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sabato 4 luglio 2020

LEZIONI E NON DALLA STORIA: DALLA FEBBRE GIALLA A COVID-19

di Michele Nobile 

Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo, n. 3. 
Segue a: n. 1 «Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo. Introduzione», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/06/dialettica-di-una-pandemia-capitalismo.html; n. 2 «La pandemia di covid-19 come sintomo di una nuova transizione epidemiologica», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/06/la-pandemia-di-covid-19-come-sintomo-di.html

1. Della febbre gialla: rivoluzione sociale e medicina coloniale e postcoloniale
2. Delle pandemie di colera, malattia sporca, straniera e delle classi inferiori
3. Della gestione politica della pandemia moderna di peste bubbonica, 1894-1947
4. Dell’influenza detta «spagnola», ovvero del super-killer mondiale e del cinico cretinismo contemporaneo

1. Della febbre gialla: rivoluzione sociale e medicina coloniale e postcoloniale
Nell’ultimo decennio del XVIII gli schiavi di Haiti realizzarono la liberté e l’egalité nell’unico modo di cui disponevano: con la ribellione armata. È così che riuscirono a compiere una vera rivoluzione sociale - l’abolizione della schiavitù - che nello stesso tempo era la prima lotta di liberazione nazionale vittoriosa di una popolazione coloniale non europea e il primo territorio liberato dell’America latina, piattaforma di lancio delle lotte per la libertà delle colonie del continente. Per riuscirci dovettero sconfiggere due spedizioni militari inviate a conquistare l’isola, una britannica e l’altra francese. In questo vennero aiutati dalla febbre gialla, che decimò le forze d’invasione europee estremamente vulnerabili alla malattia1.
Richard Levins et al., 
«The emergence of new diseases», 
American scientist, vol. 82, n. 1, 1994, p. 56
La febbre gialla non colpiva solo i Caraibi: via nave raggiungeva anche il Nordamerica e l’Europa. Nell’estate del 1793 una grave epidemia esplose a Filadelfia, allora capitale provvisoria degli Stati Uniti d’America: uccise il 10% della popolazione, circa 5 mila persone. In agosto il governo federale e il Congresso si allontanarono dalla città, con altre migliaia di persone; quel poco d’apparato federale che esisteva smise di funzionare, tanto che «il presidente Washington, non aveva nessuno che l’informasse o gli portasse rapporti, nessuno con cui consigliarsi e conferire. Il governo federale era svanito» e tornò in città solo a novembre2

La febbre gialla colpì per la prima volta l’Europa nel 1822 a Barcellona: anche lì uccise non meno di 5 mila persone, forse 20 mila. Questo avvenimento portò alla prima legge che regolava le quarantene in Francia, che contemplava la pena di morte3. Ancora nella seconda metà del XIX secolo la malattia ebbe notevole impatto sul commercio internazionale e in importanti città portuali su più continenti. Ad esempio, nel 1849-50 fece 4 mila morti a Rio de Janeiro, quasi 8 mila a New Orleans nel 1852; nel 1857 uccise 5 mila persone a Lisbona, nel 1871 colpì pesantemente Buenos Aires; e tra maggio e ottobre 1878, nonostante quarantene, divieti imposti alle navi provenienti dalla Louisiana, fughe di massa dalle città, un’epidemia di febbre gialla si estese da New Orleans attraverso la valle del Mississippi, diramandosi da Cairo (Illinois) anche lungo i fiumi Ohio fino a Pittsburgh e Tennessee fino a Chattanooga: non meno di 100mila infezioni e almeno 20mila morti. 
La causa della febbre gialla rimase sconosciuta fino a quando, tra il 1865 e gli anni Ottanta, il medico cubano Carlos Finlay non puntò il dito verso la zanzara Aedes aegypti; tuttavia, gli studi di Finlay ebbero effetto pratico soltanto quando Walter Reed dimostrò inequivocabilmente il nesso causale tra malattia e zanzara, indagando la mortalità delle truppe statunitensi che avevano occupato Cuba durante la guerra ispano-americana del 1898. Su questa base, nel 1901 la forza d’occupazione statunitense iniziò un programma d’eliminazione della malattia e del vettore dall’isola. Il successo fu temporaneo, ma l’esempio venne ripreso su più vasta scala durante lo scavo del Canale di Panama, affidato nel 1908 da Theodore Roosevelt al corpo del genio dell’esercito statunitense, che ottenne quello che allora venne celebrato come il più grande successo sanitario della storia: l’eliminazione della febbre gialla e della malaria dalla zona del Canale. 
Le operazioni sanitarie degli Stati Uniti a Cuba e Panama furono il prototipo delle successive operazioni sanitarie nei territori coloniali: gestite dall’alto, con un obiettivo specifico, condotte in stile militare, non di rado con l’uso della coercizione. In questo senso erano anche parte del regime sanitario internazionale come si stava definendo verso la fine del XIX secolo. Tuttavia, questa logica verticale, mirata a uno specifico problema sanitario selezionato tra gli altri, che enfatizza soluzioni tecniche piuttosto che sociali, motivato essenzialmente dagli interessi economici e/o politici delle grandi potenze, è stata componente importante anche del regime sanitario internazionale successivo alla Seconda guerra mondiale e delle grandi campagne sanitarie nei Paesi «in via di sviluppo».
Dal punto di vista delle relazioni tra gli Stati, nel XIX secolo come nel XXI i rischi sanitari sono sempre stati controbilanciati dalla considerazione dei rischi per la continuità dei flussi di capitale. Dal punto di vista della pratica sanitaria, Packard insiste sul retaggio in termini di personale, formazione e metodi trasmesso dalle esperienze della «medicina tropicale» o coloniale all’Organizzazione mondiale della sanità istituita nel 1946, in particolare dalle campagne sanitarie condotte dal governo statunitense (a Panama, Cuba, Filippine) e dalla Fondazione Rockefeller4
Aggiornata, tracce di questa logica si ritrovano nella selective primary health care oggi dominante, un approccio che integra il calcolo dei costi finanziari nella selezione, gestione e valutazione degli interventi sanitari. Il problema, antico, rimane quello della sanità di base accessibile a tutti sull’intero territorio statale, esaltato drammaticamente dall’esplosione di malattie particolarmente virulente o molto contagiose come Covid-19. Il riformismo sanitario dall’alto continua a scontrarsi col fatto che i popoli non hanno il potere di decidere quali siano le priorità sanitarie e vivono in rapporti socioecologici che riproducono le condizioni della disuguaglianza mondiale degli stati di salute e nell’accesso a cure di base. 
Il riformismo sanitario è un aspetto del processo di modernizzazione capitalistica delle società ma, che sia stato tentato in passato dagli Stati coloniali e oggigiorno dai nuovi Stati indipendenti o attraverso la collaborazione tra pubblico e privati, esso appare strutturalmente incapace di realizzare le proprie promesse. È anch’esso preso dalla contraddittorietà dell’economia mondiale: le sue configurazioni storiche mutano, le società si trasformano, tuttavia si riproduce la forma dello sviluppo ineguale-combinato che, a sua volta riproduce i differenziali della salute e della malattia ed, estendendo e accelerando la circolazione mondiale del capitale in tutte le sue forme, crea le condizioni per il riemergere di vecchie malattie e l’emergere di nuove, in alcuni casi con potenzialità pandemiche, come Covid-19. 

