsi come immediata la questione del
potere o, più prosaicamente, del governo che sia alternativo a un fantomatico «governo unico delle banche»
(appello per Roma) o che sia espressione di un ipotetico «blocco
popolare» (appello per
Chianciano).
Sorge allora
una domanda: nell’Italia del 2012 o del 2013, da quali partiti o entità
politiche sarebbe costituito questo governo?
Di certo non si pensa al centrodestra. Restando seri, allora non resta
che il centrosinistra, che Paolo Ferrero ha già cominciato a chiamare «il nuovo
Ulivo» (Cpn di Rifondazione del 24 settembre 2011).
In tal caso saremmo di fronte a un allarmante caso di patologica
smemoratezza.
Ricordo che dal gennaio 1995 al maggio 2001 il centrosinistra riuscì a
realizzare il più grande successo del capitalismo italiano almeno da trent’anni
a quella parte: la «convergenza» con i parametri di Maastricht e l’entrata
dell’Italia nella zona dell’euro. In quei 2211 giorni, a fronte dei 226 del
primo governo Berlusconi, il centrosinistra fece il grosso del lavoro sporco
necessario al capitale nazionale e internazionale. In quel periodo la
disoccupazione rimase per anni al livello medio del 10% (non inferiore a quello
attuale, ma allora non mi pare che si parlasse di depressione o di crollo del
sistema), la precarietà divenne norma, l’attacco ai diritti socioeconomici fu
contrabbandato come necessaria «modernizzazione» per rilanciare la
competitività dell’impresa-Italia, il rigore fiscale a danno dei servizi
pubblici fu esaltato come virtù civile. Tutto questo e altro venne fatto in
nome dell’entrata dell’Italia nel sistema monetario europeo. I bombardamenti e
la guerra furono dichiarati «umanitari» e ammantati di retorica europeistica.
In quegli stessi anni il Prc, il Pdci e i Verdi, sostennero il centrosinistra,
fino all’ultimo e con ministri Pdci e Verdi, per tutta la fase cruciale anche
il Prc. Si ricorderà che nel 2008 i postcomunisti e i Verdi furono di nuovo
nella maggioranza e nel governo insieme a Prodi, il grande protagonista delle
privatizzazioni, della «convergenza» e della convinta adesione ai vincoli
esterni posti da Maastricht e dalla permanenza nell’eurosistema.
Si vuole forse scherzare sulla possibilità che questi partiti possano
gestire una soluzione «popolare» della crisi? O non si è imparato nulla dalla
pagliacciata della «sinistra radicale» circa il «ponte» tra «palazzo» e piazza,
giustamente punita dall’elettorato quando mandò a casa i 110 Forchettoni rossi
che si erano appena insediati in Parlamento?
Il fatto è che il centrosinistra è una frazione politica
dell’imperialismo italiano; e per il capitalismo internazionale è anche la
frazione politica più affidabile, innanzitutto per le maggiori capacità di
prevenire e attutire il conflitto sociale.
Ma se invece si vuole essere antagonisti a entrambe le frazioni
politiche già esistenti dell’imperialismo italiano, sia di centrosinistra sia
di centrodestra (e alla terza opzione che si va delineando al «centro» con
Casini, Fini, Rutelli), allora chi si vuole che governi la «cancellazione» e la
«fuoriuscita» e gestisca una nuova politica economica e sociale? Chi ha la
presunzione di candidarsi al governo, non in un futuro indeterminato, ma
nell’orizzonte temporale della crisi in corso, allo scopo di tornare alla lira
e cancellare il debito?
Sembra incredibile che mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori
e delle lavoratrici italiane subisce i costi e i contraccolpi dellla crisi
pressoché inerme (cioè non riuscendo a difendere nulla delle proprie conquiste
passate, in salari, sanità, previdenza e occupazione), ci sia qualcuno così
ingenuo da rivendicare una linea economica alternativa (ma al di là del ritorno
alla lira, non si sa bene quale) e addirittura un qualche genere di governo
«alternativo» (anche se poi sappiamo che tanto alternativo non è, visto che
alla fine sempre al centrosinistra guardano le stesse correnti politiche che
ora propongono il ritorno alla lira o la cancellazione del debito, e che domani
accetteranno sicuramente il blocco elettorale col centrosinistra alla luce
della tradizionale italianissima politica del «male minore», del «meno peggio).
