L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

PER SAPERNE DI PIÙ CI SONO UNA COLLANA DI LIBRI E UN BLOG IN VARIE LINGUE…

ČESKÝDEUTSCHΕΛΛΗΝΙΚÁENGLISHESPAÑOLFRANÇAISPOLSKIPORTUGUÊSРУССКИЙ

lunedì 25 agosto 2025

ANTIEBRAISMO E GENOCIDIO

Una moderna «accusa di sangue»

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH


Si tratta di un quadruplice antiebraismo. Perché quadruplice? Rispondo, anticipando la conclusione.

1) Perché l’accusa di «genocidio» al governo di Netanyahu non ha fondamento né riconoscimento giuridico. La s’impiega per diffamare l’ebraismo israeliano e ostacolare la sua lotta di sopravvivenza contro vari fronti d’aggressione (all’inizio 7, ora un po’ meno...).

2) Perché sminuisce e in fondo ridicolizza i tre grandi genocidi della storia moderna: l’armeno, l’holodomor ucraino e l’Olocausto/Shoah (per il quale fu coniato appositamente il termine giuridico da un giurista ebreo).

3) Perché fornisce copertura alle reali intenzioni di chi un genocidio antiebraico lo ha in programma davvero e da tempo, e spera di attuarlo con le armi del terrorismo (Hamas, Hezbollah e altri integralisti islamici) o, appena possibile, con ordigni nucleari (Iran).

4) Perché chi la vive come trasgressione, in realtà è vittima di una moda (fad, craze in psicosociologia) destinata a estinguersi. L’eccitazione nel rovesciare l’accusa sul popolo che ne è vittima per antonomasia, è una forma di sadomasochismo. Molto diffusa in ambienti di «sinistra» reazionaria e antioccidentalista, ha conseguenze devastanti per la cultura del mondo «progressista».

Parlare di «antiebraismo» (che nell’uso corrente e internazionale, purtroppo, è anche «antisemitismo») nel primo secolo di questo terzo millennio non è facile. Quasi duemila anni di persecuzioni, manifestatesi in ère e contesti storici diversi, concorrono a rendere quasi impossibile una definizione adeguata del moderno antiebrei. Non se ne può tracciare un modello, perché nella sua struttura caratteriale sono radicati, in gradi diversi, pregiudizi del passato, mentre ne sorgono di nuovi, provocati soprattutto dalla politica dello Stato d’Israele.

Uno Stato che è ebraico per un’autoproclamazione di derivazione sionista, ma in cui, secondo dati del 2022, la componente araba è del 21,1%, altre affiliazioni religiose (cristiani, drusi ecc.) del 5,3 e quella ebraica del 73,6 (quindi poco meno di due terzi). Per giunta, dire componente « ebraica» non è facile per le grandi differenze esistenti anche tra gli ebrei, a seconda della provenienza geopolitica (sefardita, ashkenazita ecc., esteuropea, nordafricana, statunitense ecc.), ma anche della specifica corrente religiosa ebraica di appartenenza.

A ciò si aggiunga il fatto molto positivo per cui, nel 2015, circa il 65% degli israeliani si definiva non-religioso, incluso un 8% di atei (Win/Gallupp International). Successive altre fonti mostrano tendenze contraddittorie, ma non mutamenti significativi. Dati, comunque, che non hanno alcun interesse per gli antiebrei, convinti che sono pur sempre «i maledetti ebrei» (e non casomai i «maledetti israeliani») a fare le scelte del governo Netanyahu.

Ebbene, volendo aggiornare in termini di categorie politiche la definizione del nuovo antiebraismo - sintetica, ma di facile verifica pratica - si possono adottare tre criteri fondamentali:

1) L’antiebraismo/antisemitismo di chi continua a non riconoscere la legittimità dello Stato d’Israele, benché sia nato dalla ripartizione che l’Onu stabilì con la 181 nel 1947, adottata a grande maggioranza, col voto contrario quasi solo di paesi islamici. Costui nega al popolo ebraico, ma di fatto solo al popolo ebraico, il diritto ad avere un proprio Stato. Questo tipo di antiebraismo si caratterizza con mugugni del tipo «si però quella decisione non fu del tutto legittima», perché... E seguono le più varie spiegazioni che in genere denotano solo l’ignoranza storiografica di chi le formula - quando non ci si limita a rinviare ai «magici» link di Internet, quelli che risparmiano la fatica di leggere libri, documentarsi e argomentare in prima persona.

2) L’antiebraismo/antisemitismo di chi nega a Israele il diritto a difendersi. Qui il problema si complica perché l’antiebrei (che ritiene che Israele non avrebbe dovuto reagire militarmente e si sarebbe dovuto arrendere dopo il pogrom del 7 ottobre) si può confondere con chi critica (più o meno severamente) il governo israeliano per il modo in cui ha esercitato il sacrosanto diritto all’autodifesa dopo l’aggressione di Hamas.