2. Delle pandemie di colera, malattia sporca, straniera e delle classi inferiori
È possibile che la prima grande fuga del colera dal delta del Gange sia stata conseguenza delle estreme variazioni climatiche provocate dall’eruzione esplosiva del vulcano Tambora (in Indonesia) nel 1815 - l’evento maggiore di questo tipo degli ultimi 10 mila anni - che in India provocò grandi piogge, alluvioni e carestia. Anche adesso, «il riscaldamento delle acque costiere, come periodicamente accade al largo del Perù e del Bangladesh, può agevolare l’ingresso del colera nelle comunità locali attraverso gli alimenti marini»5. Mirko Grmek riporta l’ipotesi che il colera sia emerso come vera e propria nuova malattia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, attraverso la mutazione genetica di un vibrione saprofita, ipotesi che non mi appare alternativa alla prima e che è significativa dei possibili effetti del cambiamento climatico sull’epidemiologia globale6
Del colera si registrano ben sette pandemie, approssimativamente entro queste date: 1817-26; 1828-36; 1839-61; 1863-79; 1881-96; 1899-1947. La settima pandemia è iniziata nel 1961 in Indonesia e dura ancora oggi in Asia, passò in Unione Sovietica con un’epidemia in Astrachan (agosto 1970), in Africa dagli anni Settanta del secolo scorso, in Sud America dal 1991-2, a partire dai 400 mila casi del Perù. 
Durante la prima pandemia, nel 1817 la malattia uccise un terzo delle truppe britanniche impegnate nella terza guerra anglo-maratha in India; tra il 1821 e il 1822 i movimenti dei militari britannici dall’India portarono il colera nel Golfo persico e nell’Arabia meridionale. Le guerre tra gli imperi russo, ottomano e persiano estesero ancora l’epidemia nel Medio oriente, nel Caucaso e sulle sponde del Mar Caspio, raggiungendo la Russia europea (Astrachan); dopo la repressione della rivolta del 1831 da parte delle truppe zariste, il movimento degli esuli polacchi la spinse verso occidente. Il commercio internazionale e i pellegrinaggi alla Mecca contribuirono alla diffusione del colera in Nord Africa, Medio oriente, Europa e nelle Americhe; in Giappone fu conseguenza della forzata apertura al mondo esterno: nel 1857 scese insieme ai marinai del vascello della marina militare statunitense Mississippi, facendo oltre 100 mila morti nella sola regione di Edo. 
In Europa il colera giunse nel 1829, durante la seconda pandemia e, d’allora, epidemie scoppiarono a intermittenza nei quartieri proletari d’Europa, tanto che è spesso considerata la classica malattia epidemica dell’epoca dell’industrializzazione, aggiungendosi ad altre malattie gravi come il vaiolo, il tifo e la tubercolosi. 
Il colera non aveva il carattere universale e perfino escatologico della peste, né il «romanticismo» che poteva associarsi alla diffusa tubercolosi. Era decisamente una malattia dei poveri malnutriti, che vivevano in case sovraffollate e senza acqua corrente, fatto che stimolò sia la filantropia e il riformismo sociale sia il «razzismo» di classe. Era 

«una malattia irrimediabilmente sporca, straniera e delle classi inferiori. Un’epidemia di colera era degradante, volgare e stigmatizzante, sia per le vittime che per la società che tollerava in sé tanto squallore e povertà. Nelle successive pandemie, quando i meccanismi del colera e il suo modo di trasmissione orale/fecale erano stati ampiamente compresi, i rimedi sociali necessari erano chiari e tutt’altro che d’alto livello. Erano necessari fognature, acqua potabile e servizi igienici con acqua corrente, non atti di contrizione o l’intercessione divina7

