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martedì 26 dicembre 2023

DISCUSSIONE SU ISRAELE (Parte 3ª di 3)

di C. Albertani, M. Nobile, R. Massari

Risposta ad Albertani

di Roberto Massari

 

link all’articolo di Albertani: http://utopiarossa.blogspot.com/2023/12/discussione-su-israele-parte-1-di-3.html

link alla risposta di Nobile: http://utopiarossa.blogspot.com/2023/12/discussione-su-israele-parte-2-di-3.html

 

Caro Claudio, 

come ben sai, in tempi recenti e prima del tuo articolo, Utopia rossa aveva già pubblicato alcuni testi che parlavano apertamente di un solo Stato, multietnico, democratico, laico e se necessario anche federale. E mi fa piacere che citi favorevolmente analoghe posizioni da parte di israeliani o ebrei antisionisti, di sinistra o semplicemente democratici (peraltro posizione non nuove ma sempre esistite), così coincidenti con le nostre. Tu ricordi che anche Martin Buber aveva una posizione analoga o simile - uno Stato democratico binazionale - ma non mi risulta che abbia mai negato la legittimità d’esistenza dello Stato d’Israele, per quanto critico possa essere stato sulla risoluzione 181 dell'Onu.

Veniamo al tuo articolo, partendo dalla questione della legittimità di esistenza dello Stato d'Israele.

Questo Stato, sorto nel 1947-48, in senso giuridico ha un’esistenza più che legittima perché gliel’ha conferita il massimo organo sovranazionale esistente al mondo: le Nazioni Unite (belle o brutte che siano, e bella o brutta che sia stata quella decisione). Non fu un atto di occupazione militare o di conquista territoriale con la forza. E nemmeno un compromesso di potenze coloniali, come invece fu per Iraq, Siria e Giordania i cui confini vennero in gran parte decisi a tavolino (in primis dalla Gran Bretagna) tracciando delle linee sulla carta geografica. La nascita di Israele (risoluzione n. 181) fu votata il 24 novembre 1947 dalla maggioranza dei Paesi all’epoca membri dell'Onu: 33 a favore (compresa l’Urss, e questo è fondamentale che non lo si dimentichi, e non certo per mia simpatia verso un antisemita come Stalin), 13 contro (per lo più Stati arabi o mussulmani) e 10 si astennero. La risoluzione prevedeva anche la nascita di uno Stato palestinese e altre clausole che furono disattese (da Israele, ma non solo, Onu compresa).


La nascita di Israele non poteva essere formulata più chiaramente, vale a dire con un testo «giuridico-politico» di natura internazionale, approvato dalla grande maggioranza dei Paesi rappresentati all'Onu. Chi vuole contestare quella legittimità (se la parola legittimità ha un senso giuridico prima che politico) deve battersi quindi perché le Nazioni Unite rivedano quella decisione, e non tentare di annullarla col terrorismo, i missili sui civili e sulle città israeliane, i pogrom antiebraici (come quello del 7 ottobre). Tutte azioni che servono solo a peggiorare le condizioni di vita del popolo palestinese e non hanno alcuna speranza o diritto di annullare la decisione dell’Onu: una decisione ormai storica, visto che ha superato i tre quarti di secolo (siamo quasi a 77 anni da allora).

Non mi sembra che questa posizione (annullare la decisione dell’Onu: l’unica «legittima», per chi contesta quella legittimità), sia la posizione di Hamas. Ad Hamas non solo non frega niente del popolo palestinese di Gaza (che ha consegnato inerme alla rappresaglia israeliana dopo aver dichiarato guerra a Israele nel modo barbaro che sappiamo), ma dichiara ufficialmente che il suo scopo principale è distruggere Israele e uccidere gli ebrei che vi abitano. Dopo anni di missili sui civili, attentati e scavamento di tunnel militari sotterranei (tutto pagato con il denaro, anche UE, che avrebbe dovuto utilizzare per costruire scuole, ospedali e abitazioni per i palestinesi di Gaza), Hamas ha cominciato a farlo alla grande il 7 ottobre e vorrebbe continuare a farlo. Per questo ha scatenato la guerra asimmetrica cui stiamo assistendo in questi giorni, applaudita da gran parte del mondo mussulmano ma aiutata a combattere (più simbolicamente che altro) solo dagli houthi, gli sciti filoiraniani dello Yemen.