Io, per esempio (senza essere l’unico), ho scritto più volte che per liberare gli ostaggi, invece di bombardare il povero popolo gazawi, sarebbe stato più efficace lanciare un ultimatum all’Iran - il principale Stato che sostiene Hamas - e poi bombardare uno alla volta i suoi siti strategici. Si sarebbero liberati subito gli ostaggi e probabilmente sarebbe anche caduto il peggior regime reazionario che esista al mondo. Ciò non fa di me un antiebrei, né un antisraeliano, ma solo un severo critico del governo Netanyahu per il modo in cui ha gestito la guerra contro l’aggressione di Hamas e per la necessaria e irrinunciabile liberazione degli ostaggi.

3) L’antiebraismo/antisemitismo di chi non ha capito che da quando esiste Israele sono gli israeliani (in particolare i loro governi) e non «gli ebrei» a mettere in pratica la politica nei riguardi dei palestinesi, giusta o sbagliata che sia. L’antiebrei attuale continua a prendersela con gli ebrei, se non addirittura con l’ebraismo in generale o con gli ebrei di altre parti del mondo, spesso nascondendosi dietro gli slogan ormai anacronistici dell’antisionismo. Ciò perché un blocco mentale gli impedisce di considerare gli israeliani una moderna nazione a sé, includente una forte componente ebraica, ma non identificabile con l’ebraismo israeliano e meno che mai con l’ebraismo del resto del mondo.

Basti pensare alle divergenze politiche che separano la quasi dozzina di partiti presenti nella Knesset, dall’estrema destra dell’Otzma Yehudit alla sinistra del Hadash-Ta’al, senza contare la quarantina di formazioni minori che non hanno un seggio in Parlamento, benché in Israele si voti col più democratico dei sistemi elettorali: il proporzionale. Un proliferare di partiti e partitini in uno Stato relativamente giovane, che mentre dimostra il carattere dinamico della democrazia israeliana, ne fa anche una delle democrazie più avanzate al mondo. Al punto che, mentre il paese è impegnato in una guerra per difendersi dalla minaccia di sterminio, avvengono manifestazioni antigovernative e si convocano scioperi generali. Un caso unico nella storia umana, che ha un corrispondente solo nell’odierna Ucraina, dove si può manifestare - e con successo - nonostante l’ aggressione russa.

Tuttavia, in queste tre forme moderne di antiebraismo apparentemente «politico» - attualmente in grande espansione anche a causa di alcune scelte sbagliate compiute dal governo Netanyahu dopo il pogrom del 7 ottobre - confluiscono tracce e pregiudizi di più antica provenienza, addirittura originarie dell’antiebraismo storico.


Antiebraismo teologico e biblistico

domenica 10 agosto 2025

81° anniversario dell’Eccidio nazista della Romagna nel comune di San Giuliano Terme

Il dovere della memoria storica, unico antidoto contro gli odierni rigurgiti nazi-fascisti. I lavori ed il podcast realizzati dagli studenti tramite il progetto “Contemporanea..mente”


prof. Andrea Vento

Il contesto storico

Durante la Seconda Guerra mondiale, nel corso dell’estate del 1944, gli alleati dopo la liberazione di Roma del 4 giugno, erano rapidamente avanzati verso nord, tant'è che a fine giugno-inizio luglio avevano già conquistato la parte più meridionale della provincia di Pisa. Tuttavia, nel corso del mese di luglio l’avanzata della V Armata statunitense, operante sul versante tirrenico della penisola, subì un brusco rallentamento per essere poi fermata a sud dell'Arno dalla tenace resistenza tedesca.

 

La drammatica estate del 1944: l’Arno Stellung e il fronte bloccato sull’Arno

libro del prof. Fascetti, Campano edizioni 2024
Il comando dell'esercito nazista in Italia aveva infatti predisposto una linea difensiva fortificata lungo la sponda settentrionale dell'Arno, denominata Arno Stellung (immagine 1), oltre ad aver abbattuto i ponti sullo stesso corso d'acqua, al fine di impedirne il superamento e il proseguimento dell'avanzata verso Nord. Ciò anche in considerazione della ben più imponente linea fortificata, la famosa linea gotica, edificata poco più a nord lungo lo spartiacque appenninico fra Carrara e Rimini.

Mentre i combattimenti fra i due eserciti nell'agosto del 1944 raggiunsero il loro apice di intensità, una formazione partigiana, la Nevilio Casarosa, operava nella zona del Monte Pisano sovrastante Asciano, mentre le azioni antipartigiane e i rastrellamenti tedeschi vessavano la popolazione civile che in parte era stata costretta a sfollare in varie zone dell'omonimo rilievo per sfuggire ai bombardamenti aerei e ai combattimenti. 

L’Arno Stellung nella sezione occidentale del Monte Pisano era presidiata dalla famigerata 16esima SS-PanzerGranadier Division “Reichsfurher-SS”, comandata dal generale Max von Simon e insediata a Nozzano Castello in provincia di Lucca lungo la valle del Serchio, e dalla 65esima Infanterie-Division, anche nota come “Handgranate” (bomba a mano), la cui sede era stata stabilita presso villa Borri ad Asciano.