Il colera è tra quelle malattie infettive che a metà del XIX secolo erano responsabili di metà dei decessi del Paese più avanzato del mondo, il Regno Unito. L’andamento delle infezioni spiega quello delle aspettative di vita, questione connessa alla valutazione dell’impatto sociale del progredire dell’industrializzazione: grosso modo, un peggioramento negli anni Trenta, un miglioramento negli anni Cinquanta, tuttavia insufficiente a recuperare quanto perso nei due decenni precedenti e stagnazione nel successivo decennio; infine progresso dal 1870, specialmente tra le donne e i bambini. 
L’altra faccia dello stigma associato al colera fu che l’epidemia europea dei primi anni Trenta del XIX secolo, 

«fu segnata da una serie di rivolte e disordini in quasi tutti i paesi colpiti. L’opinione popolare non accettava che il colera fosse una malattia sconosciuta, riteneva invece fosse un tentativo di ridurre il numero dei poveri avvelenandoli. Rivolte, massacri e distruzione di proprietà si verificarono in tutta la Russia, attraversarono l’impero asburgico, scoppiarono a Königsberg, Stettin e Memel nel 1831 e si diffusero in Gran Bretagna l’anno successivo, colpendo città distanti come Exeter e Glasgow, Londra, Manchester e Liverpool»8.

Come due secoli fa, il pesante fardello dello sfruttamento e dell’oppressione può produrre razionalizzazioni paranoidi circa l’origine di un’epidemia - che con l’accecamento ideologico dei colti si fanno solo più raffinate e imperdonabili - che vanno dalla tesi del complotto omicida o politicamente destabilizzante alla negazione della realtà dell’epidemia stessa e alla tesi che essa non si tratti d’altro che d’un complotto dei signori per schiacciare ancor di più i poveracci. La semplificazione paranoide è una forma della visione infantile della storia, secondo cui essa è mossa dallo scontro di volontà benigne e maligne, spesso con le seconde viste come pressoché onnipresenti e immediate responsabili d’ogni male. La realtà è più complessa e contraddittoria, perché le misure coercitive messe in atto dal potere per contenere le epidemie ne esprimono il fallimento nel prevenirle e il panico di fronte alle loro conseguenze per gli affari e la legittimità politica; ma direi che in effetti è anche più preoccupante delle razionalizzazioni paranoide e complottistiche, proprio perché le epidemie non sono risultato di atti deliberati - quindi revocabili - ma di condizioni socioecologiche strutturali (certo prodotte dal dominio e dallo sfruttamento) i cui effetti sfuggono al controllo anche del più totalitario degli Stati.  
La pandemia di colera con più ampia estensione planetaria fu la quarta, nella seconda metà del XIX. Coinvolse tutta l’Europa e si verificò mentre si sviluppavano i centri urbani, s’aggravava la «questione sociale», erano ancora in corso i processi d’unificazione dell’Italia e della Germania, la stabilità dell’Impero ottomano veniva corrosa dall’interno e dall’esterno. In particolare, la pandemia si verificò quando la ferrovia era giunta a collegare Alessandria d’Egitto, Cairo e Suez al Mar Rosso e mentre si completava lo scavo del canale di Suez: velocità e dimensioni dei trasporti aumentarono ancora e, con questo, anche la velocità delle epidemie e le possibilità del loro ingresso in Europa. Il primo atto di questa pandemia fu il contagio dei pellegrini a La Mecca: ne morì circa un terzo, 30 mila persone. In quell’arco di tempo epidemie di colera si presentarono più volte nei Paesi europei. Nel solo 1866 morirono 115 mila persone in Prussia - e oltre 33 mila nel 1873 nel nuovo Kaiserreich– e 165 mila nell’impero Austro-ungarico in guerra con la Prussia; altre 190 mila persone morirono in Ungheria nel 1873; in Italia, morirono di colera 130 mila persone, tra il 1866 e il 1867; 30 mila in Belgio; 20 mila in Olanda; 50 mila negli Stati Uniti; in Russia morirono 90 mila persone nel 1866 e 130 mila nelle sole città di Tomsk e Tobolsk nel 1871. Negli anni Novanta l’impatto del colera declinò in Europa occidentale, ma continuò a colpire la Russia tra il 1902 e il 1925: lì l’anno peggiore fu il 1910, con 110.000 morti solo per questa malattia. L’estensione dell’epidemia portò ad allungare e inasprire le quarantene, creando tensioni tra Londra e le altre capitali.
Le epidemie di colera continuarono a verificarsi nella seconda metà del XIX secolo, periodo nel quale si fa iniziare la nuova transizione epidemiologica nei Paesi occidentali, caratterizzata dal ridimensionamento delle malattie infettive. Tuttavia, una lezione che per alcuni decenni è stata dimenticata è che il miglioramento delle condizioni igieniche può avere effetti perversi. È il caso della poliomielite, che verso la fine del XIX secolo divenne più virulenta e iniziò ad acquistare una dimensione epidemica - registrata per la prima volta nell’epidemia di poliomielite di Stoccolma nel 1887 - protrattasi ben addentro il XX secolo: negli Stati Uniti il picco fu nel 1949-1954, con 60 mila casi nel 1952; Franklin D. Roosevelt ne fu colpito a 21 anni e da Presidente fu uno dei fondatori della National foundation for infantile paralysis, organizzazione che fu un modello per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e la raccolta di fondi per finanziare la ricerca medica.
La settima pandemia di colera è caratterizzata dal ceppo vibrio cholerae 01 El Tor, isolato per la prima volta nel 1905. È meno virulento del ceppo classico tuttavia si trasmette più facilmente: 