Se si usasse un minimo di fraseologia vetero-anticapitalistica, questo
velleitarismo verrebbe a identificarsi con la rivendicazione della...
rivoluzione.
Sarà simpatico, sarà gratificante, esprimerà un’identità
antagonistica, ma si tratta di mero propagandismo che non sposta di un
millimetro i rapporti di forza reali, una diversione di tempo, intelligenza ed
energie. E il catastrofismo nell’analisi economica – che sottende tutta questa
frenetica mobilitazione per il ritorno alla lira e il non-pagamento del debito
- non accorcia di un metro la lunga strada verso la rivoluzione, anzi la
ostacola teoricamente. Per costruire un grande movimento sociale
anticapitalista occorrono tempi più lunghi di quelli della crisi del debito
sovrano, passi più piccoli ma politicamente difficili e discriminanti. E
ovviamente, una conoscenza precisa del rapporto tra Stato capitalistico e
interessi economici dell’imperialismo italiano (a loro volta parte integrante
dell’imperialismo internazionale, come si è confermato anche nella riunione del
G20 a Washington).
Oppure, mentre il governo Berlusconi traballa e si affaccia
l’eventualità di elezioni, questa della «cancellazione» del debito è una sorta
di lancio pubblicitario per una nuova operazione elettorale? Ecco, che tutto
ciò prefiguri una manovra per le prossime elezioni politiche, suona più
realistico e concreto.
4. Scenari
realistici circa l’insolvenza, il ritorno alla lira, il crollo dell’eurozona.
Uscire dal
sistema monetario europeo e «cancellare» il debito non solo non costituiscono una soluzione
socialista della crisi economica, ma possono
perfino portare al peggioramento della situazione e ad ancor più gravi misure
di «austerità» per i comuni cittadini. Per quanto non sia la soluzione preferita, per governanti, banche e
istituzioni internazionali il default
(o insolvenza) e la ristrutturazione del debito estero sono sicuramente
un’opzione accettabile come male minore.
Esaminiamo ora in quali circostanze potrebbero verificarsi e con quali
conseguenze per i lavoratori.
L’ulteriore aggravarsi della crisi potrebbe precipitare l’insolvenza e l’uscita dall’eurosistema di
un singolo paese, poniamo la Grecia. Che il governo sia di centrosinistra
oppure di centrodestra, la differenza sarebbe minima. Sicuri, invece, i
risultati. Quel che accadrebbe non è la «cancellazione», ma la ristrutturazione
dei termini del pagamento del debito con l’estero (di cui una parte sarebbe
cancellata), con i creditori in posizione forte, tale da garantire i propri
interessi in senso finanziario e politico. Quanto ai comuni cittadini,
sarebbero comunque essi a pagare per la ristrutturazione del debito: verrebbero
imposte misure di «austerità» draconiane, ancora più gravi di quelle ora in
essere. Stiamo già provando un assaggio. Quel poco che i capitalisti potrebbero
guadagnare (loro, non i lavoratori)
grazie alle esportazioni favorite dalla svalutazione sarebbe perso
dall’impennata dei costi delle importazioni. Il servizio del debito
risulterebbe ancor più gravoso, il finanziamento dell’investimento si
arresterebbe, la disoccupazione crescerebbe ulteriormente. I salari reali
crollerebbero sia a causa della disoccupazione che dell’inflazione. Il quadro,
in sintesi, sarebbe quello di una depressione grave, prolungata, senza evidenti
vie d’uscita se non dopo anni di «lacrime, sudore e - speriamo di no - sangue».
A questo proposito disponiamo già della lunga e triste esperienza della «crisi
del debito estero» dei cosiddetti «paesi in via di sviluppo», o di un paese
«socialista» come la Polonia, negli anni Ottanta del secolo scorso.
Uscire dall’eurosistema e tornare alla lira non significa affatto
sottrarsi a condizionalità antipopolari gravosissime.
E se invece si verificasse il
crollo dell’unione monetaria europea, ciascun paese tornando alla vecchia
moneta?
