(Matteo 10,34)
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© Mario Dondero |
Il cinema corsaro di Pier Paolo Pasolini trascende il reale, disvelandolo. I vecchi, le puttane, gli accattoni, le baracche della periferia romana o i corpi nudi di giovani amanti emersi dal Boccaccio, nei fiori delle Mille e una notte o nella barbarie quotidiana del fascismo… emergono sulle rive del Tevere, nei deserti del Marocco o nelle ville della borghesia mussoliniana… e nel ritrovamento dell'ethos (carattere) originario del popolo si ri/conoscono come depositari di una cultura profanata, svenduta, calpestata sin dalle origini… fino a dire che siamo tutti complici della lingua che parliamo, dello Stato che sosteniamo, degli dèi e dei miti che consumiamo.
ACCATTONE (1961), MAMMA ROMA (1962), LA RICOTTA (episodio di Ro.Go.Pa.G. - Laviamoci il cervello, 1963), LA RABBIA (1963), COMIZI D'AMORE (1963-64), SOPRALLUOGHI IN PALESTINA (1963-64), IL VANGELO SECONDO MATTEO (1964), UCCELLACCI E UCCELLINI (1966), LA TERRA VISTA DALLA LUNA (episodio di Capriccio all'italiana, 1967)… figurano i percorsi accidentati/libertari del cinema pasoliniano. Una specie di ritorno alla preistoria dell'umanità; «… mentre il mondo borghese - scrive Pasolini - è evidentemente il mondo della storia… i miei sottoproletari vivono ancora nell'antica preistoria, nella vera preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria e la somiglianza fra le due preistorie è puramente casuale…»1. L'omologazione culturale/politica è dunque un'espropriazione della fantasia, un'impiccagione del desiderio di vivere tra liberi e uguali che si configura nella degenerazione della storiografia al potere. Pasolini aveva capito che l'aroma malefico di ogni autorità è una farsa e ogni consenso (elettorale, dottrinario, culturale…) si regge sull'inclinazione volontaria a servire dell'uomo… I fanatici senza sogni e gli idolatri delle certezze hanno sempre trovato le risposte alle loro miserie nei deserti della s/ragione amministrata. In LA RICOTTA, Stracci doveva morire per accorgersi di vivere… poi, con UCCELLACCI E UCCELLINI, Pasolini celebra (in anticipo di un quarto di secolo) l'elogio funebre del marxismo al potere. La stupidità del comunismo è stata pari alla sua menzogna e i suoi funesti demiurghi continuano a rovistare come ratti affamati di potere nell'immondezzaio della storia.
UCCELLACCI E UCCELLINI è «operetta poetica nella lingua della prosa» (diceva il poeta), che figura con grande destrezza ereticale la caduta degli angeli della diversità. Qui la passione eretica/ascetica e l'utopia/favola politica di Pasolini si mescolano alla passione per la verità senza rinunce… l'oggetto del racconto è «la scomparsa dell'individuo nella società capitalistica dei monopoli» (Pier Paolo Pasolini). Il marxismo che fuoriesce dal film è disincantato, amaro, crepuscolare… le attese messianiche del comunismo sono franate e lo sguardo di Pasolini è volto verso i singhiozzi del Terzo Mondo. L'illusione rivoluzionaria della sinistra è vista come tradimento (della Resistenza) e gli operai, i contadini, gli intellettuali, i maestri piccoli del pensiero "comunista" sono sottolineati come depositari del mondo borghese che dicono di volere abbattere. Gramsci è morto (per le vessazioni del carcere fascista), e Togliatti non è certo il suo profeta. La via/poetica eversiva di Pasolini, iniziata con ACCATTONE, MAMMA ROMA, LA RICOTTA, IL VANGELO SECONDO MATTEO… in UCCELLACCI E UCCELLINI getta ogni forma di "pudore militante" e il dopostoria dell'umanità viene ammucchiato in una sorta di pastiche irriverente, libertario, che fa dell'azzurrità dei cieli cristiani e delle bandiere rosse "comuniste" una specie di postribolo dell'immagine, della comunicazione, dell'impostura dove le mille parole del padrone educano all'obbedienza le trecento parole dell'operaio.
