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domenica 29 giugno 2025

Č-109 NEI LAGER DI VORKUTA

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH - FRANÇAIS


A un certo punto Č-109 diventerà M-855. Ma non si pensi a un personaggio inventato da Ayn Rand per il suo celebre romanzo fantapolitico, Anthem, in cui Collettivo 0-0009 dialogava con Unanimità 7-3306 o Alleanza 6-7349 con Fraternità 1-5537. Anche se, volendo, si potrebbe cogliere una qualche affinità nel contesto «sociale», fondato sull’obbligo compulsivo al lavoro di tipo schiavistico e sulla totale spersonalizzazione dell’individuo.

Ma le differenze sono troppe e troppo profonde, a cominciare dal fatto non secondario che Č-109 (poi M-85) - come veniva chiamata normalmente nel lager - è stata una persona reale, che l’esperienza schiavistica l’ha vissuta veramente e che ha sperimentato sul proprio corpo e animo il degrado abissale al quale il sistema staliniano costrinse milioni di detenuti, e che non trova equivalenti nemmeno nella più acre e visionaria letteratura distopica.

Precipitata nell’inferno di Vorkuta - uno dei due più terribili àmbiti concentrazionari sovietici (l’altro fu Kolyma) - e riuscendo ciononostante a sopravvivere, Č-109 ha potuto raccontare in dettaglio la vicenda disumana da lei vissuta. Morta centenaria nel 2023, ci ha infatti trasmesso le sue memorie, raccolte grazie alla figlia Barbara, nel libro La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta. (Tradotto e commentato da Luca Bernardini, per Guerini e Associati [Milano 2024], 176 pagine, oltre a una preziosa appendice iconografica.)

Scorrendo i vari capitoli (identificabili dai titoli), percorriamo un itinerario che, benché già descritto da altri fuorusciti dall’inferno dei lager - per fare un nome italiano basti solo pensare alla vicenda e ai libri di Dante Corneli - ogni volta ci porta, però, a scoprire nuovi dettagli, nuovi orrori (magari fin lì per noi inimmaginabili), insieme alle stupende incredibili risorse umane di cui un individuo può arrivare a disporre nel tentativo disperato di tornare a vedere la luce.

E se si ha un minimo di familiarità con i racconti di sopravvissuti dai lager staliniani, anche in questo caso si noterà come una delle note dominanti, la persistenza del ricordo, del pensiero commosso e retrospettivo verso i compagni di detenzione che invece non sono riusciti a farcela. Certo, si trattava di ben poca parte rispetto ai milioni di esseri umani morti nel Gulag, ma erano presenze fondamentali nel gruppo di solidarietà al quale bisognava necessariamente appartenere, se si voleva mantenere una base pur minima di autoconsapevolezza personale e di appiglio alla realtà. Ma anche per affrontare in maniera «organizzata» il tormento quotidiano della fame, della fatica, del gelo, dei sorveglianti, dei criminali comuni padroni delle vite e dei «beni» più elementari dei detenuti, delle punizioni arbitarie e sadiche.

A distanza di tanti decenni dalla fine di un passato che sembra non finire mai - dato che i lager esistono ancora, per es. in Cina e Nordcorea, mentre in Russia si continua a morire come ai tempi del Gulag sovietico, se si è oppositori (si pensi solo all’uccisione di Aleksej Naval’nyj) - riviviamo un’ennesima tragica epopea. Un’epopea che nel 1945 vide entrare nel Gulag una ventiduenne, col nome falso di Anna Norska (subito sostituito da Č-109), e uscirne trentatreenne (nel 1956) col suo vero nome: Anna Szyszko, poi Szyszko-Grzywacz, dopo il matrimonio con un compagno di lager, teneramente affezionato e molto presente nelle memorie.

I tormenti descritti sono da film dell’orrore, soprattutto nella prima parte del libro e nei primi anni di detenzione (il dopoguerra degli anni ‘40), durante i quali Anna fu sottoposta alle umiliazioni più rivoltanti e rischiò più volte di morire. Tali orrori corrispondono pienamente agli altri racconti che abbiamo potuto leggere sull’esperienza nei lager. E questa, casomai ce ne fosse bisogno, è una dimostrazione ulteriore della disonestà intellettuale di chi ha negato e continua a negare la tragica veridicità dei racconti sulla vita nei campi del Gulag.