«molte autorità sanitarie speravano che questa nuova varietà non sarebbe stata in grado di creare una pandemia. Con sorpresa degli esperti, tuttavia, dopo essere stato confinato per ventiquattro anni, la varietà El Tor iniziò un viaggio globale dal suo punto di partenza sull’isola di Sulawesi, in Indonesia, nel 1961. Una volta che iniziata la disperdersione, il biotipo El Tor si dimostrò molto più diffuso del suo cugino classico. La sua capacità di colonizzare più ecosistemi locali ha prodotto l’endemia del colera in Africa e Nord America, un nuovo fenomeno caratteristico della settima pandemia»

Ragion per cui «il colera potrebbe presto diventare la malattia per eccellenza del ventunesimo secolo: un beneficiario della globalizzazione e sensibile alle complessità della biodiversità e dei cambiamenti climatici in modi che si sta solo iniziando a comprendere»9

Tra le ragioni della più recente diffusione del colera sono da annoverarsi i programmi di aggiustamento strutturale nei Paesi «in via di sviluppo», le guerre e le masse di rifugiati che queste producono, i flussi migratori in condizioni disumane. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità,nel 2017 tra il 51% e il 67% dell’umanità (3,8-5 miliardi di persone) non aveva accesso a servizi sanitari essenziali e dal 2005 il tasso di crescita dell’indice per questi servizi è in caduta per i Paesi a reddito basso e medio basso, in area negativa per i primi10. E oltre 2 miliardi di persone non hanno accesso neanche a servizi igienici collegati a un sistema fognario. 
Come nelle città industriali del XIX secolo, nonostante i vanti della tecnologia avanzata, necessità assolutamente elementari come l’acqua potabile e i servizi igienici restano ancora problemi mondiali. Non è che la lezione non sia stata appresa. Si conosce benissimo, ma non basta a rimuovere le condizioni del colera, promosso anche dal cambiamento climatico. La modernizzazione capitalistica e la mondializzazione del capitale non comporta affatto un progresso lineare ed omogeneo della salute e delle aspettative di vita. Per gran parte dell’umanità vale ancora quanto scrisse nel 1845 Friedrich Engels ne La situazione della classe operaia in Inghilterra, che può considerarsi tra i primi testi di medicina sociale e sicuramente tra i più profondi: 

«Se un individuo reca ad un altro un danno fisico di tale gravità che la vittima muore, chiamiamo questo atto un omicidio; se l’autore sapeva in precedenza che il danno sarebbe stato mortale, la sua azione si chiama assassinio. Ma se la società pone centinaia di proletari in una situazione tale che debbano necessariamente cadere vittime di una morte prematura, innaturale, di una morte che è altrettanto violenta di quella dovuta a una spada od una pallottola; se toglie a migliaia d’individui il necessario per l’esistenza, se li mette in condizioni nelle quali essi non possonovivere; se mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni finché non sopraggiunga la morte, che è la conseguenza invitabile di tali condizioni; se sa, e sa anche troppo bene, che costoro in tale situazione devono soccombere, e tuttavia la lascia sussistere, questo è assassinio, esattamente come l’azione di un singolo, ma un assassinio mascherato e perfido, un assassinio contro il quale nessuno può difendersi, che non sembra tale, perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale, e perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione. Ma è pur sempre un assassinio». 

Nella normale quotidianità il dramma della scelta tra salute e salario scorre quasi invisibile, ma la gestione politica delle epidemie può generalizzarlo e renderlo evidente: continuare a lavorare rischiando però d’ammalarsi; oppure perdere lavoro e reddito, rischiando comunque anche la malattia. Questo vale anche per quei lavoratori, in primo luogo della sanità, gettati allo sbaraglio durante la pandemia di Covid-19 e specialmente per i tanti precari e i lavoratori dei Paesi «in via di sviluppo». 

3. Della gestione politica della pandemia moderna di peste bubbonica, 1894-1947
Infine, nel 1894 si ripresentò il più temuto dei flagelli: la peste bubbonica. Dopo quelle iniziate sotto Giustiniano nel 541-4 d.C. e a metà del XIV secolo, questa terza pandemia di peste durò a lungo, inoltrandosi ben dentro il XX secolo, fino al 1947, causando circa 26 milioni di casi e 12 milioni di morti. Dunque, una mortalità molto inferiore alle precedenti pandemie ma, per quanto la maggior parte delle vittime fosse in India e le epidemie rimanessero limitate ai porti, il panico fu grande e mondiale. 
Non fu un caso che a sopportare il peso di gran lunga maggiore di questa pestilenza fosse la colonia britannica dell’India, una tessera fondamentale dell’economia mondiale e un subcontinente con decine di milioni di poveri e d’intoccabili di casta inferiore. È un fatto che distinse la moderna pandemia di peste da quelle antica e medievale e che l’avvicinava socialmente (ma niente affatto nella modalità di trasmissione) al colera: non colpì indiscriminatamente tutti gli strati sociali, ma si concentrò sui poveri e le caste inferiori, sui quartieri più affollati e malsani, sugli scaricatori dei porti agli snodi del commercio oceanico. 
Dall’interno della Cina la peste raggiunse Hong Kong e poi Bombay (attuale Mumbai), dove tra il 1896 e il 1898 fece 30mila morti, dilagando nel resto del Maharashtra, nel vicino Karnataka a sud e nell’Andhra Pradesh a est, fino a Calcutta e nel Bengala occidentale, dove uccise annualmente 7-8 mila persone. Una seconda ondata colpì ancora Bombay e ancor più duramente il Punjab nel 1904-7. Nel complesso, si stima che tra il 1896 e il 1914 morirono di peste circa 8 milioni d’indiani, la metà nel Punjab. 
La peste non era certo l’unica malattia che affliggeva l’India né sarà quella più devastante: in pochi mesi l’influenza «spagnola» del 1918-9 vi mieté milioni di vittime. Tuttavia, per buone ragioni essa evocò uno spettro terrificante, su scala mondiale e nell’amministrazione britannica del Vicereame. Le due scale erano connesse: l’India era il centro del sistema imperiale britannico sotto tutti i punti di vista, compreso - e non per ultimo quanto a importanza - quello economico. Il punto è stato spiegato bene da Marcello De Cecco. Le colonie, e l’India prima fra tutte, costituivano uno sbocco per l’industria britannica, ancora legata ai «vecchi» prodotti industriali: da qui l’interesse a mantenerle in condizione di sottosviluppo. D’altra parte, le esportazioni di prodotti primari dall’India era fondamentale per mantenere la stabilità della sterlina e l’importanza di Londra quale centro finanziario:

«è la possibilità di poter contare su una economia di tanta capacità esportatrice [l’indiana], totalmente dipendente per le sue importazioni dalla metropoli e totalmente privata della possibilità di realizzare il proprio surplus in oro, che permette al mercato dello sconto londinese di mantenere il proprio dominio internazionale e di adempiere alla funzione di principale creatore di liquidità internazionale fiduciaria»11

Quindi, per l’Impero britannico erano fondamentali sia la stabilità interna dell’India sia la libera circolazione delle esportazioni della colonia al resto del mondo. Questo spiega perché, dopo che il 23 settembre 1896 un medico e politico locale ebbe dichiarato al municipio di Bombay che la peste era in città, per settimane le autorità sostennero che si trattava di una «febbre sospetta» o di «febbre bubbonica» ma mai affermarono che era peste bubbonica, fino a quando non fu più possibile negarlo di fronte all’evidenza12. Tuttavia, il panico internazionale era iniziato già prima della dichiarazione ufficiale, con la sequela di divieti e quarantene, bandi alle importazioni, cordoni sanitari, su scala sempre più ampia mentre la peste raggiungeva porti in tutti i continenti. Così, all’iniziale negazione subentrò nell’amministrazione coloniale britannica una reazione senza precedenti, volta a contenere il contagio e ancor più a rassicurare l’opinione pubblica internazionale. Vennero adottate le misure più draconiane: la ricerca casa per casa degli infetti, con interi villaggi circondati da squadroni di cavalleria e perquisiti dalla fanteria; la segregazione forzata dei malati; la disinfezione degli ambienti e delle città con cloruro di mercurio; ispezioni e sequestri di merci, distruzione di vestiti e proprietà; comportamenti brutali e predatori da parte dei militari. Venne dispiegata la potenza dello Stato coloniale, generando resistenza nella forma della fuga, dell’occultamento e del rifiuto delle cure mediche, anche perché essere portati in ospedale equivaleva alla morte; si verificarono disordini e omicidi di funzionari britannici, ma anche atti di collaborazione con l’autorità coloniale e d’ostracismo e di colpevolizzazione di colonizzati verso altri colonizzati, secondo linee di classe che in India erano e sono tuttora ancorate anche al sistema delle caste. Il modo in cui le autorità coloniali spiegavano l’epidemia s’accordava con questi ultimi fenomeni e contribuì a giustificarli. Un resoconto su The lancet del 4 aprile 1896 (p. 936) titolava «The plague in Hong Kong. A story of chinese antipathies», riportando le parole del governatore Sir William Robinson che esprimono bene il punto di vista del «fardello dell’uomo bianco» britannico:

«educati ad abitudini contrarie alla sanità e avvezzi a riunirsi in gregge, [i cinesi] erano incapaci di comprendere la necessità della segregazione; erano abbastanza soddisfatti di morire come pecore, diffondendo la malattia intorno a loro, fintanto che erano lasciati indisturbati, e preferivano vedere i loro amici e parenti malati soffrire indicibili miserie piuttosto che prendere parte al loro trasporto negli ospedali europei, dove era dato loro ogni conforto. Questi sentimenti, indubbiamente risultato di cieco pregiudizio e di superstizione, naturalmente spingevano all’occultamento, che necessitava l’organizzazione di squadre di ricerca e di un sistema di ispezioni casa per casa».