Per questo caso occorre innanzitutto che chi propone l’uscita
dall’euro chiarisca a se stesso e al prossimo il rapporto tra la prognosi e la
terapia. Il punto è questo: se si prevede come inevitabile il crollo
dell’eurosistema, tanto più in tempi relativamente brevi, allora premere per
l’uscita anticipata e unilaterale è peggio che inutile, è decisamente dannoso
per i lavoratori. Non è che il paese all’avanguardia nell’inesorabile processo
conducente all’inevitabile crollo, che presumibilmente sarebbe un paese
mediterraneo già inguaiato e poco competitivo, godrebbe di un qualche
vantaggio. Al contrario, lo sventurato in oggetto sarebbe semplicemente il
primo a essere investito dalla tempesta. Allora, è di gran lunga preferibile
lasciare l’intera responsabilità ai governanti, se non si vuol finire, oltre che
«mazziati» anche «cornificati». La casta politica europea, e in specie quella
italiana, sarebbe infatti più che felice di alleggerire il proprio fallimento
prendendosela con gli «irresponsabili» che, tra tante nefandezze, hanno pure
fatto pressione per uscire dall’euro.
In ogni caso, il crollo della moneta comune non sarebbe affatto in se stesso un passo avanti verso una
soluzione «popolare» della crisi. Tutti i capitalismi europei ne sarebbero
danneggiati, ma alcuni meno di altri. Si verificherebbe un ciclo di
svalutazioni competitive in un contesto di marasma finanziario, con accresciute
pressioni sul contenimento del costo del lavoro e della domanda interna. Il
divario tra la Germania e i paesi meno competitivi e più indebitati (come
espresso, ad esempio, dai differenziali o spreads
sul rendimento dei titoli di stato) aumenterebbe: la posizione dominante del
capitalismo tedesco sarebbe ancora più forte. Viceversa, più gravi
diventerebbero i problemi di finanziamento, dell’investimento, della
produttività, dell’ambiente dei capitalismi più deboli.
5. Un’ipotesi
fantapolitica.
Facciamo ora un’ipotesi diversa, al momento decisamente fantapolitica.
Immaginiamo pure che sui palazzi del
potere di un qualche paese giunga a sventolare la bandiera rossa o, se si
preferisce, una bella bandiera arcobaleno. Se l’ipotesi pare eccessiva,
allora si può più modestamente immaginare un grande e potente movimento
popolare, tale da fermare l’offensiva capitalistica e conseguire importanti
vittorie parziali; e magari (?) che sussista un «governo amico» (nei cui
confronti, dati i precedenti, dovrebbe però valere la massima «dagli amici mi
guardi Iddio, che ai nemici ci penso io»). Ebbene, potrebbe un governo
rosso-arcobaleno rimanere nell’eurosistema così come è ora? La risposta è no,
non potrebbe rimanerci (per i fini di questo articolo non è necessario
discutere la politica della Banca centrale europea e le contraddizioni
congenite dell’Unione monetaria europea, ragion per cui sorvolo rimandando alla
bibliografia).
Ma tempi e modi della rottura non sono irrilevanti. In effetti la
casta politica europea cercherebbe di espellere dall’eurozona alla massima
velocità possibile il paese con tale governo, ciò al fine preciso di recargli
il danno più grande. Per l’opposto motivo, il
suddetto governo dovrebbe cercare di ritardare l’espulsione e di farsi cacciare
in modo tale da chiarire in modo inequivocabile ai popoli d’Europa la natura
integralmente capitalistica della Bce, espressione di Stati imperialistici, e
la sua conseguente politica aggressiva nei confronti dei lavoratori.
Dovrebbe compiere un’operazione propagandistica su scala continentale. Il
ragionamento, ripeto, è fantapolitico, ma credo s’intenda la differenza tra
farsi espellere e fare il favore di andarsene subito e tranquillamente di
propria volontà.
Completo il punto notando che, nel caso dell’attuale costruzione
europea, la critica teorica e pratica alla borghesia deve vertere sul fatto che
essa è incapace di unificare realmente l’Europa, di costruire una comunità di
popoli che non sia solo un’unione monetaria che riproduce gerarchie di potere
nazionale e genera al suo interno ulteriori squilibri socioeconomici. Una borghesia (un insieme di borghesie) che è
perfino incapace di costruire un suo Stato europeo dotato di un bilancio e di
poteri che gli permettano di affrontare crisi come quella in corso.
L’europeismo borghese non è solo capitalistico, è anche fermo alla dimensione
della sommatoria di Stati nazionali. E
tutti coloro che contrappongono al falso internazionalismo del capitale il
ritorno al nazionalismo statuale (della propria borghesia), stanno proponendo
soluzioni retrograde, più reazionarie di quelle giù in atto, anche se, per
fortuna, sono ormai irrealizzabili concretamente.