In realtà, il vero obiettivo realistico che Hamas si riproponeva massacrando gli ebrei dei kibbutzim - e che potrebbe anche raggiungere se non viene distrutta - era scalzare l’Autorità Nazionale Palestinese nelle zone A e B della Cisgiordania (la vecchia OLP di al Fatah), presentandosi al mondo islamico come la sola e unica rappresentante della lotta per distruggere Israele. Insisto che l’effetto propagandistico c’è stato e che se non viene distrutta, Hamas potrebbe raggiungere il suo vero scopo.

Anche per questo Michele, Antonella io e altri abbiamo scritto che Hamas è uno dei principali nemici del popolo palestinese (di Gaza e non solo) che va cancellato dalla faccia della terra in primo luogo nell’interesse degli stessi palestinesi di Gaza e della Cisgiordania e non solo per il suo feroce antisemitismo di matrice islamica.

 

Ma oltre alla legittimità giuridica c’è la legittimità morale. E qui si insinua l’antisemitismo: il non voler riconoscere che l’umanità ha contratto un debito gigantesco con gli ebrei di tutto il mondo sia per l’Olocausto sia per le repressioni antisemitiche che per secoli si sono svolte (comprese le Leggi razziali italiane o l'Urss negli ultimi anni di Stalin) e, come si è visto il 7 ottobre, continuano a svolgersi, per giunta nella forma medievalissima di pogrom. E questo in pieni anni Duemila.

 

Israele non ha la colpa di aver accettato la decisione legittima delle Nazioni Unite, ma di averla stravolta, dando vita a uno Stato confessionale che non potrà mai fondersi con altre nazionalità, a loro volta altrettanto confessionali (anzi peggio, visto che sono islamiche e della peggior specie di islamismo). Questo è il peccato originale del sionismo arrivato al potere. Ebbene, dovere di un antisionista è battersi in primo luogo contro questo carattere confessionale di Israele, e poi contro tutte le violazioni della decisione dell’Onu (iniziale e successive), tra le quali le più gravi sono le occupazioni ultraillegittime (queste sì) da parte dei coloni in Cisgiordania. Che Israele abbia accettato a suo tempo di smantellare le occupazioni illegittime dei coloni nella striscia di Gaza (decisione pagata con la vita da Yitzak Rabin nel 1995), mostra che qualche risultato su tale piano era ed è raggiungibile, nonostante l’esistenza dell’altrettanto medievalissimo fanatismo ebraico ortodosso: un fanatismo che ha sempre ricevuto alimento politico dalle aggressioni arabe e dagli attentati palestinesi contro Israele. È grazie a questa storia di aggressioni e attentati che un personaggio come Netanyahu riesce da anni a restare al governo. Per giunta al governo di un Paese che alle sue origini si ispirava a un sionismo di tipo laico e socialista (laburista) se non addirittura di utopismo collettivistico (vedi l’ideologia e le origini dei primi kibbutzim) 

L’esistenza disastrosa di questo fanatismo ebraico ortodosso è una ragione in più per insistere sulla deconfessionalizzazione dello Stato e del regime attuali, perché senza di questa non si andrà da nessuna parte: stragi e conflitti proseguiranno all'infinito.

Ma deconfessionalizzare non significa distruggere lo Stato d’Israele. E qui chiaramente passa la linea di demarcazione tra antisionismo e antisemitismo. Chi vuole distruggere lo Stato d’Israele è un antisemita. Chi vuole deconfessionalizzarlo (e anche riportarlo entro i suoi legittimi limiti territoriali) è un antisionista. Un vero antisionista non nega la legittimità della sua esistenza, mentre proporre la distruzione o la fine di Israele, invece di combattere politicamente il suo governo, è una posizione antisemita, comunque la si presenti.

Tutto ciò non ha giuridicamente e politicamente niente a che vedere con la storia antica del popolo d’Israele, degli ebrei e della successiva occupazione romana della Palestina. Tu citi giustamente Israel Finkelstein (il cui principale libro, The Bible Unhearted del 2001 [Le Tracce di Mosè, Carocci 2002] è un capolavoro che ho letto ben due volte e ho raccomandato in giro di leggere) perché ha contribuito egregiamente a dare voce archeologica a ciò che molti altri studiosi - biblisti o no - dicono ormai da tempo: la vera storia del popolo ebraico originario è tutta da riscrivere e non coincide, se non per alcuni tratti, con quella ricavabile dall’Antico Testamento. Lo stesso Mosè non vi sono più dubbi che non sia mai esistito. Come non vi sono dubbi che gli ebrei furono politeistici a lungo prima di arrivare al più rigido monoteismo.