Questa lezione del Governatore coloniale valeva anche per l’India ed è stata bene appresa dalle autorità cinesi, che l’hanno applicata in Wuhan durante l’epidemia di Covid-19. 
Nel 1894 Alexandre Yersin e Shibasaburo Kitasato avevano identificato il bacillo della peste, indipendentemente l’uno dall’altro, ma l’eziologia della malattia non era ancora chiara. Il bacillo poteva ancora essere inteso sia come causa che come conseguenza della malattia; e benché quattro anni dopo Paul-Louis Simond avesse dimostrato sperimentalmente la trasmissione della malattia attraverso la pulce dei ratti, la campagna di sterminio dei roditori venne lanciata solo nel 1909. Intanto, la spiegazione ufficiale su cui si basava la politica britannica era che la malattia si trasmettesse dal terreno attraverso ferite e abrasioni dei piedi scalzi. Quindi la peste divenne una malattia propria dei poveri, degli intoccabili, di certi gruppi etnici. La teoria aveva inoltre il vantaggio d’attribuire il contagio ai comportamenti degli individui e alle consuetudini degli indiani, a una cultura arcaica e a una razza inferiore, allo «stile di vita» si dice nell’epidemiologia contemporanea; e lo stesso ragionamento, come visto, s’applicava ai cinesi. Paradossalmente, questo fu uno dei motivi che portò l’amministrazione coloniale dell’India a moderare le sue misure e a considerare la peste come una delle tante malattie intrinseche a quel clima e a quella cultura, quasi una «nuova normalità».
Un’altra fu la constatazione che i rimedi adottati non funzionavano. La disinfezione non faceva altro che spingere i ratti nelle case, mentre occorreva la disinfestazione mirata a eliminarli. Tuttavia, la caccia ai ratti ridusse ma non eliminò la peste da Bombay: ancora nel 1910 morirono circa 5mila persone, metà o a un terzo della norma degli anni precedenti. Infine, perquisizioni e coercizione contribuivano a minare il dominio coloniale: nel marzo 1898 scoppiarono scontri violenti in uno dei quartieri più poveri di Bombay, popolato da operai tessili, e altri si verificarono a Poona, Calcutta e Karachi. La soggezione coloniale non era condizione che potesse ispirare fiducia, meno che mai l’applicazione con la forza delle misure sanitarie: era diffusa l’idea che la peste fosse uno stratagemma inglese per eliminare i poveri. Le autorità coloniali arrivarono alla conclusione che la coercizione era possibile nei villaggi ma non nelle grandi città, per cui attenuarono le disposizioni. D’altra parte, in Hong Kong venne dato alle fiamme e raso al suolo il sovraffollato distretto di Tai Ping Shan dove si verificava la maggior parte dei casi di peste: era popolato da poveri operai affluiti dal Guangdong. L’esempio del fuoco purificatore fu imitato anche altrove, nel 1900 con effetti disastrosi nella Chinatown di Honolulu. 
La città europea più colpita fu Oporto, che nell’agosto 1899 fu circondata da un cordone sanitario di otto battaglioni. Scoppiarono violente proteste dei lavoratori rimasti disoccupati, che portarono ad allentare la quarantena ma, poiché i casi crebbero ancora, fino a 148 e 44 morti a metà ottobre, vennero introdotte nuove misure restrittive. Ad essere colpita fu la parte bassa, popolare e malsana della città. 
Altra caratteristica che distingue questa pandemia di peste dalle precedenti è la sua diffusione geografica veramente planetaria, un segno della compressione spazio-temporale dell’economia mondiale capitalistica. Dallo Yunnan passò al grande porto di Hong Kong, da lì a Bombay, a Osaka, Kobe e Nagasaki, Manila, Sydney, Città del capo, Buenos Aires, Oakland, San Francisco, San Diego, New Orleans, New York, Oporto, Alessandria d’Egitto, Napoli e Glasgow. Dall’India la peste fu importata da navi commerciali in Paraguay e Argentina e in Sudafrica, dove servivano le truppe impegnate nella guerra anglo-boera, e da lavoratori migranti dall’India nelle colonie britanniche. La peste seguì le vie commerciali anche in Cina: lungo i fiumi e la costa a sud negli anni Novanta del XIX secolo, lungo le linee ferroviarie controllate da russi e giapponesi in Manciuria nel 1910-1, verso le città di Harbin e Mukden. 
Infine, per anni continuarono a verificarsi esplosioni epidemiche di peste bubbonica in Cina, Indonesia e Madagascar; a Hong Kong l’epidemia del 1922 fu grave quasi quanto quella del 1894, con 24 mila morti, circa il 10% della popolazione. Fatto significativo, per quanto pochi, i casi di peste continuarono a verificarsi a lungo anche in capitali e importanti città europee, tra cui: Lisbona (1899, 1910, 1914, dal 1920 al 1924, 1926, 1928); Marsiglia (1902, 1903, 1907, 1919, 1920, dal 1924 al 1926,1930, 1932, 1933, 1935, 1936); Parigi (dal 1920 al 1924, 1926, 1929); Londra (1900, 1905, 1910, dal 1917 al 1920); Atene (1913, 1915, 1919, 1920, dal 1925 al 1928); Barcellona (1902, 1919, 1922, 1931); Trieste (1906, 1908, 1912, 1913); Catania (1914, dal 1920 al 1922); Napoli (1901, 1921, 1922, 1924, 1929), Taranto (1927, 1945 con 12 morti), per un totale di 1692 casi e 457 morti tra il 1899 e il 194713; negli Stati Uniti l’ultima epidemia di peste fu a Los Angeles nel 1924-5, ma casi isolati continuano a verificarsi in alcune zone dove esiste una riserva naturale14
Durante la guerra del Vietnam, a causa dei bombardamenti e dell’uso dei defolianti ratti portatori della peste, sia bubbonica che polmonare, uscirono dalle foreste ed entrarono in centri urbani sia del nord che del sud (tra cui Da Nang, Hue, Cam Ranh), causando 100-250mila casi tra il 1965 e il 1974. Nel primo decennio del nuovo secolo, epidemie importanti si sono verificate nella repubblica democratica del Congo (in guerra civile e dittatura) e in Madagascar.
La peste è ora una malattia circoscritta, con casi legati a riserve naturali, che si manifesta in modo significativo in condizioni di povertà e di guerra. Tuttavia, alcuni casi verificatisi indipendentemente in Algeria (2003, 2008) e in Libia (2009) sono tra i motivi per cui recentemente è stato proposto di includere anche la peste bubbonica tra le malattie riemergenti della nuova transizione epidemiologica15. Il rischio maggiore è quello dei possibili effetti delle variazioni del clima sulla fertilità di roditori e vettori in situazioni che ne estendono la diffusione oltre le aree remote e ne facilitano il contatto con gli umani. La moderna pandemia di peste, nel pieno della globalizzazione a cavallo del XIX e del XX secolo, è una lezione che è meglio non dimenticare.  
Lo schema di comportamento dell’autorità britannica in India e a Hong Kong, l’oscillazione tra negazione, sottovalutazione e infine il ricorso a mezzi estremi, non era una novità. Senza precedenti erano però ampiezza e intensità della risposta, in un territorio coloniale che era nello stesso tempo un concentrato di miseria e la chiave di volta della stabilità dei flussi commerciali e finanziari dell’Impero. 
Nonostante il tempo trascorso e gli innumerevoli cambiamenti della scena del mondo, rivedendo i particolari dell’epidemia di peste e della sua gestione in India sono rimasto colpito dalle somiglianze con la gestione della pandemia di Covid-19. S’intende nella logica del processo e nella soggettività, non nei suoi aspetti peculiari: cinismo, panico, ipocrisia, autoritarismo, ignoranza, paranoia e xenofobia sono presenti in entrambe le pandemie, così significative della società mondiale. 