Bisogna però riconoscere che non è una bella cosa vedere personalità
di provenienza marxista o comunque «di sinistra» che propongono passi indietro
di tipo autarchico e nazionalistico, facendosi così scavalcare sul piano
ideologico dalla stessa borghesia che si dice di voler combattere. Sul
carattere fallimentare di queste posizioni retrograde e antistoriche ci sono
stati dei precedenti con lo stalinismo e ognuno ha potuto vedere come è andata
a finire. Tornare a proporre soluzioni nazionalistiche nel 2011 mi sembra una prova di
testardaggine molto poco politica e comunque da respingere con decisione.
La politica rivoluzionaria non può prendere posizione per una delle
parti negli affari e nei regolamenti di conti tra padroni e tra Stati
capitalistici, se non a prezzo di rinunciare al principio basilare
dell’autonomia a fronte del nemico di classe: per questo non può rivendicare il
non-pagamento del debito contratto proprio da quel «nemico». Ma non può neanche
prescindere dall’utilizzare ogni occasione - dapprima in forma di propaganda e
appena possibile come obiettivo immediato per cui lottare - per sostenere una
prospettiva storica superiore a
quella borghese. È per questo che l’idea del ritorno alla lira appare
nettamente in contrasto anche con la prospettiva (al momento solo utopica o
propagandistica) della costruzione di una comunità socialista continentale che
abbia in comune la moneta e molto altro, superando lo statalismo nazionale.
6. Conclusione
retrospettiva.
Al termine del mio libro del 2006, Imperialismo.
Il volto reale della globalizzazione, e nella serie di articoli sulla crisi
(pubblicati nel blog di Utopia rossa: www.utopiarossa.blogspot.com)
ho sostenuto con forza che gli orientamenti di politica economica detti molto
impropriamente «neoliberisti» sono radicati nella struttura contemporanea
dell’economia mondiale. Da questo consegue, scrivevo, che i governanti e le
borghesie non avrebbero né potuto né voluto modificare tali orientamenti anche
in caso di grave crisi.
Inoltre, a differenza della maggior parte dei commentatori,
giornalisti ed economisti di sinistra, non ho affatto visto, nell’esplodere
della crisi nell’autunno 2008, né l’approssimarsi della catastrofe imminente né
la fine delle politiche «neoliberali» e l’occasione per un nuovo new deal, quando molti ingenui cantavano
liricamente l’avvento del messia Obama.
Al contrario, sostenevo che gli
Stati imperialistici sarebbero intervenuti pesantemente per «salvare» il
sistema dalla caduta nella depressione, ma che questo avrebbe anche implicato
l’utilizzo della crisi per sferrare un ancor più feroce attacco ai diritti
socioeconomici dei lavoratori. Che è esattamente quanto accaduto e sta
accadendo.
Scrivevo anche che, tanto più a lungo sarebbero durate le illusioni in
una qualche positiva «evoluzione» dei partiti di «sinistra» e di
centrosinistra, il voto nella logica del «male minore», il «sostegno critico» o
la partecipazione al governo delle formazioni «comuniste» ed ecologiste, tanto
più difficile sarebbe stata un’efficace mobilitazione difensiva dei lavoratori
e della cittadinanza e, a maggior ragione, la costruzione di una grande
movimento sociale anticapitalistico.
Ora non paghiamo solo e principalmente il berlusconismo: dovrebbe
ormai essere palese anche ai ciechi l’inesistenza di uno specifico «regime» statuale
di Berlusconi. Mentre è in corso la più grave crisi economica del dopoguerra
paghiamo in tutti i sensi troppi anni di illusioni e opportunismo,
elettoralismo e degenerazione etico-politica. Non è una situazione dalla quale
si esca con le impennate velleitarie e il confusionismo venato di sciovinismo;
tantomeno lanciando appelli e campagne fondate sulla pia illusione che, urlando
in piazza buoni consigli alla borghesia e alla Casta politica – in tanti,
magari tantissimi - si possa ricavare il benché minimo vantaggio per il mondo
del lavoro fisico e mentale. Come ho cercato di dimostrare, si rischia
addirittura di fare peggio. Le più celebri campagne degli scorsi decenni (per es. quella sul fanfascismo» o quella sul
Referendum «a perdere» sull’art. 18) stanno lì a dimostrarlo. Lo dimostrerà
anche questa, se non la si ferma in tempo
Appendice.
Notarella storica.
Poiché i riferimenti alla depressione degli anni Trenta sono cosa
comune, mi si scuserà una breve nota storica.