La favola pasoliniana sconcerta. È un film che non ha precedenti. Un'opera di poesia gremita di riferimenti cinefili… la fissità stoica di Keaton, la tenerezza perdente di Charlot, i richiami ai circensi felliniani e la bruta verità del neorealismo rosselliniano… sono disseminati nell'architettura filmica, ma Pasolini li deturna in altra poesia… La rielaborazione tecnica dei significati del segno cinematografico di Pasolini è alta. In UCCELLACCI E UCCELLINI, Pasolini riesce a ricreare l'atmosfera libertaria/comunarda del primo Neorealismo, ma senza l'aspetto crepuscolare, naturalistico o anche vittimista di questa scuola degli sguardi. Pasolini introduce nel cinema un «realismo creaturale» (Pier Paolo Pasolini), figurativo, che si situa al confine del realismo, ne evoca gli umori, le passioni, le invettive e li trasforma in poesia. Riporta il cinema alle origini, quando la poesia era nello stupore e nella meraviglia delle platee in fiore. Un'arte metonimica che rappresentava il cinema «come lingua scritta della realtà… Il linguaggio della realtà, fin che era naturale, era fuori dalla nostra coscienza: ora che ci appare scritto attraverso il cinema, non può non richiedere una coscienza. Il linguaggio scritto della realtà ci farà sapere prima di tutto che cos'è il linguaggio della realtà; e finirà infine col modificare il nostro pensiero su di essa, facendo dei nostri rapporti fisici, almeno, con la realtà, dei rapporti culturali… [La lingua del cinema, dunque], è il prodotto di una tecnica giunta a determinare un'epoca umana, appunto perché tecnica, [e ha forse] qualche punto di contatto con l'empirismo dei primitivi» (Pier Paolo Pasolini). Il nudo biancore pasoliniano veste il film di uno splendore estetico che investe nel profondo paesaggi e personaggi.
UCCELLACCI E UCCELLINI apre una nuova fase della cinevita pasoliniana, ma ciò che trasporta sullo schermo è sempre la stessa ferita originaria: l'esistenza/identità opposta alla cultura e l'innocenza/ragione che insorge contro la storia. Pasolini sceglie Totò «per quello che era». E cioè, un «napoletano povero con aria da nobile, e non da piccolo borghese» (Pier Paolo Pasolini). Una faccia da clown, ma non solo quella. Totò, infatti, non è qui "Totò", ma un personaggio del sottoproletariato napoletano allevato alla scuola della miseria. Ninetto, invece, «radiava la pura innocenza della gioventù, contrapposta alla affettuosamente sciocca senilità di Totò» (Pier Paolo Pasolini). Incarnava appieno «l'osceno benessere del neo-capitalismo» (Pier Paolo Pasolini). Si preparava ad essere un uomo normale, tale e quale al padre. La maschera amara di Totò attraversa l'intero film. Il comico è sarcastico, aggressivo, irriverente… ruoli innaturali alla commedia di costume che aveva sino a quel momento interpretato. Chaplin c'entra poco o nulla (se non per il costume confezionato da Danilo Donati: una giacca da frac larga sui fianchi, pantaloni a strisce, corti fin sopra le caviglie, un cappello schiacciato in testa e un ombrello chiuso, impugnato come un bastone). È la Commedia dell'Arte quella che Pasolini fa resuscitare sulla faccia di Totò. E sulle ceneri del Totò/guitto sorge Dario Fo, che ne sarà l'interprete/erede più alto. Non coinvolto con il potere, ma depositario di una satira corrosiva che mina alle radici ogni potere (questo non gli impedisce di ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1997). I saltimbanchi, i guitti, i giullari di Pasolini (come quelli di Fo) escono dal Medioevo per conquistarsi sulla "piazza" il diritto dalla "diversità"… lo fanno con lo sberleffo, la risata, i doppi sensi… e mentre tutti ridono affilano la spada che taglierà la testa al Re. Il grammelot di Fo è molto vicino al tartufismo di Molière che Pasolini impone a Totò. Lo sproloquio onomatopeico di Fo si fonde col gesuitismo pasoliniano che Totò interpreta con pregio (irripetibile) in UCCELLACCI E UCCELLINI.
Va detto. Abbiamo una grande passione per gli analfabeti (non solo pasoliniani), perché in loro si cela qualcosa di puro, di bello, di arcaico, che non si trova negli uomini colti e, in generale, tra le persone che hanno un'istruzione alle spalle - direbbe Cioran… il delirio di grandezza è proprio dei servi sciocchi della politica e della fede… sono affetti da una sorta di megalomania saccente che è propria dei boia e dei criminali di professione… dietro il politico, il prete o il professore sovente si cela un macellaio o un demente con l'ossessione di ascendere nel più alto dei cieli, quello del potere (è la medesima ossessione del rivoluzionario che una volta assaltato il Palazzo lo rivernicia con il medesimo sangue).