4. Dell’influenza detta «spagnola», ovvero del super-killer mondiale e del cinico cretinismo contemporaneo
La pandemia in corso non è affatto la stessa cosa della celebre «influenza spagnola» del 1918-9: il coronavirus Sars-CoV-2 non è il virus H1N1 d’allora. Tuttavia, non è neanche un caso che la «spagnola» (che non era affatto tale) sia stata evocata in occasione di questa pandemia, della Sars dell’Ebola. Distinta dalle malattie endemiche, la «spagnola» rimane la più grave crisi sanitaria che i popoli del mondo abbiano vissuto da oltre un secolo a questa parte. 
Per gran parte del XX secolo la stima più nota dell’impatto della pandemia di «spagnola» sulla popolazione mondiale fu quella prodotta da Edwin Oakes Jordan nel 1927, che si basò sul calcolo della mortalità in eccesso su quanto ci si poteva normalmente attendere: 21,6 milioni di morti (Epidemic influenza. A Survey, American medical association, Chicago 1927), dunque un salasso d’umanità pari a quello della guerra mondiale che s’avviava a conclusione. Altri studiosi hanno stimato la mortalità della «spagnola» a 20-50 milioni (Webster e Laver, 1975), 15-50 milioni (Schild, 1977), 15-25 (William I. Beardmore Beveridge, 1978), 50-100 milioni (F. M. Burnet, 1979). Un riferimento fondamentale è lo studio pubblicato nel 1991 da Patterson e Pyle, che proposero una forchetta di 24,7-39,3 milioni di morti, indicando come loro stima prudente e più probabile 30 milioni di morti. Sono notevoli non solo le differenze tra le stime dei diversi studi ma l’ampiezza della differenza tra i valori minimi e massimi di ciascuno studio. Ciò per una serie di difficoltà che in parte sussistono ancora: copertura delle registrazioni nei territori nazionali, diagnosi incerte, scadenze e trascuratezza dei rapporti dai territori coloniali in cui non esisteva un sistema sanitario degno, rilevazioni che privilegiavano le aree urbane rispetto a quelle rurali, dati insufficienti sulla prima e sulla terza onda della pandemia, deliberato occultamento della gravità dell’epidemia, che incise sull’operatività delle truppe nell’ultima fase della guerra. Patterson e Pyle scrissero che «il numero di vittime dell’onda autunnale fu enorme e il totale preciso non si potrà mai conoscere». Notarono che «i dati provenienti dalla Cina, dagli Stati dell'America Latina, dalle aree coloniali dell'Africa e dell'Asia, sono in genere dolorosamente inadeguati, come ci si aspetterebbe anche oggi dai paesi poveri» e che 

«non sorprende che i poveri soffrirono più dei ricchi con cibo e riparo migliori. Anche l’accesso differenziale alle cure sanitarie probabilmente ebbe un certo impatto; non c’era terapia per l'influenza o le sue complicanze, ma cure di sostegno erano utili. L’Africa sub-sahariana soffrì gravemente»16.

Quando si considerino i tassi di mortalità delle loro popolazioni - almeno 3-4 volte più alti di quelli dei Paesi europei - furono i territori coloniali africani a soffrire di più della «spagnola». Tuttavia, sono le stime per l’India, la Cina e la Russia-Urss ad avere il peso maggiore nel determinare l’ampiezza delle vittime totali della pandemia del 1918-9, nell’ordine rispettivamente 12,5-20 milioni di morti, 4-9,5 milioni e 450 mila. E sul dato per la Russia-Urss esistono seri dubbi perché la cifra appare troppo modesta a confronto di casi noti come quello di Odessa. Nel 2006 Johnson e Müller rifecero il punto aggiornando Patterson e Pyle con gli studi più recenti, sia basati sul metodo dell’eccesso di mortalità che su quello dell’estrapolazione dalla mortalità locale a quella nazionale. Per l’India assunsero la stima di Ian D. Mills di 18 milioni di morti, sicché il totale complessivo risulta dell’ordine di 50 milioni di vittime. Tuttavia, date le tante incognite, affermarono che «la mortalità reale della pandemia può rientrare nell’intervallo tra i 50 e i 100 milioni di morti ma sembra improbabile che si possa mai calcolare un valore veramente preciso»17
La «spagnola» si sviluppò in tre ondate: tra marzo e la fine di maggio 1918, l’onda relativamente meno letale; dalla seconda metà di agosto al dicembre 1918, l’onda più letale; una terza, di letalità intermedia, all’inizio del 1919, fino a maggio; forse vi fu una quarta onda nell’inverno 1919-20. L’America latina era stata risparmiata dalla prima onda, ma da metà settembre fu colpita dalla seconda.