Come non vi sono dubbi però che nel 66-70, Prima guerra giudaica, i romani sterminarono centinaia di migliaia di ebrei (secondo alcune stime forse quasi un milione), distrussero la loro capitale, il loro Tempio e diedero vita allo sparpagliamento degli ebrei come profughi, mentre prima erano sparpagliati come comunità commerciali, religiose ecc. Negare questa realtà di nascita della Diaspora (descritta così bene anche da Giuseppe Flavio) mi sembra una sciocchezza storicamente indifendibile e ci sono tonnellate di materiale storiografico che stanno lì a darmi ragione. Ma comunque questa storia è oggetto di discussione teorica, senza incidenze sulla questione attuale della legittimità. La legittimità dello Stato d’Israele non nasce dalla sua precedente storia plurisecolare di vita in quella tormentata parte del Medio Oriente. Quell’antica storia ne può essere casomai il contorno spirituale e culturale, ma non certo politico.

Ma detto questo, posso ancor meno riconoscere una continuità storica al mondo islamico che non ha mai avuto un proprio Stato palestinese (a differenza del popolo ebraico che uno Stato lo ebbe nelle epoche del Primo e Secondo Tempio). Eppure l’islamismo mondiale ancor oggi rivendica Gerusalemme come uno dei tre suoi principali luoghi santi perché ivi Maometto fu trasportato nel 621 su un cavallo bianco per mano di Gabriele arcangelo, per ascendere al cielo e tornare poi nella sua sede alla Mecca (volando, perché l’Islam afferma che fece tutto in una sola notte). Quando in Italia esistevano i manicomi, ci si finiva dentro per molto meno.

 

Tu citi nomi di ebrei (israeliani o no) che a tuo dire contestano in vario modo la legittimità dell’esistenza di Israele. Su questo, se mi permetti (cioè sulla questione della legittimità e non tutto il resto) io dubito e vorrei vederli (leggerli) uno per uno questi autori ebrei, soprattutto per capire quali argomenti producano per negare tale legittimità. Ma ammettiamo che per alcuni sia vero: ciò non significa assolutamente niente, perché sono molti ma molti di più gli ebrei antisionisti che non negano la legittimità dello Stato d’Israele, pur opponendosi alle sue nefandezze. Né va dimenticato che nel passato ci sono stati ebrei che hanno addirittura collaborato coi nazisti. Ciò per dire che la questione dell’ebraicità degli autori è irrilevante: io non sono ebreo, eppure penso di avere su Israele le idee molto più chiare di tanti ebrei sionisti o antisionisti. L’appartenenza etnica o religiosa non deve mai significare nulla in questioni politico-teoriche. Anzi, spesso è proprio la non appartenenza che consente di avere le idee più chiare.

Il Matzpen da te citato, invece, non esiste più (anche se può esserci qualche ex militante sparso e ancora attivo). Lo so bene perché uno dei due rami del Matzpen era affiliato alla Quarta internazionale negli anni in cui questa ci diseducava con la posizione di non riconoscere lo Stato d’Israele. (Posizione che, a quanto mi risulta, non ha più da quando si è liberata del Swp degli Usa e dei morenisti argentini, ma non sono abbastanza aggiornato e potrei sbagliarmi.)

Da non dimenticare, poi, che io ho ripubblicato il lavoro monumentale di Nathan Weinstock (Storia del sionismo) anche se l’autore mi ha poi scritto di non riconoscersi più in quel suo lavoro.

 

Nei testi che abbiamo pubblicato prima di questa discussione a tre (per es. quello molto preciso di Michele Nobile) accennavamo soltanto all’importanza politica dell’esistenza di Israele. Forse non lo abbiamo fatto abbastanza e certamente dovremo tornarci sopra. Perché proporre la fine dello Stato d’Israele significa togliere dal Medio Oriente l’unico Stato democratico che vi esiste e resiste.