Nel 1933, nel pieno della Grande depressione o Great crash, gli Stati Uniti abbandonarono il gold exchange standard (il sistema monetario internazionale tra le
due guerre, basato sull’oro e sulle valute più importanti). Non erano i primi e
non furono gli ultimi. L’abbandono del vincolo aureo e la svalutazione erano
misure diffuse e connesse: l’intenzione iniziale era quella di bloccare la
spirale depressiva con misure eccezionali che violassero solo temporaneamente l’ortodossia finanziaria
vigente. Rompere le catene dell’oro si rivelò come un passo necessario perché
potesse svilupparsi la nuova frontiera della politica economica, allora
eterodossa, della creazione di
domanda da parte dello Stato. Ciò avvenne col massiccio piano di riarmo della
Germania nazista, i lavori pubblici del new
deal roosveltiano e, infine, l’esplodere della Guerra mondiale.
In tempi, combinazioni ed efficacia differenti a seconda degli Stati,
si affermò la nuova ortodossia della gestione macroeconomica cosiddetta
«keynesiana», crebbero il peso dei posti di lavoro statali nell’occupazione
totale e del bilancio pubblico sul prodotto interno, si svilupparono strumenti
e istituti che tendevano a contrastare automaticamente le crisi.
Il capitalismo rischiò di cadere nel baratro, ma sopravvisse alla
depressione e avviò un processo di profonda trasformazione strutturale dei
rapporti tra Stato ed economia, i cui profondi effetti sono tuttora operanti.
Il 1929 può ripetersi, ma ora è meno probabile.
Ma i lavoratori statunitensi lottavano forse per la fuoriuscita dal sistema
monetario internazionale e l’abbandono dell’odiata catena aurea? La risposta è
un secco no. Quello era «affare» dei padroni. Nel popolo dei poveri, chi poteva
si organizzava per sopravvivere in reti di
reciproco aiuto materiale. Gli operai scioperavano e a volte occupavano
le fabbriche; si scontravano con la polizia, le guardie private e la milizia;
si opponevano ai licenziamenti, rivendicavano aumenti salariali e chiedevano
nuovi posti di lavoro, che durante il new
deal vennero effettivamente creati direttamente dallo Stat. Mentre le
amministrazioni roosveltiane cercavano a tentoni di stabilizzare l’economia
capitalistica, i lavoratori nordamericani utilizzavano le normative come meglio
potevano, forzandone l’applicazione, ma non si ponevano loro il compito di salvare il sistema o di riformare il sistema
monetario internazionale. Quello era il compito di Franklin Delano Roosevelt e
del suo staff. Salariati e disoccupati lottavano, invece, contro gli effetti
sociali del sistema capitalistico, per i loro bisogni immediati, cercavano di
darsi un’organizzazione autonoma di classe: e se alcune normative del new deal favorirono l’organizzazione
sindacale in un quadro procedurale «neocorporativo», gli scioperi e le
occupazioni di fabbriche maggiori avvennero senza o contro la volontà dei
sindacati. Quanto più si radicalizzavano tanto meno i lavoratori si ponevano la
questione di inventare loro una
politica economica: con una coscienza di classe sviluppata comprendevano che
per attuare una politica economica occorre avere in mano le leve del governo,
del potere.
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Piccola bibliografia personale cui rinviare il lettore che
voglia approfondire i temi qui accennati.
Nobile, Michele, Merce-natura
ed ecosocialismo. Per la critica del «capitalismo reale», Erre emme/Massari
editore, Roma 1993.
Id., Imperialismo. Il volto reale della
globalizzazione, (collana Utopia rossa), Massari editore, Bolsena 2006.
Id., «Previsioni sui tassi di disoccupazione nei prossimi anni.
Nota 2 sulla crisi. 10 aprile 2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 10, giugno 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel
blog di Utopia Rossa
Id., «Una pia illusione: la crisi economica come catarsi
politica. Nota 3 sulla crisi. Giugno 2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 11, settembre 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel blog di Utopia Rossa
Id., «La disoccupazione, durante e oltre la crisi. Previsioni per
i prossimi anni. Nota 4 sulla crisi. 26 giugno 2009», in rete nel blog di
Utopia Rossa,
Id., «La crisi
dell’Irlanda, un esempio delle contraddizioni dell’Unione Europea. Nota 5 sulla
crisi», aprile 2011, in
rete nel blog di Utopia Rossa,