UCCELLACCI E UCCELLINI è un film picaresco. Il corvo è la cattiva coscienza della sinistra storica. La sua voce (Francesco Leonetti) dipana una serie di metafore politiche (mutuate da Franco Fortini) e dichiara: «Il mio paese è l'Ideologia e abito nella Città del Futuro». Le parole del corvo si fanno aspre e preannunciano la fine delle grandi ideologie e delle grandi speranze… non dimenticando di dire: «I maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante». Il film è un concentrato delle idee pasoliniane sul linguaggio degradato a merce, dove l'innocenza delle vittime è assorbita dal dominio della cultura dei consumi. Prima di essere arrostito, il corvo sentenzia così: «Se gli operai non si decidono a riprendere in pugno la bandiera rossa non ci sarà più niente da fare… Dove vanno gli uomini? Saranno nel futuro comunisti o no? Mah! probabilmente non saranno né comunisti né non comunisti… Essi andranno, andranno avanti, nel loro immenso futuro, prendendo dall'ideologia comunista quel tanto che può esser loro utile, nell'immensa complessità e confusione del loro andare avanti». Tutto varia a seconda delle turbolenze dei popoli e delle culture dei tempi… la libertà dell'uomo non è legata all'onnivora potenza delle istituzioni… e lo spirito libero di ogni uomo si manifesta in primo luogo nella parola. Gli dèi e le stirpi di dèi che governano l'umanità… aspirano alla soggezione totale dell'uomo. L'organizzazione generale dei linguaggi - adeguati all'ideologia dei consumi - tende a trasformare la forza spirituale dei consumatori in soggetti dall'intelligenza mediata dai prodotti che essi stessi consumano.
L'innocenza lunare di Totò e Ninetto è contrapposta all'apologia dell'ingiustizia come essenza della vita sociale, la loro "diversità" si riflette in ogni sequenza e avvolge il film in una specie di favola stellare moderna, dove il pallore della miseria è il riflesso del disgusto di ogni potere. Pasolini filma una luna bianca, magica, infantile… accompagna la sua visione con i discorsi surreali di Totò e Ninetto… verso la fine del loro cammino, quando padre e figlio fanno l'amore tra l'erba con una puttana… si chiama Luna. Il cammino comincia là dove finisce il viaggio. La poetica dei corpi di Pasolini non contiene niente del postimpressionismo, come culto dell'oggetto, che abbaglia le platee e la critica italiana nei film di Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni o Bernardo Bertolucci… e UCCELLACCI E UCCELLINI si tira fuori da ogni imperativo morale o normativa dell'impegno marxista… lascia fuori dello schermo anche i falsi pudori della pietà cristiana e va a ricostruire un mondo dove tutto ciò che è stato detto e fatto, è stato rubato (con ogni mezzo) alla maggioranza indifesa dell'umanità.
Con IL VANGELO SECONDO MATTEO l'eresia di Pasolini si fa forte, profonda. Pasolini non modifica nessuna parola dell'apostolo e butta sulla sindone dello schermo il Cristo più "vero" mai scritto, con la luce e con le ombre… Dopo avere visto il vangelo pasoliniano, come non ricordare le parole di Karl Marx: «Dio ci ha sviliti… l'emancipazione dell'umanità grazie all'assalto dei proletari alle cittadelle del capitale o è andato male o non si è presentato all'appuntamento della storia»2. Pasolini dedicherà il suo film a Papa Giovanni XXIII e l'OCIC (Organizzazione Cattolica Internazionale del Cinema) gli consegnerà il Gran Premio OCIC 1964, motivando che l'autore «ha trovato una chiave per illustrare il Vangelo e restituirci la sua realtà senza caricarla con ricostruzioni storiche. Per la prima volta un autore ha optato per una ragguardevole fedeltà al testo sacro. Le immagini spesso realistiche contribuiscono a prolungare il messaggio fino ai nostri giorni»3. Le "sacre scritture" hanno trovato un cantore che le spoglia delle loro ambiguità e disvela i loro misteri, per niente sacri. Il «continuo suicidio del-la ragione» (Friedrich Nietzsche) è il Dio in croce che alberga nelle "nostre" coscienze. Il peccato è «somiglianza con Dio» (Friedrich Nietzsche). Chi crede nel peccato ha fede nella punizione. È un profeta dell'ordine e dell'inquisizione. Di ciò che è bene e ciò che è male. «Gott mit uns» (Dio è con noi), dicevano ai soldati dei lager i vescovi di Hitler, e i camini di Auschwitz fumeranno a lungo dei corpi bruciati dei senza Dio.