Ma il racconto di Anna può interessarci in modo particolare per tre aspetti ai quali voglio rapidamente accennare.

Il primo può sembrare tautologico, ed è il fatto che la narratrice è una donna. Non che manchino memorie scritte da donne passate attraverso la sofferenza del Gulag: Evgenija Solomonovna Ginzburg, Margarete Buber-Neumann, Elinor Lipper, Maria Ioffe, Evfrosinija Kersnovskaja e altre. Ognuna di esse ha in qualche modo trasmesso la testimonianza, se non la prova documentale, che nei lager sovietici (ma probabilmente nei lager di tutto il mondo) l’esser donna poteva trasformarsi in un’aggravante, soprattutto se giovane. Lo schiavismo sessuale era una regola spietata alla quale ci si poteva sottrarre solo scegliendo di morire o, detta più precisamente, scegliendo di non sopravvivere.

Anna dedica molte pagine a descrivere i traffici su basi di mercimonio sessuale, imposto in primo luogo dai malavitosi (i blatnjaki) - criminali incalliti e capi assoluti della vita «sociale» nei lager - e in sottordine dai guardiani. Ma non mancano sopraffazioni anche da parte degli stessi detenuti, descritti a volte in scene di autentica disperazione, quasi bestiale, indotta dalla mancanza di rapporti con donne. A tali aggravanti sessuali dello schiavismo lavorativo non ci si poteva sottrarre e le descrizioni che ne fa Anna sembrano in un certo senso renderle quasi una componente «normale» della vita nel lager e nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. 

Il secondo aspetto distintivo è che Anna era una detenuta politica. Non una classificata come «trotskista» (per sua fortuna, perché ciò l’avrebbe posta al fondo della ferocia repressiva esplicitamentre prevista dalla legge concentrazionaria), ma come partigiana, attiva nelle file della resistenza che il popolo polacco oppose alla prima e alla seconda invasione sovietica. Il suo ruolo militare era stato di fuciliera a cavallo [con mitra] e si era svolta in ambienti silvani. Purtroppo le memorie, essendo dedicate agli anni della prigionia, non approfondiscono quest’aspetto che invece sarebbe stato affascinante da sviluppare, sia per la «specialità militare» in quanto tale, sia per il contesto resistenziale (di banda) in cui si era svolta.

E il discorso sulla resistenza ci porta al terzo aspetto distintivo: Anna era polacca, assolutamente fiera di esserlo. Nell’intero racconto scorre come un filo rosso il tema della patria lontana, dell’appartenenza a una cultura nobile e antica (basti pensare alle opere o personaggi letterari che vengono citati in vari momenti) e dell’affinità umana con le detenute polacche (qui necessariamente al femminile) con le quali si trova a condividere giacigli, cibo, funzioni fisiologiche, ma anche attaccamenti affettivi e mutua comprensione.

Sentimenti affettuosi vengono espressi anche verso membri di altre nazionalità sottoposte alle dittature sovietiche: soprattutto ucraini (orientali e occidentali), bielorussi (la cui lingua Anna parlava correntemente) estoni, lituani, lettoni, anche armeni ecc. Ma nulla di paragonabile alla passione con cui essa si rivolge alle sue compagne polacche e ai sacrifici ai quali essa si sottopone pur di restare o tornare a stare con loro. 

A questo punto, però, bisogna fermarsi a considerare il retroterra politico in cui si svolge la vicenda di Anna, al quale lei accenna a tratti, ma senza dargli l’importanza che merita, e che io invece desidero sottolineare. Anna finisce nel lager per aver preso parte a un’esperienza che storicamente fu resa possibile solo in Polonia (e in minor parte col banderismo [da Stepan Bandera] ucraino). E cioè nel fatto che la resistenza armata si svolse contemporaneamente contro i nazisti e contro i sovietici. Ciò fu dovuto al famigerato patto di Stalin con Hitler (Molotov-Ribbentrop) che ad agosto 1939 sancì l’alleanza tra i due regimi totalitari, preparando l’invasione congiunta della Polonia, la sua ennesima spartizione e di fatto l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Con la duplice invasione di settembre 1939, i partigiani polacchi si erano trovati a combattere su due fronti: contro i nazisti e contro i sovietici, alleati fra loro per affinità totalitarie e mire di espansionismo territoriale. Una simile esperienza - di combattere contro nazisti e sovietici allo stesso tempo - sarebbe stata impensabile in Italia, per ovvi motivi geopolitici. Anna invece crebbe in quel mondo e, leggendo con attenzione le sue pagine, si riesce a cogliere che per lei il concetto di «resistenza» era univoco: fossero nazisti o staliniani, erano pur sempre i nemici del suo popolo e contro di essi aveva cominciato a combattere non ancora ventenne.