Tante malattie endemiche e tropicali «dimenticate» ogni anno fanno milioni di morti. Tuttavia, se si cerca un efficientissimo super-killer, capace d’uccidere decine di milioni di persone in pochi mesi e in tutto il mondo bisogna rivolgersi a un virus o coronavirus con le caratteristiche dell’influenza. Il che mostra quanto sia errata, paranoide e manifestazione d’ignoranza l’idea che la pandemia di Covid-19 sia conseguenza di un complotto. Non è necessario che il tasso di letalità sia elevato: su decine di milioni anche l’1% è sufficiente a innalzare la mortalità in eccesso di centinaia di migliaia. Ed è anche a causa dell’ampiezza dell’epidemia che i dati ufficiali e accertati con analisi di laboratorio non sono esaustivi, meno che mai dove la sanità fa difetto o il sistema politico è autoritario. Ragion per cui, ad esempio, pur ammettendo senz’altro un’ampia variabilità dell’impatto dell’epidemia in diversi Paesi, i dati ufficiali dell’India sono inattendibili e ridicoli quelli della Repubblica popolare cinese, secondo cui nell’intera Wuhan (pur lasciando da parte il resto dell’Hubei e della Rpc) i decessi da Covid-19 sarebbero meno di quelli della sola provincia di Bergamo: solo l’opportunismo della diplomazia e la cecità ideologica possono prenderli per buoni. 
E a destra e a sinistra sono di un cretinismo nauseante, moralmente indegno e politicamente folle le posizioni di chi ne ha sottovalutato il pericolo potenziale, che è tanto più grave proprio per coloro che non possono ricorrere al «distanziamento sociale», che vivono in abitazioni e slums miserabili e sovraffollati, in Paesi o in regioni dove il sistema sanitario è già inadeguato per la normalità locale o in pratica inesistente. Lo si vede chiaramente in Brasile, dove l’epidemia è esplosa tardi ma, anche grazie al negazionismo del presidente Bolsonaro, in un paio di mesi (all’inizio di luglio) ha già fatto ufficialmente non meno di 60 mila morti. Perfino negli Stati Uniti la mortalità è più ampia tra gli afroamericani, un segnale che anche Covid-19 incide in modo diverso su classi e categorie sociali. Come diceva Engels: un assassinio per peccato di omissione è pur sempre un assassinio. 


Note
1) Si vedano: J. R. McNeill, Mosquito empires. Ecology and war in the Greater Caribbean, 1620-1914, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 235-303 e Frank M. Snowden, Epidemics and society. From the Black death to the present, Yale University Press, 2019, pp. 111-139; Cyril L. R. James, I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, Feltrinelli, Milano 1968. 
2) Citato in Andrew T. Price-Smith, Contagion and chaos. Disease, ecology, and national security in the era of globalization, The MIT Press, Cambridge, 2009, p. 52.
3) Mark Harrison, Contagion. How commerce has spread disease, Yale University Press, 2012. Il libro di Harrison è di particolare interesse per la storia delle reazioni dei governi alle epidemie che minacciavano il commercio internazionale. 
4) Randall M. Packard, A history of global health. Interventions into the lives of other peoples, Johns Hopkins University Press, Baltimora 2016.
5) Tony A. J. McMichael, Human frontiers, environments and disease. Past patterns, uncertain futures, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 303. 
6) Mirko D. Grmek, «The concept of emerging disease», in Pathological realities. Essays on disease, experiments, and history, a cura di Pierre-Olivier Méthot, Fordham University Press, 2018, p. 53.       
7) F. M. Snowden, Epidemics and society. From the Black death to the present, cit., p. 239.
8) Richard J. Evans, « Epidemics and revolutions. Cholera in nineteenth-century Europe», in Epidemics and ideas, a cura di Terence Ranger-Paul Slack, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 158. Sulla transizione epidemiologica nel XIX secolo: Molly K. Zuckerman (a cura di), Modern environments and human health. Revisiting the second epidemiological transition, Wiley-Blackwell, 2014.    
9) Myron Echenberg, Africa in the time of cholera. A history of pandemics from 1817 to the present, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp. 6 e 12.  
10) World Health Organization, Primary health care on the road to universal health coverage. 2019 Global monitoring reporthttps://www.who.int/healthinfo/universal_health_coverage/report/uhc_report_2019.pdf?ua=1
11) Marcello De Cecco, Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914, Einaudi, Torino, 1979, p. 158. Per la contestualizzazione socioecologica, essenzialmente in riferimento al clima globale e alle carestie, è utile anche Mike Davis, Olocausti tardovittoriani. El Niño e la nascita del Terzo Mondo, Feltrinelli, Milano 2001, che ho utilizzato per iniziare Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari editore, Bolsena 2006. 
12) Sull’epidemia di peste in India e sulla politica dello Stato coloniale: Rajnarayan Chandavarkar, «Plague panic and epidemic politics in India, 1896-1914», in Epidemics and ideas, a cura di Terence Ranger-Paul Slack, Cambridge University Press, Cambridge 1992 e F.M. Snowden, Epidemics and society. From the Black death to the present, cit.
13) Barbara Bramanti, et al., «The third plague pandemic in Europe», Proceedings Royal society. Biological sciences286/2019.
14) Cdc, «Plague in the United States», https://www.cdc.gov/plague/maps/index.html .
15) A.J. dos S. Grácio-M.A.A. Grácio, «Plague. A millenary infectious disease reemerging in the XXI century», BioMed Research International, 2017.  
16) David Patterson-Gerald F. Pyle, «The geography and mortality of the 1918 influenza pandemic», Bulletin of the history of medicine, n. 1/1991, p. 13.
17) Niall P.A.S. Johnson-Jürgen Müller, «Updating the accounts: global mortality of the 1918–1920 “Spanish” influenza pandemic», Bulletin of the history of medicine, n. 1/2002, p. 115; Ian D. Mills, «The 1918-1919 influenza pandemic. The indian experience», Indian economic and social history review, n. 1/1986. 
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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.