IL VANGELO SECONDO MATTEO è un film profondamente poetico. Pasolini non raffigura Cristo secondo l'iconologia cristiana, ma gli dà il carattere divino di un maestro che non ha sorrisi per nessuno, fuorché per i bambini. Il film è per lunghi tratti quasi muto. Sorretto da rumori, musiche e deambulazioni della macchina da presa. Nei primi venti minuti di vangelo, «le battute di dialogo sono soltanto otto e corrispondono a diciassette righe di testo» (Morando Morandini). La tecnica narrativa è quella degli albori del cinema, mescolata e contrapposta a sequenze di cinéma-vérité (i processi di Caifa e Pilato). La "sacralità tecnica" del 50mm, obiettivo con il quale Pasolini ha "scritto" (con la luce) ACCATTONE e MAMMA ROMA… viene contaminata con altri registri espressivi, con altri stili affabulativi, dovuti all'uso costante del 300mm alternato col 25mm. Pasolini mescola inquadrature e movimenti di macchina abituali nel cinema classico con brani che sembrano frammenti di documentari… Dreyer e Godard che convivono all'interno di una stessa sequenza. Il 300mm, infatti, è un obiettivo con il quale Pasolini raggiunge due effetti: «quello dello schiacciamento, per rendere il piano pittorico del Quattrocento e del Cinquecento, e quello della attualità documentaristica» (Pier Paolo Pasolini). Il grandangolo (il 25mm) viene usato da Pasolini come momento deformante, quasi a sottolineare una caduta imminente o un'epifania divina.
Quel che è strano è che IL VANGELO SECONDO MATTEO riesce ad esporre un'unità di stile inconfondibile e assumere il ruolo che nei secoli passati era deputato ai grandi affreschi, le sculture, i santini, insomma a tutta quell'arte sacra che viene chiamata "Bibbia dei poveri". La ricostruzione "analogica" pasoliniana del Vangelo… è semplice. Si dipana all'interno di un ordine cronologico che passa dall'annunciazione, l'infanzia, il battesimo, la cacciata dei mercanti del tempio, gli scontri con i notabili, il calvario, la crocifissione, la deposizione, la scoperta della pietra divelta all'entrata del sepolcro. Il film si chiude su dei ragazzi dolci e allegri che corrono agitando rami di ulivo. Il viaggio nel Vangelo pasoliniano è costellato di stupendi (a volte lunghissimi) primi piani di facce bruciate dal sole, contrapposti a lente carrellate, delicate panoramiche e composizioni figurative che richiamano i dipinti di Leonardo o Piero Della Francesca. A Pasolini non interessa ricostruire con esattezza la cronaca delle sacre scritture… si fa prendere dalle emozioni rivoluzionare che il Vangelo può suscitare in animi ulcerati dalla passione e dall'amore dell'uomo/della donna verso l'umanità… «Cristo che si aggira per la Palestina è veramente un turbine rivoluzionario: uno che si avvicina a un paio di persone e dice: "Gettate le vostre reti, seguitemi e vi farò pescatori di uomini" è assolutamente un rivoluzionario» (Pier Paolo Pasolini).
Michel Cournot vede IL VANGELO SECONDO MATTEO così: «Accanto a Nazarin di Buñuel, il film di Pasolini è una piccola, angusta cosa. Una frode in commercio. Vi ho ritrovato, vedendolo, il grasso delle tonache e gli sguardi obliqui dei confessori… il confusionismo, l'irresponsabilità, i vuoti sguardi invitanti, gli imbrogli delle grandi sartorie, la menzogna… So che Pasolini si proclama marxista e ritiene il suo Gesù non privo di analogie con Vladimir Ilič Ul'janov, detto Lenin, e che aveva pensato di chiedere a Evtušenko di interpretarne il ruolo… Non so se Pasolini sia un prodigio di incoscienza o un maestro della pubblicità. Ammannire nello stesso tempo un film a coloro che a Pasqua si comunicano e a quelli che, a gennaio, pagano la quota per la tessera al Partito comunista, evidentemente non sarebbe male. Né impossibile. Ottocento prelati hanno applaudito a Roma IL VANGELO e poiché Pasolini è un simpatizzante otterrà certo, anzi ha già ottenuto, critiche eccellenti nella stampa comunista»4. Come sempre, i corvi neri della Chiesa e gli scribi delle forche comuniste si giocano a colpi di "verità" gli scanni del potere e i postriboli dell'eternità. Preti e comunisti sono i soli stupidi conclamati e sono sempre in anticipo sulla loro demenza senile.