La valle del Serchio secondo il comando tedesco rivestiva, non a torto, un’importanza strategica fondamentale in quanto costituiva un passaggio naturale che consentiva di aggirare da ponente il Monte Pisano, In considerazione di ciò il suo presidio venne assegnato alla temibile 16esima SS-PanzerGranadier Division, la quale nel mese di luglio distrusse anche un tratto della ferrovia Pisa-Lucca ivi passante per impedire o quantomeno rallentare l’avanzata della V Armata statunitense.

In questo contesto bellico, l'estate del 1944 si rivelò per la popolazione locale particolarmente difficile, non solo per il rischio dei bombardamenti e la carenza di generi di prima necessità, ma soprattutto per le vessazioni a cui vennero sottoposti dai nazisti a seguito dei bandi emessi, il 17 

giugno e il 1 luglio, dal Feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante in capo delle forze tedesche in Italia, inerenti l'inasprimento della repressione contro le organizzazioni partigiane e i civili.

Nell'agosto del 1944 per sfuggire a combattimenti e bombardamenti, molte famiglie, soprattutto locali ma anche provenienti dai territori limitrofi, erano sfollate in varie località del Monte Pisano subendo, tuttavia, continue incursioni da parte delle pattuglie tedesche.

Fino a che le forze naziste di occupazione insediate nel lungomonte pisano, il 31 luglio, emisero uno specifico bando che imponeva a tutti gli uomini, compresi gli sfollati, validi compresi fra i 15 e i 50 anni di età di presentarsi nell’arco di due giorni presso i comandi militari tedeschi di zona per l’arruolamento “volontario” nelle compagnie di lavoratori.

 

lunedì 28 luglio 2025

«LA PROVINCIA» ORLANDO MARTÍNEZ

por Rafael Pineda

(Repubblica Dominicana)


Un día de marzo del 1975, Joaquín Balaguer mandó a llamar a dos generales para pedirles que les dieran un consejo a Orlando Martínez, el aguerrido periodista jefe de redacción de El Nacional, columnista, director de la revista Ahora.                


Los llamados fueron el jefe de Estado Mayor y el secretario en jefe de las Fuerzas Armadas, Enrique Pérez y Pérez, y Ramón Emilio Jiménez (Milo), a quienes preguntó por qué motivo Orlando Martínez escribía contra su gobierno.    


-Los he mandado a llamar, para que me digan qué es lo que le pasa a ese periodista que está hablando mal de mí por el periódico, ¿qué les han hecho ustedes?, ¿qué es lo que él quiere? Averigüen, a ver si me ayudan a recuperar la tranquilidad.


-Deje eso a nuestro cargo, doctor.  


- Hablen con él, porque ese joven me está dando problemas, y a ustedes también, ¿no se han dado cuenta?  


Presentes,  el general Rafael Mejía Lluberes, asistente personal,  y una  hermana  del  jefe de Estado. 


Los dos generales, dispuestos a callar a cualquier precio la pluma de Orlando Martínez, de allí mismo llamaron a otro general, a Salvador Lluberes Montás (Chinino), jefe de la Fuerza Aérea, a quien Milo Jiménez le preguntó:


- ¿Tú tienes algún personal de confianza que pueda ayudarnos a resolver un problema?  

-Sí, general, ¿cuál problema?


-Es que el presidente está muy bravo con el periodista Orlando Martínez y nos ha pedido que busquemos a alguien que lo pueda aconsejar.     


A lo que Chinino, comprendiendo que esto era una orden de arriba, respondió:


-Sí, general, tengo un equipo de acción rápida; cuento con Fredy Lluberes, usted sabe, ese al que les dicen  “Lluberito”;  también tengo al cabo Mariano Durán, tipo de buena puntería; y al capitán Joaquín Pou Castro…sí… sí…ése… es el de más experiencia, y el más duro del equipo.


-Pero adviérteles que lo único que el doctor quiere es que les den un consejo…  ¡oye bien Chinino!


Días después, Orlando cayó asesinado en Santo Domingo.  Y así fue que se escribió la historia de un crimen de estado.

Aunque nunca compareció ante un tribunal, la sociedad apuntó hacia el presidente Balaguer, pero ayer apenas escuché un testimonio de descargo dado por su asistente.   


Balaguer, quien en ese momento era presidente por cuarta vez, no disparó contra Orlando, ni contra ninguna otra persona. ¿Para qué? Él contaba con buenos profesionales que se ocupaban no sólo de ponerle la mejor corbata, sino de lavarle bien las manos y asumir ellos cualquier responsabilidad ante el juicio de la historia. Esto es lo contado por un testigo de excepción.


Lo que el doctor, quizás, estaba pensando en el momento de hacer la solicitud teniendo como testigos a su hermana  y a Rafael Mejía Lluberes quien, antes de morir en un accidente de tránsito, dio este impactante testimonio a través de una entrevista concedida al periodista Fausto Rosario,  publicada en el canal Acento TV, no era en la muerte de Orlando, sino en que les dieran “civilizadamente” unos palos que lo obligaran a irse del país, a recluirse por invalidez o a dejar de escribir sobre las maldades de su gobierno.  Pero los mensajeros actuaron según su condición, y lo mataron.


