di Piero Bernocchi
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Leon de Winter è uno scrittore olandese che, oltre ai suoi libri, svolge una presenza social-politica costante, con articoli pubblicati su vari giornali e riviste europee. A proposito di Sinwar ha scritto in un articolo su Neue Zurcher Zeitung, quotidiano svizzero con quasi tre secoli di storia: "Yahia Sinwar aveva trovato l'arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei ad uccidere il suo popolo e gli israeliani non possono sottrarsi alla lotta contro Hamas. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri". Effettivamente, il piano strategico di Sinwar, culminato nell'orrendo massacro del 7 ottobre, aveva una sua tragica grandezza strategica, che però, contrariamente alla lettura datagli da De Winter, è stata annullata da una catena di errori e di valutazioni, su possibilità non realizzatesi, commessi dal leader di Hamas e rivelatisi tragici e mortali per il popolo palestinese quanto per lo stesso Sinwar: catena di valutazioni erronee che qui proverò ad analizzare e commentare.
Il fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico nell’attacco frontale a Israele
Sono in circolazione oramai da mesi attendibili documentazioni di varia e credibile provenienza che spiegano come il massacro del 7 ottobre fosse stato pianificato, magari con dettagli non identici, probabilmente da almeno un paio di anni e che fosse stato più di una volta rinviato, in attesa di scenari generali più favorevoli. C’è ampia concordia tra gli “addetti ai lavori” anche sui motivi, almeno due dominanti, che alla fine hanno fatto scegliere, a Sinwar e alla leadership interna a Gaza, la data del 7 ottobre. Tornerò più avanti sul secondo motivo, per soffermarmi qui su quello a mio avviso più rilevante e decisivo: e cioè l’assoluta necessità/obbligo di far naufragare l’ampliamento degli Accordi di Abramo (che avevano normalizzato i rapporti tra Israele, gli Emirati Arabi e il Bahrein) con l’inclusione dell’Arabia Saudita e forse pure del Qatar, e con la formazione di un assai influente blocco di paesi sunniti guidati dalla maggior potenza di tale mondo islamista, quella Arabia Saudita, grande e storica (fin dall’avvento degli ayatollah al potere a Teheran) avversaria dell’Iran sciita. Tra le intuizioni strategiche di Sinwar, quella di inserirsi come un cuneo che disgregasse il nascente schieramento favorevole alla normalizzazione dei rapporti con Israele e, nel contempo, saldasse definitivamente l’anomalia di un rapporto stretto, con conseguenti copiosi finanziamenti e sostegno bellico, tra un’organizzazione del radicalismo sunnita più estremo come Hamas e la roccaforte iraniana del mondo sciita (anomalia assoluta fino a qualche anno prima, laddove sunniti e sciiti si scannavano quotidianamente in tutto il mondo islamico, con percentuali di vittime ben superiori a quelle dei conflitti con cristiani, “occidentali” ed ebrei), è stata forse la più notevole e, almeno potenzialmente, quella in grado di aprire nuovi e inattesi scenari ai monumentali e apparentemente folli piani di distruzione totale di Israele.