Pasolini è un contaminatore di anime, un cantore del pastiche, un poeta della "diversità" che cerca nell'età dell'innocenza il ritorno all'amore o il fuoco della rivolta. In questo senso e su percorsi affabulativi diversi, EDIPO RE (1967), CHE COSA SONO LE NUVOLE? (1967), APPUNTI PER UN FILM SULL'INDIA (1968), TEOREMA (1968), LA SEQUENZA DEL FIORE DI CARTA (1969), PORCILE (1969), APPUNTI PER UN'ORESTIADE AFRICANA (1969), MEDEA (1969), LE MURA DI SANA'A (1971)… si leggono come una rappresentazione metaforica della realtà e fanno del linguaggio «nazional-popolare», caro ad Antonio Gramsci, «la lingua diretta della realtà» (Pier Paolo Pasolini). Il cinema d'abbordaggio pasoliniano esprime una sensibile coscienza del momento e, nel contempo, lacera la materia tragica della storia o del mito che at/traversa. La cine/poesia visiva di Pasolini emerge dall'universo degradato dei "diversi", degli esclusi o dei dannati della terra… rievoca una "forza del passato" e i furori di un'utopia che dove s'invola porta le stigmate dello scandalo.
Nel cinema (come nei suoi scritti), Pasolini usa la lingua della borghesia per profanarla, de/contestualizzarla dalla propria funzione tecnocratica e omologante (diffusa dai mass media). «Il cinema è una lingua, una lingua che costringe ad allargare la nozione di lingua» (Pier Paolo Pasolini). Tra irruzioni nella mitologia e apologhi sulla realtà, Pasolini avverte la mutazione dei tempi e cessa di credere che «il corpo… è una terra non ancora colonizzata dal potere» (Pier Paolo Pasolini). Anzi, dentro un'epifania del sacro e sotto un presagio d'annientazione del sottoproletariato planetario… il corsaro del cinema prende la rotta per la magia della favola, del riso, del sarcasmo e da qualche parte dice: «Il passato noi dobbiamo soltanto sognarlo… perché, forse, è un passato che non è mai stato così» (Pier Paolo Pasolini). In chiusa a CHE COSA SONO LE NUVOLE?, Pasolini trascolora le sconfitte del proletariato massificato, ridotto a delle marionette, riciclato nella delusione e nella malinconia… con la leggerezza ludica di un prestidigitatore smaschera ovunque il gusto dell'ordinario e il carattere della mediocrità. La "diversità" pasoliniana trabocca ovunque… in EDIPO RE erompe fuori dai ginecei di Freud e dai maschilismi di Marx, dichiara l'amore impossibile - opera d'arte - e invita l'uomo/la donna a superare la propria infanzia facendo i conti con la propria sessualità.
Pasolini aveva il gusto per lo straordinario ed era riuscito a frugare a fondo quel mondo di estrema miseria e di estrema magia che amava profondamente. Con la Trilogia della vita - DECAMERON (1971), I RACCONTI DI CANTERBURY (1972), IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE (1974) - evoca un'età dell'innocenza o una ricerca dell'utopia dove concilia il disincanto dell'amore col mito della libertà. Le cristologie non lo riguardano. «Il mondo - scrive Pasolini - non sembra essere, per me, che un insieme di padri e di madri verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose»5. In questo senso, il suo cinema ha dissacrato ogni versante dell'ombra, scardinato i simulacri e i valori di un'epoca. Forse, Pasolini ha avuto l'ingenuità di credere alla caduta di Babilonia… ha sognato che ci fosse un'ultima sconfitta dei senzavoce che portava alla prima vittoria… della rivoluzione sociale. La contraddizione non gli faceva paura (come a Walt Whitman). In Le ceneri di Gramsci lo ribadisce: «Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere/ con te e contro di te; con te nel cuore/ in luce, contro di te nelle buie viscere…»6. È la stessa eresia filosofica che ritorna all'anarchia di Accattone… là e qui Pasolini assume il ghigno del ribelle impenitente… non alza mai la voce né esagera il tono, ma il profeta/moralista che è in lui sconfina nei prati fioriti della rivolta… «i figli dei poveri tremano o tacciano come i migliori figli dei ricchi. Oppure odiano e disprezzano come i peggiori figli dei ricchi»7. La volgarità appartiene al sacerdozio delle classi. Nella brama di trovare gli angeli del Paradiso, l'uomo riproduce i diavoli dell'Inferno che ha costruito con i propri dogmi.
