di Andrea De Lotto
(Comitato di solidarietà con Leonard Peltier)
ITALIANO - ENGLISH
Ma perché vi era entrato quel 6 febbraio del 1976?
Il 26 giugno precedente vi era stato un violentissimo scontro a fuoco nella riserva di Pine Ridge in South Dakota. Alla fine della giornata rimanevano a terra, morti, due agenti dell’FBI (i due che avevano provocato il tutto) e uno dei nativi dell’American Indian Movement (movimento che in quegli anni vedeva molti nativi americani impegnati in un’ennesima lotta per diritti dei loro popoli). Del nativo, come sempre, non interessò mai nulla, ma alla morte dei due agenti dell’FBI doveva seguire invece una pesantissima vendetta. I ricercati furono tre. I primi due che vennero arrestati, Bob Robideau e Dino Butler, ebbero un processo giusto, vennero assolti, il giudice disse che non vi erano prove contro di loro, ma, anche fosse stati loro, sarebbe stata legittima difesa. Quel giorno erano stati sparati 35mila colpi, in gran parte dagli agenti pervenuti subito dopo sul posto.
L’arresto di Leonard Peltier avvenne appunto il 6 febbraio seguente in Canada. Gli Usa ottennero l’estradizione con prove false e, subito dopo, montarono un processo in altra città (Fargo) con altro giudice (di fama razzista) e con una giuria tutta di bianchi. In poco tempo ebbero quello che pretendevano: due ergastoli per Peltier.
Avevano trovato il capro espiatorio che, entrato in carcere a 31 anni, vi è rimasto fino agli 80 suonati.
Le campagne per la sua liberazione iniziarono subito. Che il processo fosse stato una farsa era chiaro a tutti, che le prove non fossero attendibili e soprattutto che nuove prove a sua difesa non fossero state accettate in seguito. Ma fu l’FBI che tenne chiusa quella porta per tutti questi anni.
Per la sua liberazione si spesero tempo, energie, forze, di centinaia di persone che in diversi luoghi del pianeta, spesso avvicendandosi, hanno continuato a tener viva l’attenzione su una vicenda che lentamente rischiava di finire nel dimenticatoio.
Centinaia di migliaia di firme raccolte, molte di nomi autorevoli (che non stiamo ad elencare), decine, centinaia di presìdi, marce, manifestazioni, sit-in, e poi murales, articoli, canzoni, appelli; migliaia di cartoline inviate, di messaggi online inviati alla Casa Bianca. Ogni volta era un crescendo in prossimità della fine del mandato del presidente di turno, con qualche speranza in più con i democratici.
Clinton ci andò vicino, ma fu fermato da una vera e propria marcia di 500 persone tra agenti dell’FBI e familiari che fecero sentire la loro voce proprio sul caso Peltier. Obama fu la delusione più feroce, e se lo fu per noi che ci battevamo per la sua liberazione, non riusciamo ad immaginarci cosa fu per Leonard.
E così è rimasto per 49 anni, rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, mentre la salute andava sempre peggio, ma lo spirito era sempre lo stesso e non smetteva di lottare, appoggiare le lotte dei suoi fratelli e delle sue sorelle, di resistere, a migliaia di chilometri dai suoi cari.
Personalmente iniziai a manifestare con regolarità per la sua liberazione 14 anni fa. A Barcellona montammo un comitato di solidarietà che fece decine e decine di azioni. Quando mi spostai a Milano 8 anni fa si riprese in quella città, senza smettere e riuscendo a coinvolgere agli ultimi presìdi a Milano, oltre 50 persone sotto il consolato Usa.
Nel frattempo le avevamo provate tutte, bussando a moltissime porte. Accolti solo in spazi e mezzi di informazione radicali ed alternativi.
Se tutto per me era partito dal formidabile libro autobiografico dello stesso Peltier La mia danza del sole (divenuto subito introvabile, dopo la prima edizione di 25 anni fa), ci si appoggiò all’ottimo libro di Edda Scozza Il coraggio di essere indiano pubblicato da Massari editore (3 edizioni: 1991, 1997, 2006). Infine, di recente, molto ha aiutato la proiezione in giro per l’Italia del documentario di Andrea Galafassi Mitakuye Oyasin” [«Tutto è connesso», preghiera tradizionale dei Lakota Sioux].
Insomma, si trattava di fare il possibile perché “la spugna” non cadesse a terra. Non è stato facile. Se negli Usa hanno alternato momenti di grande partecipazione, anche di recente, a problemi all’interno della stessa solidarietà, in Germania, in Italia, ma anche in Francia, in Svizzera, Belgio, si è fatto tutto il possibile perché i riflettori non si spegnessero. Una grande mano, qui da noi, arrivò negli ultimi 5 anni dal Centro per la pace di Viterbo animato dall’instancabile Peppe Sini.
In breve: la speranza con Biden era veramente l’ultima e sembrava che il tutto si concludesse con l’ennesimo rifiuto. E' stato un colpo di coda dell’ultima ora che ha permesso che a Peltier fossero concessi gli arresti domiciliari, al momento non ancora attuati per la lentezza burocratica.
Rabbia e tristezza avvolgono comunque questa vicenda; come il fatto che, se spesso sono stati accoppiati i nomi di Peltier e di Mumia Abu Jamal, per quest’ultimo non si sia mossa foglia. Come il fatto che non ci sia stato il coraggio di dare una grazia definitiva.
Ma nel corso degli anni si era sempre più còlto il fatto che il vero nodo fosse l’FBI, quindi né l’opinione pubblica Usa, né i giudici, né i parlamentari, né, probabilmente, i Presidenti.