Con tutti i limiti di tale democrazia, è pur sempre un Paese in cui si può manifestare contro il governo, si possono criticare e far cadere i governi, le donne sono anche soldatesse combattenti e in generale sono trattate come esseri umani (a differenza della mostruosa misoginia iraniana e islamica) e in cui parlamentari arabi-palestinesi possono addirittura sedere nella Knesset: è una democrazia o postdemocrazia imperfetta - ma quale paese «democratico» o postdemocratico al mondo non lo è? La democrazia imperfetta di Israele lo è soprattutto a causa della sua natura confessionale, che implica dei tratti da apartheid verso i non-ebrei, ma non è minimamente paragonabile alle feroci dittature islamiche circonvicine. E aggiungo che è veramente miracoloso che Israele si conceda il «lusso» d’essere una democrazia imperfetta mentre è circondato tutt’intorno militarmente da Stati islamici dittatoriali che sognano di distruggerlo, se solo ne avessero la forza. Stati che non consentono alcuna opposizione politica al proprio interno, alcuni dei quali impiccano o giustiziano chiunque sia sospettato di simpatie filoisraeliane o deroghi troppo radicalmente dalla presunta legge coranica.

Togliere Israele dal Medio Oriente significa lasciare campo totalmente libero al più reazionario dei regimi oggi esistente al mondo: all’Iran - autentica vergogna dell’umanità (e non solo per come tratta le donne). E lasciamo da parte altri notori campioni di democrazia e civiltà come la Turchia, l’Afghanistan, l’Iraq, gli Emirati, Hezbollah ecc.

Israele sa bene che la sua sopravvivenza è legata a un filo: un filo ormai fondamentalmente militare. Cominciò a capirlo subito, nel 1948: il 14 maggio dichiarò la propria esistenza e il giorno dopo fu aggredito da un fronte costituito da 5 Stati della Lega araba e poco altro. Il mondo arabo antisraeliano prese la prima sonora batosta, ma i frutti di quell’aggressione li stiamo ancora pagando. La stanno pagando in primo luogo i palestinesi che a causa di quella guerra e col contributo espulsionista di Israele dovettero fuggire (nell’ordine di 7-800.000) dando vita così alla questione palestinese, a tutt’oggi irrisolta. Senza quella prima guerra, probabilmente non vi sarebbe mai stato l’esodo massiccio di un intero popolo o almeno Israele avrebbe avuto delle difficoltà a realizzarlo «a freddo» e di sola propria iniziativa. E sicuramente si sarebbe almeno tentato di mettere in pratica le altre clausole della 181, per quanto discutibili esse fossero, anche a mio personale avviso e non solo di Buber.

E se la Lega araba non avesse aggredito Israele sul nascere, come sarebbero andate le cose? il popolo palestinese e quello israeliano sarebbero forse vissuti meglio? sarebbero riusciti a trovare una qualche intesa? sarebbe stata possibile un’integrazione delle varie etnie? si sarebbe mai rafforzato il carattere confessionale di Israele?

Tutte domande retoriche la cui risposta per me è evidente, con qualche dubbio sull'ultima.

L’aggressione del 15 maggio 1948 non la si deve mai dimenticare sul piano dell’analisi (come invece viene fatto spesso e irresponsabilmente), perché se Israele si è dovuto trasformare in una cittadella militare (peraltro inespugnabile) ciò fu dovuto a quel primo attacco che, con grande sorpresa di tutti, esso riuscì invece a respingere, così come ha fatto in altri successivi attacchi e continuerà a fare se sarà ancora necessario: va detto però che ormai l’unico Stato che sembra puntare alla distruzione d’Israele (a parte Hamas ed Hezbollah) è l’Iran. Segno che una certa evoluzione esiste anche nel mondo arabo, anche se purtroppo non nell’insieme del mondo islamico.

Se la questione palestinese si è militarizzata la colpa originale risale a quel primo attacco proditorio e fallimentare da parte della Lega araba che produsse il primo grande esodo dei palestinesi, «incoraggiato» subito dallo stesso governo israeliano con la politica delle espulsioni. In séguito Israele e alcuni suoi governi hanno appesantito il carico, potendo contare su un’indiscussa superiorità militare e sul pieno sostegno politico e morale del proprio popolo.

Resta il fatto, però, che alcuni degli stessi Stati arabi responsabili della prima aggressione hanno poi fatto vivere i palestinesi sfollati in campi profughi, invece di assimilarli nelle proprie strutture sociali e trattandoli sempre come cittadini di serie B o C. Oppure con massacri di massa come fece la monarchia giordana hashemita (cioè discendente di Maometto) nel settembre «nero» del 1970. E come avvenne a Sabra e Shatila nel 1982, dove, con la complicità d’Israele, le falangi libanesi sterminarono più di un migliaio (o due, forse tre migliaia) di civili palestinesi inermi, rinchiusi nei campi profughi.