Una scelta condivisa con tante altre donne polacche, molte morte in combattimento: scelta politica che a lei costò il sacrificio dei migliori anni della gioventù. Ma dal libro non traspaiono recriminazioni né pentimenti.



ENGLISH


Č-109 IN THE VORKUTA CAMPS

by Roberto Massari


At a certain point Č-109 will become M-855. But don't think of it as a character invented by Ayn Rand for her famous political fantasy novel, Anthem, in which Collective 0-0009 dialogued with Unanimity 7-3306 or Alliance 6-7349 with Fraternity 1-5537. Even if, if you wanted, you could find some affinity in the "social" context, based on the compulsive obligation to slave-like work and the total depersonalization of the individual.

But the differences are too many and too profound, starting with the not insignificant fact that Č-109 (later M-85) - as she was normally called in the camp - was a real person, who actually lived the experience of slavery and who experienced in her own body and soul the abysmal degradation to which the Stalinist system forced millions of prisoners, and which has no equivalent even in the most bitter and visionary dystopian literature. Having fallen into the hell of Vorkuta - one of the two most terrible Soviet concentration camps (the other was Kolyma) - and still managing to survive, Č-109 was able to tell in detail the inhuman story she experienced. Having died at the age of one hundred in 2023, she has in fact passed on to us her memories, collected thanks to her daughter Barbara, in the book My Life in the Gulag. Memoirs from Vorkuta. (Translated and commented by Luca Bernardini, for Guerini e Associati [Milan 2024], 176 pages, plus a precious iconographic appendix.)

Going through the various chapters (identifiable by their titles), we follow an itinerary that, although already described by other escapees from the hell of the concentration camps - to name an Italian, just think of the story and books of Dante Corneli - each time leads us, however, to discover new details, new horrors (perhaps unimaginable for us until then), together with the stupendous incredible human resources that an individual can come to have in a desperate attempt to return to see the light.

And if you have even a minimum of familiarity with the stories of survivors of Stalinist concentration camps, also in this case you will notice how one of the dominant notes, the persistence of memory, of the moved and retrospective thought towards the fellow prisoners who instead did not manage to make it. Of course, they were a very small part of the millions of human beings who died in the Gulag, but they were fundamental presences in the solidarity group to which one necessarily had to belong, if one wanted to maintain even a minimal basis of personal self-awareness and a hold on reality. But also to face in an "organized" way the daily torment of hunger, fatigue, cold, supervisors, common criminals who owned the lives and the most basic "goods" of the prisoners, arbitrary and sadistic punishments.

Many decades after the end of a past that seems never to end - given that the concentration camps still exist, for example in China and North Korea, while in Russia people continue to die as in the times of the Soviet Gulag, if they are opponents (just think of the killing of Aleksej Naval'nyj) - we are reliving yet another tragic epic. An epic that in 1945 saw a twenty-two-year-old enter the Gulag, with the false name of Anna Norska (immediately replaced by Č-109), and leave at thirty-three (in 1956) with her real name: Anna Szyszko, then Szyszko-Grzywacz, after marrying a fellow camp inmate, tenderly affectionate and very present in the memoirs.

The torments described are from a horror film, especially in the first part of the book and in the first years of detention (the post-war period of the 1940s), during which Anna was subjected to the most revolting humiliations and risked death several times. These horrors fully correspond to the other stories we have been able to read about the experience in the camps. And this, if there was any need, is further proof of the intellectual dishonesty of those who have denied and continue to deny the tragic truthfulness of the stories about life in the Gulag camps.

But Anna's story may interest us in particular for three aspects that I would like to quickly mention.

The first may seem tautological, and it is the fact that the narrator is a woman. Not that there is a lack of memoirs written by women who went through the suffering of the Gulag: Evgenija Solomonovna Ginzburg, Margarete Buber-Neumann, Elinor Lipper, Maria Ioffe, Evfrosinija Kersnovskaja and others. Each of them has in some way transmitted the testimony, if not the documentary proof, that in the Soviet concentration camps (but probably in concentration camps all over the world) being a woman could become an aggravating factor, especially if young. Sexual slavery was a merciless rule that could be avoided only by choosing to die or, more precisely, by choosing not to survive.