Per giungere però ad attivare un tale scenario, ci voleva un’azione così terrificante, sconvolgente e spietata, manifestantesi nelle forme più barbariche possibili, che fosse in grado di scatenare una risposta almeno altrettanto selvaggia, brutale e stragista da parte del governo Netanyahu, contando sulla colossale umiliazione imposta all’intero apparato bellico e militare israeliano ma pure sullo smacco planetario inflitto ad un capo di governo, ultra-ambizioso, senza scrupoli e senza remore, come Netanyahu che, pur di cancellare dalla scena l’ANP e Fatah, si era fatto ingannare da Sinwar, favorendone per anni l’ascesa al potere a Gaza, con una posizione dominante su tutti i palestinesi. Ritengo, conseguentemente, che gli orrori del 7 ottobre non siano stati dovuti alla barbarie spontanea e alla epidermica orgia senza freni di voglia di vendetta da parte delle migliaia di armati palestinesi coinvolti, ma che fosse stata pianificata e voluta da Sinwar e i suoi (e per tale ragione documentata ed esibita platealmente con video, foto e registrazioni sonore quanto più raccapriccianti possibili) proprio per rendere irrealistica e di fatto impossibile una risposta solo “moderata” da parte del governo israeliano, provocato a tal punto da spingerlo a una risposta quanto più feroce, distruttiva e impopolare possibile. La scommessa di Sinwar, certo massimamente cinica e spietata, ma non pazzesca in linea di principio, e anzi potenzialmente foriera di successo, è stata appunto quella di spingere Netanyahu ad attaccare Gaza con una forza distruttiva smisurata e senza precedenti, che provocasse il maggior numero di vittime possibili tra i civili (più volte Sinwar ha ammesso senza imbarazzo di essere disposto a sacrificare anche un numero spropositato di suoi concittadini/e non in armi pur di creare le condizioni per la sconfitta e la distruzione di Israele), in modo da suscitare da una parte la più diffusa indignazione mondiale contro Israele (e in generale contro la presenza di uno Stato ebraico in Palestina, da liberare dal “fiume al mare”), e che dall’altra spingesse tutto il mondo islamico, sunnita o sciita, ad entrare in campo militarmente, contribuendo in maniera decisiva alla distruzione di Israele.
Malgrado la mia avversione politica, ideologica, culturale e morale all’islamismo da Guerra Santa e ai regimi dittatoriali come l’orrenda teocrazia iraniana e ad organizzazioni oscurantiste, reazionarie, ultra-misogine e omofobe come Hamas, Hezbollah, non posso negare che tale piano strategico aveva, almeno in potenza, quella che ho chiamato una tragica grandezza. E nella realtà di questo anno, tale piano il primo obiettivo lo aveva effettivamente raggiunto, cioè quello di suscitare una vastissima ondata di indignazione internazionale anche in ambienti fino a ieri insospettabili che, con grande rapidità, hanno accantonato gli orrori del 7 ottobre (che, anzi, hanno sovente salutato come un “riscatto” del popolo palestinese dopo decenni di sopraffazioni e umiliazioni, o come addirittura “l’inizio della Rivoluzione palestinese”), per reagire con una mobilitazione pressoché permanente contro il massacro in corso a Gaza, dove, indiscriminatamente, ai miliziani di Hamas uccisi dall’esercito israeliano si è accompagnato quasi ogni giorno un numero almeno altrettanto elevato di vittime civili, senza alcuna distinzioni tra uomini, donne, bambini.
Quello che però non è avvenuto, rivelandosi nei fatti il principale punto debole di tale ambiziosissima strategia e il più grande errore di previsione di Sinwar e di chi ne ha condiviso la strategia, è stato il generale fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico, sunita e sciita, nell’attacco frontale a Israele. A posteriori, Sinwar ha dimostrato una sorprendente misconoscenza della variegata e ambigua complessità di tale mondo (più avanti vedremo come analoghi e altrettanto esiziali – per lui e per i palestinesi – errori di valutazione e previsione Sinwar li ha commessi anche nell’analisi della società israeliana e della psicologia dominante tra gi ebrei di Israele).
Sorprende, tanto per cominciare, che il leader indiscusso di Hamas abbia davvero creduto ai roboanti proclami bellici e agli appelli per la distruzione della “entità sionista” (come i dittatori teocratici iraniani amano definire Israele, per non doverne fare neanche il nome in segno di massimo disprezzo) di due affabulatori e incantatori di massa come Khamenei e Nasrallah. Meraviglia che una mente così attenta ad ogni sfumatura del pensiero della radicalità islamista abbia potuto davvero credere che il regime teocratico e Hezbollah avrebbero deciso di mettere a repentaglio il proprio potere e dominio nei rispettivi paesi sottomessi, l’Iran e il Libano, e persino la sopravvivenza dei propri regimi, per entrare in campo accanto ad Hamas nello scontro frontale con Israele, ben conoscendo la propria inferiorità sul piano militare, ma anche la fragilità del proprio dominio interno, di fronte a due società in maggioranza ostili, in aperta rivolta come nell’Iran dell’ultimo biennio o sottomessa ma non consenziente e collaborativa come quella libanese, incapace di impedire la progressiva dominazione della minoranza sciita sul paese ma fondamentalmente desiderosa di una sua possibile débacle bellica.