50 años después,  La Matas de Farfán, donde nació, se ha convertido, simbólicamente, en la Provincia Orlando Martínez.  Allí el monumento más importante es una espectacular representación de su figura,  dándoles la bienvenida a  los visitantes.


De Balaguer podrán decir que fue un ser mitológico,  que gobernó rodeado de militares vinculados a miles de crímenes, que la Máximo Gómez 25 era su laberinto, que rezaba y  hacía obras caritativas entre  pobladores hambrientos;  regalaba muñecas y bicicletas a niños que lo que necesitaban era educación,  y le hacía concesiones a jerarcas de las sombras; pero nunca que apretara el gatillo para matar a nadie. Menos a un periodista.  


El autor es poeta.

rafaelpinedasanjuanero@gmail.com




Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

domenica 13 luglio 2025

CHE GUEVARA A GAZA

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH - ESPANOL


Un membro brasiliano del comitato scientifico della Fondazione Guevara - acceso sostenitore di Putin e di Hamas - ha messo in Rete quattro articoli apparsi in vari siti che traggono alimento dalla foto che vedete sotto e che rappresenta il Che in visita a Gaza il 18 giugno 1959.

Tre articoli sono scritti da persone col nome arabo e inneggiano non solo al significato che quella visita avrebbe avuto per il popolo palestinese, ma attribuiscono a Guevara pensieri e possibili dichiarazioni consone con le posizioni che il Che, Castro e Cuba avranno effettivamente, soprattutto dopo la fondazione dell’OLP nel maggio 1964.

Quello che nessuno dei 3 articoli dice, tuttavia, è che a giugno del 1959 il Che non avrebbe potuto accennare nemmeno di sfuggita al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese-gazawi o a una sua indipendenza, perché a quell’epoca Gaza era una colonia dell’Egitto. Sì, proprio una colonia, occupata militarmente nel 1948 e che l’Egitto (anche dopo l’avvento di Nasser) aveva rifiutato di annettere, cioè di farla diventare parte del proprio Stato. Resterà sua colonia fino alla Guerra dei sei giorni (1967), quando diventerà una colonia israeliana, fino all’indipendenza del 2005, per la prima e ormai ultima volta nella storia del popolo gazawi.

(Per inciso: volesse Allah che ci fosse stata l'annessione! oggi Gaza sarebbe nuovamente una regione egiziana - l’ultima volta lo era stata sotto la celebre regina Cleopatra - che vivrebbe né male né bene e riconoscerebbe lo Stato d’Israele attraverso le scelte del governo egiziano, non sarebbe nato Hamas, l’Iran avrebbe avuto una postazione antisraeliana in meno e non sarebbero morte decine di migliaia di gazawi, oltre alle vittime del terribile pogrom.)

Dopo il 1948 l’Egitto aveva creato a Gaza un Protettorato e un Governo Pan-Palestinese, vòlto soprattutto a controbilanciare l’espansionismo della monarchia della Transgiordania, che già si stava impadronendo del West Bank.

Ebbene, a giugno del 1959 (non riesco a trovare se fu prima o dopo la visita del Che, fu comunque lo stesso mese), essendosi nel frattempo sciolto il Protettorato - assorbito nella neonata RAU (Repubblica Araba Unita) - Gaza fu messa sotto l’Amministrazione militare egiziana, con gestione amministrativa affidata all’esercito egiziano. Il Che, quindi, stava visitando una colonia dell’Egitto occupata militarmente, della quale non poteva certo chiedere l’indipendenza (ammesso che fosse giusto farlo…).

Come conoscitore del Che e di quel suo primo viaggio diplomatico all’estero, posso aggiungere che gli erano stati affidati soprattutto compiti di apertura di relazioni commerciali (vendita dello zucchero) e di riconoscimento del nuovo governo cubano, al potere da soli sei mesi. Insomma, non stava tessendo reti per future attività rivoluzionarie, come invece farà in viaggi successivi, soprattutto in quello afroasiatico del 1964-65.

Il quarto articolo messo in Rete con precisi intenti antisraeliani mi ha lasciato perplesso e temo che il brasiliano non lo abbia letto. Anzi, non si è nemmeno reso conto che uno che si chiama Yoav di-Capua, con un cognome molto diffuso tra gli ebrei romani, non può che essere di famiglia o discendenza ebraica. Si tratta in effetti di uno studioso di arabistica, docente presso una università del Texas, il quale - attratto da questo episodio nella vita del Che - ha voluto approfondire l’argomento.