Anna devotes many pages to describing the trafficking based on sexual commerce, imposed first and foremost by the gangsters (the blatnjaki) - hardened criminals and absolute leaders of the "social" life in the concentration camps - and secondly by the guards. But there is no lack of abuse even by the prisoners themselves, sometimes described in scenes of authentic, almost bestial desperation, induced by the lack of relationships with women. Such sexual aggravations of labor slavery could not be avoided and Anna's descriptions of them seem in a certain sense to make them almost a "normal" component of life in the concentration camp and in the daily struggle for survival.

The second distinctive aspect is that Anna was a political prisoner. Not one classified as a "Trotskyist" (luckily for her, because that would have put her at the bottom of the repressive ferocity explicitly provided for by the concentration camp law), but as a partisan, active in the ranks of the resistance that the Polish people opposed to the first and second Soviet invasions. Her military role had been that of a mounted riflewoman [with a machine gun] and had taken place in woodland environments. Unfortunately, the memoirs, being dedicated to the years of imprisonment, do not delve into this aspect which instead would have been fascinating to develop, both for the "military specialty" as such, and for the resistance context (of a gang) in which it had taken place.

And the discussion on the resistance brings us to the third distinctive aspect: Anna was Polish, absolutely proud of it. The theme of the distant homeland, of belonging to a noble and ancient culture (just think of the literary works or characters that are cited at various times) and of the human affinity with the Polish prisoners (here necessarily female) with whom she found herself sharing beds, food, physiological functions, but also emotional attachments and mutual understanding, runs like a red thread throughout the story.

Affectionate feelings are also expressed towards members of other nationalities subjected to Soviet dictatorships: especially Ukrainians (Eastern and Western), Belarusians (whose language Anna spoke fluently), Estonians, Lithuanians, Latvians, even Armenians, etc. But nothing compares to the passion with which she addresses her Polish companions and the sacrifices to which she submits in order to stay or return to be with them.

At this point, however, we must stop to consider the political background in which Anna's story takes place, which she refers to at times, but without giving it the importance it deserves, and which I instead wish to underline. Anna ends up in the concentration camp for having taken part in an experience that was historically made possible only in Poland (and to a lesser extent with the Ukrainian Banderism [from Stepan Bandera]). That is, in the fact that the armed resistance took place simultaneously against the Nazis and against the Soviets. This was due to Stalin's infamous pact with Hitler (Molotov-Ribbentrop) which in August 1939 sanctioned the alliance between the two totalitarian regimes, preparing the joint invasion of Poland, its umpteenth partition and in fact the beginning of the Second World War.

With the double invasion of September 1939, the Polish partisans found themselves fighting on two fronts: against the Nazis and against the Soviets, allied with each other due to totalitarian affinities and territorial expansionist aims. A similar experience - fighting against Nazis and Soviets at the same time - would have been unthinkable in Italy, for obvious geopolitical reasons. Anna instead grew up in that world and, reading her pages carefully, one can understand that for her the concept of "resistance" was univocal: whether Nazis or Stalinists, they were still the enemies of her people and she had begun to fight against them when she was not yet twenty years old.

A choice shared with many other Polish women, many of whom died in combat: a political choice that cost her the sacrifice of the best years of her youth. But the book does not reveal any recriminations or regrets.



FRANÇAIS


Č-109 DANS LES CAMPS DE VORKUTA

par Roberto Massari


À un moment donné, Č-109 deviendra M-855. Mais ne le considérez pas comme un personnage inventé par Ayn Rand pour son célèbre roman de fantasy politique, Anthem, dans lequel le Collectif 0-0009 dialogue avec l'Unanimité 7-3306 ou l'Alliance 6-7349 avec la Fraternité 1-5537. Même si, si vous le vouliez, vous pourriez trouver une certaine affinité dans le contexte « social », fondé sur l'obligation compulsive de travailler comme un esclave et la dépersonnalisation totale de l'individu. Mais les différences sont trop nombreuses et trop profondes, à commencer par le fait non négligeable que Č-109 (plus tard M-85) – comme on l'appelait habituellement dans le camp – était une personne réelle, qui a vécu l'esclavage et a éprouvé, corps et âme, l'abysse à laquelle le système stalinien a contraint des millions de prisonniers, une avilissement sans équivalent, même dans la littérature dystopique la plus amère et la plus visionnaire. Tombée dans l'enfer de Vorkouta – l'un des deux camps de concentration soviétiques les plus terribles (l'autre étant la Kolyma) – et ayant réussi à survivre, Č-109 a pu raconter en détail l'histoire inhumaine qu'elle a vécue. Décédée à l'âge de cent ans en 2023, elle nous a en effet transmis ses souvenirs, recueillis grâce à sa fille Barbara, dans le livre Ma vie au goulag. Mémoires de Vorkouta. (Traduit et commenté par Luca Bernardini, pour Guerini e Associati [Milan 2024], 176 pages, plus une précieuse annexe iconographique.)