Il DECAMERON affabula un vangelo segreto della trasgressione, dove l'ispirazione incendiaria di Nietzsche (la passione della conoscenza) si mescola alla cospirazione degli sguardi di Bakunin e gli scorticamenti della realtà prostituita nel bordello della storia sono predestinati all'eresia, al patibolo o allo scandalo della diversità senza ritorno alla ragione. Pasolini infrange la dignità, l'onorabilità e il decoro dell'ordinario, cantando l'irrimediabile, e il provocatorio mette fine a tutte le giustificazioni e le bestialità della tolleranza. Come Ciappelletto muoiono anche Tingoccio e il servo/amante di Lisabetta… ma l'intero film è adombrato da quel senso di morte che taglia via le umiliazioni e le disavventure della carne… Pasolini sembra dire - con un certo sarcasmo - che non c'è salvezza fuori dalla morte. E ciascuno scopre su di sé il modo di chiamarsi fuori da una vita più stupida che infelice. Il solo atto che un uomo può compiere senza vergogna è quello di «togliersi la vita… Ancora oggi stimo di più un portinaio che si impicca che un poeta vivo» (E.M. Cioran) che si autocelebra. Tingoccio torna dall'aldilà per trasmettere all'amico che laggiù dove è non si conosce il peccato e tutti sono liberi di amarsi in tutti i modi che desiderano… Meuccio corre dall'amante di Tingoccio e per la prima volta conosce l'amore. Lisabetta conserva la testa del suo amato (scannato dalla gelosia dei fratelli) interrata nel vaso del basilico sul davanzale della finestra. La condotta libertina di Ciappelletto finisce nella falsità dell'adorazione e gli onori che gli vengono attribuiti lo assolvono di tutta una vita dissennata. Andreuccio si trasforma da mercante a ladro di gioielli sui cadaveri, profana la morte per affrontare la sopravvivenza nel solo modo che conosce: da saprofita. Sono belle le donne di Pasolini. Anche le puttane conservano una certa grazia pittorica e il pompino di Peronella (Angela Luce) è di una regale castità che commuove e irrompe nell'inautenticità dei costumi della società borghese come un affronto. Pasolini è anche ironico. Segretamente velenoso. Quando Giotto è seduto alla tavola dei frati che lo ospitano, mentre questi si fanno il segno della croce per onorare il pane di Dio, l'artista si gratta la testa e corre (accelerato alla Charlot) in chiesa, davanti ai colori del suo affresco. Pasolini non cita soltanto Chaplin né teme di saccheggiare se stesso, quando fa intonare a Citti/Ciappelletto e ai due fratelli usurai «Fenesta ca lucive e mo' nun luce»… è la stessa canzone che Accattone e i suoi compari cantavano prima di picchiare una puttana. Pasolini riesce così a collegare lo stesso dolore e gli stessi tormenti di un'umanità emarginata che continua a cadere negli stessi errori. Non lo grida. Lo suggerisce con delicatezza. Dietro quella violenza gratuita, quella figurazione "rozza" della realtà proscritta, quella oscenità de/mercificata del sesso… riesce a vedere una realtà altra o una possibilità estrema di amore tra gli uomini che avanza dai confini della terra e che bisogna aiutare a far crescere.
Nel DECAMERON i corpi dei ragazzi e delle ragazze sono belli, solari, splendenti, perfino troppo goduti… le loro nudità iniziano a un diverso modo di vedere il cinema, si fanno carico di spaccare i velamenti dolcificanti del prestabilito e del conforme. Di lì a poco la circuitazione della pornografia esploderà forte e la richiesta consolatoria sarà sempre più ampia. Le maglie della censura si faranno più larghe, i sessi e le carni tremule dei film a "luce rossa" confineranno l'erotismo in una faccenda domestica, l'aura del desiderio, della violazione del limite resterà nella testa dei poeti maledetti, nelle trasgressioni irrinunciabili e fuori tempo dei randagi in amore. La pornografia si lega così alla laboriosità del costume, ai valori e alle leggi del pensiero dominante. Come sempre, l'erotismo resta fuori da qualsiasi comprensione… è estraneo ad ogni esercizio dei corpi come didattica del "tutto è comprabile" all'interno del cerchio sociale… l'erotismo non si fa acchiappare da nessuno, perché nessuno è in grado d'imprigionare gli eccessi della voluttà e i desideri senza limiti dell'erotismo (non importa se eterosessuale o omoerotico). L'erotismo accende l'immaginale e quando incendia la luce degli occhi ciascuno diviene sovrano di sé, si spinge agli estremi della permessività amorosa, li viola, li trasgredisce, l'infrange… fa della trasgressione dell'amore l'atto più profondo di ribellione al codice costituito. L'erotismo non c'entra nulla con la bassa prostituzione o con la vergogna dell'osceno… si ha coscienza del divieto nel momento in cui il divieto è superato. L'oscenità più oscena è murare in fondo al cuore i turbamenti dell'anima. L'erotismo è l'accesso al sacro, è un'infrazione del male come peccato e conoscenza del gioco dei corpi come profanazione della sfera sociale evangelizzata, confessata e benedetta da ogni Chiesa e da ogni Stato.