Dopo aver verificato che nulla si trova negli archivi israeliani ed egiziani, di-Capua ha esaminato la stampa dell’epoca scoprendo con stupore che la visita del Che era stata pressoché ignorata dalle autorità egiziane, che c’era stata una sua visita a campi profughi e che alla cena ufficiale - fatta con la delegazione brasiliana presso l’Onu - non aveva partecipato neanche un feddayn. Insomma, quella visita di protocollo era stata passata quasi sotto silenzio, anche perché Guevara tutto sommato era ancora un illustre sconosciuto e agli egiziani tutto interessava meno che essere associati alla Rivoluzione cubana. Anche la foto che si vede sotto non è mai apparsa ufficialmente, pur essendo tutto ciò che ci resta di quella «storica» visita in cui il Che avrebbe inalberato a Gaza la bandiera della resistenza palestinese.


Frugando in questi materiali apologetici sul versante palestinese, mi sono imbattutto in una cosa che avrei dovuto prevedere, ma che ora vi comunico ufficialmente.

Come la storiografia araba fa partire la Nabka da una presunta aggressione israeliana avvenuta a maggio del 1948 (tacendo il fatto che questa fu una risposta all’aggressione della Lega araba), così la crisi attuale di Gaza viene fatta cominciare dal 9 ottobre, definito esplicitamente come giorno dell’aggressione israeliana. In un articolo ho trovato che questa fu la reazione sionista «all’azione militare di sorpresa» fatta da combattenti di Hamas. Vi prego di soffermarvi sul «militare» mentre il pensiero va a quelle centinaia di poveri giovani che stavano festeggiando un rave, senza immaginare cosa il destino avesse in riserbo per loro. D’ora in avanti, quindi, nei libri di storia filo-Hamas (il che per fortuna non vuol più dire l’intero mondo arabo e forse nemmeno una sua minima parte) la crisi di Gaza verrà fatta iniziare il 9 e non il 7 ottobre.

Concludo infine dicendovi che all’inizio della crisi di Gaza, un compagno romano mi disse polemicamente che oggi il Che starebbe a Gaza a combattere al fianco di Hamas: evidentemente tutto ciò che per anni ho scritto e pubblicato sull’«umanismo rivoluzionario» del Che sembra non esser servito a niente. Quello stesso Guevara, che in «Guerra di guerriglia un metodo», aveva apertamente respinto il terrorismo come forma di lotta, oggi correrebbe dietro a degli ebrei adolescenti, maschi e femmine, per sgozzarli, squartarli e farsi dei selfie mentre compie una tale gloriosa azione...

Povero Che e poveri gli ideali per i quali si è battuto, e che ha riassunto nel suo testamento teorico: Il socialismo e l’uomo a Cuba.



ENGLISH

domenica 29 giugno 2025

Č-109 NEI LAGER DI VORKUTA

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH - FRANÇAIS


A un certo punto Č-109 diventerà M-855. Ma non si pensi a un personaggio inventato da Ayn Rand per il suo celebre romanzo fantapolitico, Anthem, in cui Collettivo 0-0009 dialogava con Unanimità 7-3306 o Alleanza 6-7349 con Fraternità 1-5537. Anche se, volendo, si potrebbe cogliere una qualche affinità nel contesto «sociale», fondato sull’obbligo compulsivo al lavoro di tipo schiavistico e sulla totale spersonalizzazione dell’individuo.

Ma le differenze sono troppe e troppo profonde, a cominciare dal fatto non secondario che Č-109 (poi M-85) - come veniva chiamata normalmente nel lager - è stata una persona reale, che l’esperienza schiavistica l’ha vissuta veramente e che ha sperimentato sul proprio corpo e animo il degrado abissale al quale il sistema staliniano costrinse milioni di detenuti, e che non trova equivalenti nemmeno nella più acre e visionaria letteratura distopica.

Precipitata nell’inferno di Vorkuta - uno dei due più terribili àmbiti concentrazionari sovietici (l’altro fu Kolyma) - e riuscendo ciononostante a sopravvivere, Č-109 ha potuto raccontare in dettaglio la vicenda disumana da lei vissuta. Morta centenaria nel 2023, ci ha infatti trasmesso le sue memorie, raccolte grazie alla figlia Barbara, nel libro La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta. (Tradotto e commentato da Luca Bernardini, per Guerini e Associati [Milano 2024], 176 pagine, oltre a una preziosa appendice iconografica.)

Scorrendo i vari capitoli (identificabili dai titoli), percorriamo un itinerario che, benché già descritto da altri fuorusciti dall’inferno dei lager - per fare un nome italiano basti solo pensare alla vicenda e ai libri di Dante Corneli - ogni volta ci porta, però, a scoprire nuovi dettagli, nuovi orrori (magari fin lì per noi inimmaginabili), insieme alle stupende incredibili risorse umane di cui un individuo può arrivare a disporre nel tentativo disperato di tornare a vedere la luce.

E se si ha un minimo di familiarità con i racconti di sopravvissuti dai lager staliniani, anche in questo caso si noterà come una delle note dominanti, la persistenza del ricordo, del pensiero commosso e retrospettivo verso i compagni di detenzione che invece non sono riusciti a farcela. Certo, si trattava di ben poca parte rispetto ai milioni di esseri umani morti nel Gulag, ma erano presenze fondamentali nel gruppo di solidarietà al quale bisognava necessariamente appartenere, se si voleva mantenere una base pur minima di autoconsapevolezza personale e di appiglio alla realtà. Ma anche per affrontare in maniera «organizzata» il tormento quotidiano della fame, della fatica, del gelo, dei sorveglianti, dei criminali comuni padroni delle vite e dei «beni» più elementari dei detenuti, delle punizioni arbitarie e sadiche.