Discriminazioni dei palestinesi che i responsabili arabi accompagnarono sempre illudendoli col miraggio antisemita, reazionario e irrealizzabile di distruggere Israele e ammazzare il più possibile di ebrei invece di trovare una qualche forma di convivenza. Col tempo una graduale assimilazione c’è comunque stata (soprattutto in Giordania, come ho potuto verificare anche personalmente di recente), ma non fu così per decine di anni e continua a non esserlo in alcuni casi, come per i campi che ancora esistono in Libano affidati alla dittatura (filoiraniana) di Hezbollah. 

Israele sa che al suo primo segno di debolezza l’aggressione degli Stati più o meno confinanti ricomincerebbe, fino a distruggerlo e sterminare il suo popolo (gli ebrei di molteplice provenienza, ma anche i non ebrei come s’è visto nel pogrom del 7 ottobre).

 

Ma una delle ragioni per le quali Israele non potrà mai perdere militarmente e scomparire è qualcosa che gli antisemiti di varia matrice non riescono a capire e forse non capiranno mai: la maggior parte degli israeliani odierni sentono di doversi battere fino alla morte, se necessario, perché non si ripeta quanto accadde negli anni del nazismo, negli anni del Patto di Hitler con Stalin e con la successiva «soluzione finale», quando i loro progenitori furono massacrati a milioni senza opporre resistenza e senza che nessuno Stato intervenisse a loro difesa. Anzi, l’Urss addirittura si alleò con Hitler nella fase di avvio dello sterminio vero e proprio, le due principali Chiese cristiane tedesche (cattolica e protestante) diedero la loro benedizione e Pio XII non mosse un dito per impedirlo fino a quando non cominciò a capire che Hitler stava perdendo la guerra (si veda il magnifico libro di David Kertzer su Il Papa in guerra). E comunque nemmeno a guerra conclusa condannò mai l'Olocausto. Questa è la carica morale che rende impossibile sconfiggere Israele e questa carica è densa di storia, storia del Novecento e non dell'èra dei Patriarchi.

 

Questa storia di sofferenze del popolo ebraico io la sento come mia. Anche per un fattore personale: mio nonno comunista fu assassinato alle Fosse Ardeatine e così, fin da bambino, ho frequentato e mi sono sentito associato agli ebrei romani nel loro dolore per il massacro compiuto e nel quale essi pagarono un alto prezzo. L’ebraismo romano è stato parte della mia infanzia e ha continuato ad esserlo in età adulta quando mi sono costituito parte civile in tutti e tre i gradi del processo contro Priebke - unico famigliare non ebreo ad averlo fatto. Anche per questo c’è una parte di me che è visceralmente sensibile all’antisemitismo, comunque esso si presenti, che la persona implicata se ne renda conto o no.

Ed è un esempio di antisemitismo attuale il comportamento di ciò che resta della sinistra reazionaria italiana (ma lo stesso discorso si potrebbe fare per alcuni campus statunitensi, alcune correnti politiche latinoamericane ecc.), la quale sta facendo manifestazioni una dopo l’altra, ufficialmente per fermare il governo di Israele, ma sostanzialmente per difendere Hamas e il suo intento genocida.

Ah già, dimenticavo di dire che la volontà dichiarata esplicitamente - da Hamas, da Hezbollah, dal governo iraniano, da settori della sinistra reazionaria mondiale e fino a un recente passato dall’islamismo al potere in alcuni Stati - di distruggere Israele e «buttare a mare» gli ebrei che vi vivono è un vero e proprio proposito genocida: antisemita e genocida. Ed è pazzesco che simili barbarie possano ancora circolare ed essere condivise da presunti «democratici» o reazionari di sinistra.

Da questi orrori io mi separo nettamente e affianco invece la giusta lotta antisionista contro l’attuale regime confessionale israeliano alla giusta lotta per la difesa del popolo d’Israele e del suo legittimo Stato, ribadendo che l’unica soluzione positiva e realistica per i palestinesi sarebbe la trasformazione d’Israele in uno Stato plurietnico o plurinazionale, democratico e soprattutto laico. L’idea dei due Stati è folle e irrealizzabile. La sofferenza pluridecennale dei palestinesi sta lì a dimostrarlo e purtroppo continuerà a dimostrarlo ancora per molto, anche dopo che sarà terminata questa guerra asimmetrica voluta e scatenata da Hamas.

Shalom

Roberto


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.