En parcourant les différents chapitres (identifiables par leurs titres), nous suivons un itinéraire qui, bien que déjà décrit par d'autres évadés de l'enfer des camps de concentration – pour ne citer qu'un Italien, il suffit de penser à l'histoire et aux livres de Dante Corneli – nous conduit cependant à chaque fois à découvrir de nouveaux détails, de nouvelles horreurs (peut-être inimaginables pour nous jusqu'alors), ainsi que les ressources humaines incroyables qu'un individu peut mobiliser dans une tentative désespérée de revenir à la lumière.

Et si vous connaissez un tant soit peu les récits des survivants des camps de concentration staliniens, vous remarquerez ici aussi l'une des notes dominantes : la persistance de la mémoire, de la pensée émue et rétrospective envers les codétenus qui, eux, n'ont pas réussi à s'en sortir. Bien sûr, ils ne représentaient qu'une infime partie des millions d'êtres humains morts au Goulag, mais ils constituaient des éléments fondamentaux du groupe de solidarité auquel il fallait nécessairement appartenir pour conserver ne serait-ce qu'un minimum de conscience personnelle et de prise sur la réalité. Mais aussi pour affronter de manière « organisée » le supplice quotidien de la faim, de la fatigue, du froid, des surveillants, des criminels de droit commun qui contrôlaient la vie et les « biens » les plus élémentaires des prisonniers, et des châtiments arbitraires et sadiques.

De nombreuses décennies après la fin d'un passé qui semble ne jamais finir – si l'on considère que les camps de concentration existent toujours, par exemple en Chine et en Corée du Nord, tandis qu'en Russie, des opposants continuent de mourir comme à l'époque du Goulag soviétique (il suffit de penser à l'assassinat d'Alexeï Navalnyï) – nous revivons une nouvelle épopée tragique. Une épopée qui, en 1945, vit une jeune femme de vingt-deux ans entrer au Goulag sous le faux nom d'Anna Norska (immédiatement remplacé par Č-109), et en sortir à trente-trois ans (en 1956) sous son vrai nom : Anna Szyszko, puis Szyszko-Grzywacz, après avoir épousé un codétenu du camp, tendrement affectueux et très présent dans les mémoires.

Les tourments décrits sont tirés d'un film d'horreur, notamment dans la première partie du livre et durant les premières années de détention (l'après-guerre des années 1940), durant lesquelles Anna subit les humiliations les plus révoltantes et risqua la mort à plusieurs reprises. Ces horreurs correspondent parfaitement aux autres récits que nous avons pu lire sur l'expérience des camps. Et ceci, s'il en était besoin, constitue une preuve supplémentaire de la malhonnêteté intellectuelle de ceux qui ont nié et continuent de nier la tragique véracité des récits sur la vie dans les camps du Goulag. Mais l'histoire d'Anna pourrait nous intéresser en particulier pour trois aspects que je voudrais évoquer rapidement.

Le premier peut paraître tautologique : le fait que la narratrice soit une femme. Non pas que les mémoires de femmes ayant subi les souffrances du Goulag manquent : Evgenija Solomonovna Ginzburg, Margarete Buber-Neumann, Elinor Lipper, Maria Ioffe, Evfrosinija Kersnovskaja et d'autres. Chacune d'elles a, d'une manière ou d'une autre, transmis le témoignage, voire la preuve documentaire, que dans les camps de concentration soviétiques (mais probablement dans les camps de concentration du monde entier), être une femme pouvait devenir un facteur aggravant, surtout si l'on était jeune. L'esclavage sexuel était une règle impitoyable qui ne pouvait être évitée qu'en choisissant de mourir ou, plus précisément, en choisissant de ne pas survivre.