A distanza di tanti decenni dalla fine di un passato che sembra non finire mai - dato che i lager esistono ancora, per es. in Cina e Nordcorea, mentre in Russia si continua a morire come ai tempi del Gulag sovietico, se si è oppositori (si pensi solo all’uccisione di Aleksej Naval’nyj) - riviviamo un’ennesima tragica epopea. Un’epopea che nel 1945 vide entrare nel Gulag una ventiduenne, col nome falso di Anna Norska (subito sostituito da Č-109), e uscirne trentatreenne (nel 1956) col suo vero nome: Anna Szyszko, poi Szyszko-Grzywacz, dopo il matrimonio con un compagno di lager, teneramente affezionato e molto presente nelle memorie.

I tormenti descritti sono da film dell’orrore, soprattutto nella prima parte del libro e nei primi anni di detenzione (il dopoguerra degli anni ‘40), durante i quali Anna fu sottoposta alle umiliazioni più rivoltanti e rischiò più volte di morire. Tali orrori corrispondono pienamente agli altri racconti che abbiamo potuto leggere sull’esperienza nei lager. E questa, casomai ce ne fosse bisogno, è una dimostrazione ulteriore della disonestà intellettuale di chi ha negato e continua a negare la tragica veridicità dei racconti sulla vita nei campi del Gulag.

Ma il racconto di Anna può interessarci in modo particolare per tre aspetti ai quali voglio rapidamente accennare.

Il primo può sembrare tautologico, ed è il fatto che la narratrice è una donna. Non che manchino memorie scritte da donne passate attraverso la sofferenza del Gulag: Evgenija Solomonovna Ginzburg, Margarete Buber-Neumann, Elinor Lipper, Maria Ioffe, Evfrosinija Kersnovskaja e altre. Ognuna di esse ha in qualche modo trasmesso la testimonianza, se non la prova documentale, che nei lager sovietici (ma probabilmente nei lager di tutto il mondo) l’esser donna poteva trasformarsi in un’aggravante, soprattutto se giovane. Lo schiavismo sessuale era una regola spietata alla quale ci si poteva sottrarre solo scegliendo di morire o, detta più precisamente, scegliendo di non sopravvivere.

Anna dedica molte pagine a descrivere i traffici su basi di mercimonio sessuale, imposto in primo luogo dai malavitosi (i blatnjaki) - criminali incalliti e capi assoluti della vita «sociale» nei lager - e in sottordine dai guardiani. Ma non mancano sopraffazioni anche da parte degli stessi detenuti, descritti a volte in scene di autentica disperazione, quasi bestiale, indotta dalla mancanza di rapporti con donne. A tali aggravanti sessuali dello schiavismo lavorativo non ci si poteva sottrarre e le descrizioni che ne fa Anna sembrano in un certo senso renderle quasi una componente «normale» della vita nel lager e nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. 

Il secondo aspetto distintivo è che Anna era una detenuta politica. Non una classificata come «trotskista» (per sua fortuna, perché ciò l’avrebbe posta al fondo della ferocia repressiva esplicitamentre prevista dalla legge concentrazionaria), ma come partigiana, attiva nelle file della resistenza che il popolo polacco oppose alla prima e alla seconda invasione sovietica. Il suo ruolo militare era stato di fuciliera a cavallo [con mitra] e si era svolta in ambienti silvani. Purtroppo le memorie, essendo dedicate agli anni della prigionia, non approfondiscono quest’aspetto che invece sarebbe stato affascinante da sviluppare, sia per la «specialità militare» in quanto tale, sia per il contesto resistenziale (di banda) in cui si era svolta.

E il discorso sulla resistenza ci porta al terzo aspetto distintivo: Anna era polacca, assolutamente fiera di esserlo. Nell’intero racconto scorre come un filo rosso il tema della patria lontana, dell’appartenenza a una cultura nobile e antica (basti pensare alle opere o personaggi letterari che vengono citati in vari momenti) e dell’affinità umana con le detenute polacche (qui necessariamente al femminile) con le quali si trova a condividere giacigli, cibo, funzioni fisiologiche, ma anche attaccamenti affettivi e mutua comprensione.

Sentimenti affettuosi vengono espressi anche verso membri di altre nazionalità sottoposte alle dittature sovietiche: soprattutto ucraini (orientali e occidentali), bielorussi (la cui lingua Anna parlava correntemente) estoni, lituani, lettoni, anche armeni ecc. Ma nulla di paragonabile alla passione con cui essa si rivolge alle sue compagne polacche e ai sacrifici ai quali essa si sottopone pur di restare o tornare a stare con loro. 