I dialoghi del DECAMERON sono ridotti all'essenziale. Cifra stilistica perseguita da Pasolini in tutto il suo fare-cinema. Ser Ciappelletto, Andreuccio da Perugia, Masetto da Lamporecchio, Lisabetta, Peronella, Tingoccio, Meuccio, Donno Gianni, Caterina, Ricciardo… non "parlano" tanto le parole del Boccaccio, ma interpretano la freschezza irriverente dei messaggi pasoliniani… così Ciappelletto, parlando - con grande esitazione - al frate confessore più santo della città: «Un giorno, m'è scappato di sputare dentro la casa di Dio…». Il frate (rassicurante): «Ragazzo mio, ma questo non è proprio niente. Noi che siamo preti, tutto il giorno ci sputiamo. E poi?». Ciappelletto muore e gli vengono tributati gli onori di un martire. I devoti si accalcano intorno al catafalco del nuovo santo… Pasolini mostra che la morale è il più grande pericolo dell'uomo e «il nulla, in tutte le religioni pessimistiche, è chiamato Dio» (Nietzsche).
In questa sorta di fonosfera dissennata, deviante o più semplicemente dissacratoria esposta da Pasolini nel DECAMERON, i dialetti meridionali s'intrecciano alle sguaiatezze formali che grondano dalla tela colorata e incensano il ludico come elegia dello stupore e della trasgressione dell'eros. Nobili, avvocati, banchieri, ladri, monaci, suore, contadini, bottegai, signore dabbene, puttane… sono ricomposti dalla visione mitologica pasoliniana di una terra ereticale dove la mancanza di religiosità fa conservare a ciascuno una certa leggerezza o caducità dell'istante. Qui il "cinema plebeo" pasoliniano assume quello stile «frontale, rigido, ieratico» (del quale parlava Pasolini) e mostra che ognuno ha bisogno di una qualche fede per vivere e la cerca proprio là dove sa di non poterla trovare (alla maniera di Elias Canetti). Pasolini, come Orson Welles, ama «travestire, non ricostruire».
La gioia erotica dispersa nel DECAMERON non oscura la sapienza filmica di Pasolini, che con sfrontata ribalderia anarcoide mescola l'amour fou con la surrealtà maledetta di un sogno (quello cinematografico) giocato fino all'indecenza del gusto e del costume generali. Con quel tanto di utopia che gli era propria, Pasolini sceglie di girare il suo film a Napoli, perché «Napoli è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e, così, di lasciarsi morire: come certe tribù dell'Africa, i Bea, per esempio, nel Sudan, che non vogliono avere rapporti con la nuova storia, e si lasciano estinguere, relegati nei loro villaggi, fedeli a se stessi, autoescludendosi. I napoletani non possono fare proprio questo, ma quasi».
I luoghi, gli edifici, i paesaggi del DECAMERON corrispondono alla topografia immaginale di un medioevo fantastico (che Pasolini trasfigura e non ricostruisce). C'è Giotto (o Ambrogio Lorenzetti), ma c'è anche Pieter Bruegel (il Vecchio), e le contaminazioni, trasposizioni, trascrizioni iconografiche pasoliniane raffigurano un universo urbano straordinario, dove l'arcaico, il sacrale o il blasfemo riportano a un luogo senza tempo, a città invisibili dove il trionfo della festa restituisce il carattere apocalittico della società pre/contadina. Giotto/Pasolini ha una visione… è il Giudizio Universale (di Giotto) con una variante: al posto del Dio giudicante Pasolini mette la Madonna (Silvana Mangano) col bambino che guarda in macchina e accenna un sorriso dolce/amaro, mentre un coro di angeli accompagna le impiccagioni e gli scorticamenti degli infedeli. I tableaux vivants di Pasolini conferiscono al DECAMERON una struttura scabra, incisiva, di suggestiva coralità, dove i primissimi piani dei ritrattati sono fortemente sottolineati e intersecati a piani lunghi di scene brulicanti di gente allegra e disastrata, una specie di primitiva corte dei miracoli.