Quando abbiamo saputo della sua prossima scarcerazione, della firma di Biden, troppe emozioni si sono accavallate, ma ciò che ha fatto sì che dovesse prevalere la gioia sono state le parole che arrivavano dalle comunità dei nativi negli Usa e quelle stesse di Peltier che, ascoltando la sua voce al telefono, sembrava solo gioire, pronto a fare quello che desidera, in libertà.
Questa storia ha insegnato tanto a chi vi ha partecipato. Ha fatto sentire quanto forte è il potere e soprattutto quanto grande il numero dei suoi servi: una vera cascata. E si è visto come la resistenza richieda costanza, preparazione, affinare gli strumenti, determinazione.
È certo che se noi, fuori del carcere, abbiamo resistito, è stato grazie alla forza di Leonard che continuava a mandare messaggi di coraggio, forza, bontà e sete di giustizia. Forse anche Peltier è riuscito a resistere dentro, perché da fuori non l'abbiamo mai abbandonato.
ENGLISH
LEONARD PELTIER IS FINALLY COMING HOME
by Andrea De Lotto
(Solidarity Committee with Leonard Peltier)
Joe Biden has finally signed. On February 6th, it will have been 49 years since Peltier was imprisoned. If Biden signed on January 20th, it will still take several weeks before this man is definitively released from prison. We are waiting for him with open arms.
But why was he imprisoned on that February 6th in 1976?
On June 26th of the previous year, a violent shootout took place on the Pine Ridge Reservation in South Dakota. By the end of the day, two FBI agents (the ones who had provoked the whole incident) and a member of the American Indian Movement (a group actively fighting for Native American rights at the time) lay dead. As always, no one cared about the death of the Native man, but the death of the two FBI agents called for harsh retaliation.
Three people were targeted. The first two arrested, Bob Robideau and Dino Butler, were given a fair trial, acquitted by a judge who declared that there was no evidence against them, and even if they had been involved, it would have been a case of self-defense. That day, 35,000 rounds were fired, most of them by agents who arrived at the scene shortly after the initial clash.
Leonard Peltier was arrested on February 6th in Canada. The U.S. secured his extradition using false evidence and subsequently held a trial in a different city (Fargo), with a different judge (known for his racist reputation) and an all-white jury. It didn’t take long for them to achieve what they wanted: two life sentences for Peltier.
They had found their scapegoat, and at the age of 31, Peltier entered prison, where he would remain into his eighties.
Campaigns for his release began immediately. It was evident to everyone that the trial had been a farce, the evidence unreliable, and new evidence in his favor was systematically rejected. However, it was the FBI that kept the door shut all these years.
The fight for his release required time, energy, and effort from hundreds of people across the globe, who worked to ensure this case didn’t fade into obscurity. Hundreds of thousands of signatures were collected, many from prominent figures (too many to list). There were dozens, even hundreds, of vigils, marches, protests, sit-ins, murals, articles, songs, appeals, and countless postcards and online messages sent to the White House. The momentum would often peak toward the end of each president’s term, with slightly higher hopes during Democratic administrations.
Clinton came close to granting clemency but was stopped by a march of 500 FBI agents and their families, who made their voices heard specifically on Peltier’s case. Obama was the bitterest disappointment—not just for us, but one can only imagine how devastating it was for Leonard himself.
And so he remained, for 49 years, in a maximum-security prison. His health steadily declined, but his spirit never wavered. He continued to fight, support his brothers and sisters in their struggles, and resist, all while being thousands of miles away from his loved ones.
Personally, I started regularly campaigning for his release 14 years ago. In Barcelona, we formed a solidarity committee that organized dozens of actions. When I moved to Milan eight years ago, we resumed efforts there, gathering over 50 people at the final vigils outside the U.S. Consulate.
Meanwhile, we tried everything, knocking on countless doors, but only alternative and radical media platforms gave us any space.
My journey began with Peltier’s incredible autobiography, My life is my Sun Dance (which became unavailable after its first edition 25 years ago). We also relied on Edda Scozza’s excellent book The courage to be Indian (Il coraggio d’essere indiano, published by Massari Editore, 1991, 1997, 2006) and, more recently, Andrea Galafassi’s documentary Mitakuye Oyasin [«Everything is interconnected»», traditional prayer of the Lakota Sioux], which was screened across Italy.
The goal was to ensure that “the sponge” was never thrown to the ground. It wasn’t easy. While participation in the U.S. ebbed and flowed - sometimes robust, sometimes fractured - even in countries like Germany, Italy, France, Switzerland, and Belgium, every effort was made to keep the spotlight on his case. A significant boost in Italy came from the Viterbo Peace Center, tirelessly led by Peppe Sini over the last five years.
In short, Biden truly seemed like the last hope, and it appeared the case would end with yet another rejection. It was a last-minute twist that led to Peltier being granted house arrest—although not yet implemented due to bureaucratic delays.
Anger and sadness still linger over this story: the fact that Peltier was denied a full pardon, the lack of progress for Mumia Abu-Jamal (often linked with Peltier), and the realization that the core obstacle has always been the FBI—not public opinion, judges, lawmakers, or even presidents.
When we heard about his upcoming release and Biden’s signature, emotions ran high. Ultimately, the joy prevailed, especially hearing words of celebration from Native communities in the U.S. and Peltier himself. Listening to his voice on the phone, he sounded joyful and ready to embrace life in freedom.
This journey has taught so much to those involved. It revealed the immense power wielded by authorities and the sheer number of their enablers. It also highlighted how resistance requires perseverance, preparation, refined tools, and determination.
It’s certain that if we on the outside managed to keep resisting, it was thanks to Leonard’s strength—his constant messages of courage, kindness, and thirst for justice. Perhaps Peltier also managed to endure inside because he knew that, on the outside, we never abandoned him.