A questo punto, però, bisogna fermarsi a considerare il retroterra politico in cui si svolge la vicenda di Anna, al quale lei accenna a tratti, ma senza dargli l’importanza che merita, e che io invece desidero sottolineare. Anna finisce nel lager per aver preso parte a un’esperienza che storicamente fu resa possibile solo in Polonia (e in minor parte col banderismo [da Stepan Bandera] ucraino). E cioè nel fatto che la resistenza armata si svolse contemporaneamente contro i nazisti e contro i sovietici. Ciò fu dovuto al famigerato patto di Stalin con Hitler (Molotov-Ribbentrop) che ad agosto 1939 sancì l’alleanza tra i due regimi totalitari, preparando l’invasione congiunta della Polonia, la sua ennesima spartizione e di fatto l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Con la duplice invasione di settembre 1939, i partigiani polacchi si erano trovati a combattere su due fronti: contro i nazisti e contro i sovietici, alleati fra loro per affinità totalitarie e mire di espansionismo territoriale. Una simile esperienza - di combattere contro nazisti e sovietici allo stesso tempo - sarebbe stata impensabile in Italia, per ovvi motivi geopolitici. Anna invece crebbe in quel mondo e, leggendo con attenzione le sue pagine, si riesce a cogliere che per lei il concetto di «resistenza» era univoco: fossero nazisti o staliniani, erano pur sempre i nemici del suo popolo e contro di essi aveva cominciato a combattere non ancora ventenne.

Una scelta condivisa con tante altre donne polacche, molte morte in combattimento: scelta politica che a lei costò il sacrificio dei migliori anni della gioventù. Ma dal libro non traspaiono recriminazioni né pentimenti.



ENGLISH

giovedì 26 giugno 2025

Ukraine. Qu’est-ce qui empêche la fin de la guerre?

Vitalyi Dudin

[juriste et membre de la direction de Sotsialnij Rukh (Mouvement social). Kyiv, 9 juin 2025]


FRANÇAIS - ITALIANO - ENGLISH


Deux problèmes principaux 


Malgré quelques espoirs, la guerre d’agression russe contre l’Ukraine se poursuit et se fait plus intense. Chaque jour, je vois des images épouvantables de destructions massives dans ma ville natale, Kyiv, à Kharkiv et dans d’autres magnifiques cités, qui étaient difficiles à imaginer. Ces scènes, dignes d’un film de catastrophe, font partie de notre vie quotidienne. Les endroits où nous nous promenions se transforment en cendres noires et en ruines. 

Pendant ce temps, les envahisseurs russes lancent de nouveaux assauts non seulement à l’est et au sud, mais aussi au nord, dans la région de Soumy. Ici, en Ukraine, le conflit a vraiment les caractéristiques d’une guerre populaire en raison de l’ampleur de la participation de la population à l’effort de guerre: plus d’un million de personnes servent dans l’armée, un peu plus sont engagées dans les secteurs des infrastructures critiques et beaucoup d’autres sont impliquées dans des activités volontaires.

Les négociations d’Istanbul cachent les plans expansionnistes de Moscou et ne pourront guère réussir (voir ci-dessous). 

Mon existence même en tant que civil et en tant que militant des droits du travail a changé radicalement. Je reçois des messages de travailleurs des chemins de fer qui ont besoin d’argent pour les drones et d’autres équipements; les proches des salariés décédés à la suite d’attaques de missiles sur leur lieu de travail me font part de leurs problèmes pour obtenir des aides sociales ; les infirmières près de la ligne de front se plaignent de ne pas recevoir les primes promises. Parfois, nous réussissons à surmonter de tels défis, mais nous voulons tous que la guerre se termine le plus rapidement possible. 

Bien sûr, la résistance héroïque des défenseurs ukrainiens et les opérations spéciales étonnantes sur le territoire russe ont beaucoup contribué à affaiblir la machine de guerre du Kremlin. Mais après avoir perdu le soutien militaire américain, les chances d’une victoire stratégique de l’Ukraine se sont réduites. 

Les négociations d’Istanbul ont clairement montré que la position ukrainienne est désormais beaucoup plus souple pour tenter de chercher une solution pacifique (cessez-le-feu de 30 jours, par exemple). Au contraire, les exigences russes se font plus offensives et agressives. Grâce à Donald Trump, la Russie a repris l’initiative sur le champ de bataille et cela reflète une réalité objective. L’impossibilité de mettre fin à la guerre vient de la faiblesse de la position de l’Ukraine dans les négociations et elle ne peut être surmontée par une mobilisation plus importante des hommes sur le front. 

Alors quels sont les facteurs qui rendent l’Ukraine plus faible ? 