Anna consacre de nombreuses pages à la description du trafic sexuel, imposé en premier lieu par les gangsters (les blatnjaki) – criminels endurcis et maîtres absolus de la vie « sociale » dans les camps de concentration – et ensuite par les gardiens. Mais les abus commis par les prisonniers eux-mêmes ne manquent pas, parfois décrits dans des scènes de désespoir authentique, presque bestial, provoquées par l'absence de relations avec les femmes. Ces aggravations sexuelles liées à l'esclavage au travail étaient inévitables et les descriptions d'Anna semblent, d'une certaine manière, en faire une composante presque « normale » de la vie dans le camp de concentration et de la lutte quotidienne pour la survie.


Le deuxième aspect distinctif est qu'Anna était une prisonnière politique. Non pas classée comme « trotskiste » (heureusement pour elle, car cela l'aurait placée au bas de l'échelle de la répression féroce explicitement prévue par la loi concentrationnaire), mais comme une partisane, active dans les rangs de la résistance que le peuple polonais a opposée aux première et deuxième invasions soviétiques. Son rôle militaire avait été celui d'une fusilière à cheval [avec une mitrailleuse] et s'était déroulé dans des environnements forestiers. Malheureusement, les mémoires, consacrés aux années d'emprisonnement, n'approfondissent pas cet aspect, pourtant fascinant à développer, tant pour la « spécialité militaire » en tant que telle que pour le contexte de résistance (d'un gang) dans lequel il s'était déroulé.

Et la discussion sur la résistance nous amène au troisième aspect distinctif : Anna était polonaise, et absolument fière de l'être. Le thème de la patrie lointaine, de l'appartenance à une culture noble et ancienne (il suffit de penser aux œuvres littéraires ou aux personnages cités à diverses reprises) et de l'affinité humaine avec les prisonnières polonaises (ici nécessairement des femmes) avec lesquelles elle partageait le lit, la nourriture, les fonctions physiologiques, mais aussi les liens affectifs et la compréhension mutuelle, est un fil conducteur tout au long du récit. Des sentiments affectueux s'expriment également envers les membres d'autres nationalités soumises aux dictatures soviétiques : notamment les Ukrainiens (orientaux et occidentaux), les Biélorusses (dont Anna parlait couramment la langue), les Estoniens, les Lituaniens, les Lettons, et même les Arméniens, etc. Mais rien n'est comparable à la passion avec laquelle elle s'adresse à ses compagnons polonais et aux sacrifices qu'elle consent pour rester ou retourner auprès d'eux.


À ce stade, cependant, il convient de s'arrêter sur le contexte politique dans lequel se déroule l'histoire d'Anna, auquel elle fait parfois référence, sans lui accorder l'importance qu'il mérite, et que je souhaite plutôt souligner. Anna finit en camp de concentration pour avoir participé à une expérience historiquement rendue possible uniquement en Pologne (et, dans une moindre mesure, grâce au bandérisme ukrainien [de Stepan Bandera]). À savoir, la résistance armée s'est déroulée simultanément contre les nazis et contre les Soviétiques. Cela était dû au tristement célèbre pacte de Staline avec Hitler (Molotov-Ribbentrop), qui, en août 1939, consacra l'alliance entre les deux régimes totalitaires, préparant l'invasion conjointe de la Pologne, son énième partage et, de fait, le début de la Seconde Guerre mondiale.

Avec la double invasion de septembre 1939, les partisans polonais se retrouvèrent à combattre sur deux fronts : contre les nazis et contre les Soviétiques, alliés entre eux par affinités totalitaires et ambitions expansionnistes territoriales. Une expérience similaire – combattre simultanément les nazis et les Soviétiques – aurait été impensable en Italie, pour des raisons géopolitiques évidentes. Anna, au contraire, a grandi dans ce monde et, en lisant attentivement ses pages, on comprend que pour elle, le concept de « résistance » était univoque : nazis ou staliniens, ils restaient les ennemis de son peuple et elle avait commencé à les combattre alors qu'elle n'avait pas encore vingt ans. Un choix partagé par de nombreuses autres Polonaises, dont beaucoup sont mortes au combat : un choix politique qui lui a coûté les plus belles années de sa jeunesse. Mais le livre ne révèle ni récriminations ni regrets.



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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

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g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.