In verità, nei comportamenti di quasi tutti i paesi arabi e dell’Iran nei confronti della tragedia palestinese, c’è sempre stata una profonda strumentalità di fondo che Sinwar e i suoi avrebbero dovuto ben conoscere. Falliti i tentativi della Lega araba di sconfiggere militarmente Israele e di espellere la comunità ebraica dalla Palestina, la gran parte dei paesi arabi circostanti ha usato cinicamente il popolo palestinese e la sua lotta solo per creare le maggiori difficoltà possibili a Israele, per tenerla sotto costante pressione e per attivare la più diffusa solidarietà internazionale contro l’“entità sionista”. Solo che a questo cinico e strumentale disegno non si è mai accompagnata una reale solidarietà con il popolo palestinese, né in termini di significativi aiuti materiali né in quanto a dignitosa accoglienza ai profughi, almeno all’altezza dei proclami tonitruanti di circostanza. Figuriamoci se Hezbollah e la teocrazia iraniana potevano essere disposti a sfidare davvero, militarmente e in uno scontro aperto senza mediazioni, Israele, con la realistica possibilità di essere non solo travolti sul campo, ma anche di consentire alle diffuse opposizioni interne di saldare finalmente il conto alle insopportabili dominazioni ultra-decennali.
Ma Sinwar ha commesso un altro errore di valutazione, altrettanto inspiegabile per chi, in tanti anni, aveva avuto modo di studiare dettagliatamente, e verificare da vicino e con massima cognizione di causa, di contatti e di legami, i complessi e contorti, ambigui e mutevoli rapporti tra le varie statualità e comunità islamiche mediorientali. Il leader di Hamas parrebbe aver preso sul serio, e massimamente sopravvalutato, il profondo legame che era riuscito a stabilire - fin da quando ancora era in galera in Israele e riusciva a corrompere le guardie carcerarie, così potendo colloquiare senza limiti non solo con i suoi “sottoposti” a Gaza, ma persino con il regime iraniano - fin dal 2011 con il regime degli ayatollah. Certo, l’anomalia di un’alleanza, così stretta, impegnativa e senza precedenti significativi, tra sunniti e sciiti, solitamente in guerra permanente tra loro da parecchi secoli, può aver contribuito a fuorviare le percezioni di Sinwar, al punto da fargli scambiare un accordo tattico (utilissimo per l’Iran per mettere in un angolo il progetto di una vasta parte del mondo sunnita di normalizzare i rapporti con Israele in nome dei comuni interessi economici) per una generale e permanente collaborazione strategica. Ma il grosso del mondo sunnita non ha mai digerito il rapporto quasi “intimo” tra la parte combattente del mondo sunnita palestinese con l’Iran, e ancor meno il grande potere acquisito da Hezbollah, altro portabandiera del minoritario mondo sciita e anch’esso grande alleato di Hamas: e quanto questa ostilità fosse viva, malgrado il sostegno comunemente sbandierato per i palestinesi durante i massacri a Gaza, si è potuto verificare apertamente con i festeggiamenti in tanti paesi arabi sunniti alla notizia dell’uccisione di Nasrallah: mentre, al contempo, non pare proprio che l’uccisione di Sinwar abbia suscitato in questi paesi grandi ondate di solidarietà e cordoglio.
Gli errori di valutazione di Sinwar sull’attuale popolo ebraico di Israele