Problème n° 1 – Le pseudo-pacifisme qui sévit parmi les forces progressistes occidentales 

Ce premier problème est extrêmement douloureux pour moi. Beaucoup de gens, dans le mouvement socialiste, ne veulent traditionnellement pas aborder des questions telles que la violence, l’État et la souveraineté. Cela les conduit à une mauvaise compréhension de la situation ukrainienne. Certains ne reconnaissent pas la nature décoloniale et anti-impérialiste de la lutte ukrainienne. Leur analyse se base sur une vision dépassée du système international où les États-Unis étaient considérés comme le seul impérialisme et où la Russie était représentée comme leur victime. Et même si Donald Trump dit «comprendre» chaleureusement le sentiment impérialiste de Poutine, cela n’a pas changé les conclusions que tirent ces personnes qui se prétendent des intellectuels de gauche. Les régimes les plus réactionnaires de l’histoire de l’Amérique et de la Russie exercent une pression énorme sur l’Ukraine aujourd’hui, tandis que certains cherchent des arguments pour justifier qu’une nation attaquée ne mériterait pas de soutien international. Je suis curieux de savoir comment les protagonistes de la théorie de la « guerre par procuration » s’arrangeront avec le fait que l’Ukraine continue de se battre sans l’aide directe des États-Unis et même malgré des actions hostiles de la part ce pays. 

Beaucoup de militants de gauche s’opposent au soutien militaire à cause de leur éthique antimilitariste. Et apportent une excuse philosophique sophistiquée afin de ne pas envoyer d’armes à un pays envahi, provoquant plus de souffrances parmi les innocents. La contradiction d’une telle posture devient particulièrement absurde lorsqu’elle est avancée par ceux qui prétendent être des révolutionnaires ou des radicaux... Pour moi, il est évident que de tels rêveurs veulent avoir une vie tranquille à l’intérieur d’un système capitaliste sans tenter réellement de le renverser. Être contre les armes revient à se réconcilier avec le fléau de l’esclavage.

Vivre sous la protection de l’OTAN et avoir peur d’une «militarisation excessive» de l’Ukraine ressemble à de l’hypocrisie. 

À l’inverse : si les travailleurs ukrainiens remportent la guerre, ils se verront encouragés pour poursuivre une lutte émancipatrice pour la justice sociale. Leur énergie renforcera le mouvement ouvrier international. Expérience de la résistance armée et de l’action collective: voilà une condition préalable clé pour l’émergence des véritables mouvements sociaux qui défieront le système.

 

Problème n° 2 – L’incapacité de l’État ukrainien à placer les intérêts publics au-dessus des intérêts du marché 

Les élites dirigeantes en Ukraine encouragent le libre marché et le système basé sur le profit comme seul moyen possible d’organisation de l’économie. Toute idée de planification de l’État ou de nationalisation des entreprises doit, pour eux, être rejetée car faisant partie du patrimoine soviétique. Le problème est que la version ukrainienne du capitalisme est totalement périphérique et incompatible avec la mobilisation de ressources nécessaires à l’effort de guerre.

Le dogmatisme idéologique dominant place l’Ukraine dans le piège d’une économie primitive et qui dépend largement de l’aide étrangère. 

Nous vivons dans un pays d’hommes d’État riches et d’un État pauvre. Le gouvernement essaie de limiter sa responsabilité dans la gestion du processus économique et d’éviter d’imposer un impôt progressif élevé sur les riches et les entreprises. Cela conduit à une situation où le fardeau de la guerre est supporté par des gens ordinaires qui paient des impôts sur leurs petits salaires, qui servent dans l’armée, qui perdent leurs maisons... 

Il est impossible d’imaginer qu’il y ait du chômage pendant la guerre à grande échelle. Mais en Ukraine, cela existe avec un niveau extrêmement élevé d’inactivité économique de la population ainsi qu’une pénurie incroyable de maind’œuvre. Ces carences peuvent s’expliquer par la réticence de l’État à créer des postes de travail et à l’absence de stratégie visant à impliquer massivement les gens dans l’économie dans des centres d’emploi. Nos politiciens pensent que les dysfonctionnements historiques du marché du travail peuvent être résolus sans une ingérence active de l’État! Malheureusement, 

les réformes dans le sens de la déréglementation en temps de guerre ont créé une multitude de contre-incitations qui démotivent les Ukrainiens à l’heure de chercher un emploi salarié. Voilà pourquoi la qualité de l’emploi devrait être améliorée en augmentant les salaires, avec de véritables inspections du travail et de vrais espaces de démocratie sur le lieu de travail. 

Seule une politique socialiste démocratique pourra ouvrir la voie à un avenir durable pour l’Ukraine, où toutes les forces productives travailleraient pour la défense nationale et une protection sociale juste.

 

Et maintenant, nous pouvons aller droit au but 

Sans un soutien militaire et humanitaire à la hauteur, l’Ukraine ne pourra pas protéger sa démocratie et sa défaite affectera les libertés politiques partout dans le monde. Par ailleurs, nous devons rester critiques envers les responsables gouvernementaux ukrainiens et leur refus d’en finir avec le consensus néolibéral qui sape l’effort de guerre. Il sera particulièrement difficile de gagner une guerre contre un envahisseur étranger si nous avons beaucoup de problèmes internes, à cause d’une économie capitaliste dysfonctionnelle.


(Soutien à l’Ukraine résistante, publiée par les Brigades éditoriales de Solidarité et Utopie Rouge, n° 39-40, 1er Juillet 2025)



ITALIANO

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.