Lo stile essenziale, metaforico, insolente del cinema ereticale pasoliniano mescola il tragico e il comico, si porta fuori da ogni ottimismo letterario, lascia debordare dallo schermo il pessimismo della differenza e come la goccia di olio buono di Nietzsche si serve della lingua (anche del cinema) per storpiarla e renderla viva. Pasolini scippa Boccaccio (come Chaucer, Matteo o l'anonimo amanuense de Il fiore delle Mille e una notte) per ri/portare alla luce le lacerazioni profonde del passato, esporle come fratture, percorsi, passaggi di ciò che c'è stato di atroce ma anche di bello nell'esistenza utopica delle genti. Accetta l'avventura eretica in piena coscienza, sa di contagiare le ossessioni e le nostalgie dell'istante prestabilito in cambio di lordure istituzionali… la poesia cinematografica dell'infamia che disperde sullo schermo assurge il clima dell'incompiuto, dell'imperfezione, della caduta libera degli angeli ribelli che hanno dato un'anima a un'umanità, che forse non l'ha mai avuta e l'ha solo sognata. Più di ogni altro autore del cinema italiano, Pasolini ha rappresentato la dissoluzione della storia della cultura, si è fatto profeta dello stupore come dell'eros liberato da tutti i pantani dei valori costituiti e ha portato la buona notizia che tutte le mitologie muoiono sotto i colpi delle verità che le disvelano. La grandezza di un'epoca non si misura sul conto dei cadaveri, ma sul sorriso senza tempo e senza guerre dei bambini.
Nel DECAMERON c'è una ricostruzione dell'ambiente molto teatrale, intesa però come quel rito sublime che è stato per secoli il teatro popolare, la commedia dell'arte. L'immaginale fantastico di EDIPO RE o di MEDEA qui è deposto nel gioco, nell'irriverenza ludica di una quotidianità eversiva, lasciata alla deriva d'impudenze libertarie che nessuno gli perdona. L'attoralità del DECAMERON è particolare. Straniante, allusiva, dirompente… gli interpreti sono icone, maschere, doppi di una vitalità sognata dal poeta che diffida di ogni sorta di spettacolare inventiva per aprirsi a una folle maternità di viva indecenza. Franco Citti è un Ciappelletto di notevole bravura e Ninetto Davoli aleggia la solita allegrezza sfrontata e delinea un Andreuccio con punte di goduta interpretazione (quando cade nella merda). Pasolini si ritaglia il personaggio di Giotto su misura. Lui dice che è stato costretto a indossare i panni del pittore per il rifiuto degli amici Sandro Penna e Paolo Volponi, ma difficilmente possiamo immaginare un altro interprete al suo posto… la garbata ironia che mette in scena, il senso del tempo di ripresa (molto corto) o il buffetto con la vernice sul naso di uno dei suoi garzoni… sono di pregevole fattura e sembrano dire che «un'idea che non sia pericolosa non merita affatto di essere chiamata idea» (Oscar Wilde). Il poeta che inventò la lingua delle api aveva le ali gialle e lo sguardo trasparente: un giorno si perse nel profumo dei fiori e non tornò più… la fine di ogni sudditanza è contemporanea all'incendio dell'incomprensibile… dove i potenti balbettano di paura di fronte al canto irrequieto degli angeli del non-dove che portano la loro immaginazione folgorante fino agli estremi.
Il secondo atto della Trilogia della vita è I RACCONTI DI CANTERBURY: Pasolini lo scippa dai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer. Qui la poetica della gioia pasoliniana soffia sotto le ceneri del passato e riesce a cogliere gli istanti di un'epoca della spontaneità e della purezza dove attraverso la violazione dei significati, della parola, dei valori costituiti… innesta l'invettiva, la polemica, la provocazione necessarie a risvegliare la libertà dell'immaginazione… è un energia randagia, un fuoco ereticale, un incendio dell'anima ciò che Pasolini dispone sullo schermo… le concatenazioni delle immagini sono tese a raccontare trascendenze ed elevatezze dell'utopia che si coagulano, si intrecciano o si amalgamano in una conoscenza originaria della storia come coscienza personale di una sognata società ludica. Solo l'immaginario insegna al reale a superarsi, perché l'immaginazione ingigantisce ogni cosa, accende le passioni, anticipa i conflitti e spezza i destini preordinati dell'umanità. Pasolini rivisita Chaucer, ma come è accaduto per Boccaccio lo contamina, lo sconvolge e lo relega in una malinconica allegrezza erotica, impudica, fratturata in scene e siparietti da commedia dell'arte… l'insieme è ancora più estremizzato che nel DECAMERON e la messa in scena della "diversità", della "mostruosità", del "repellente" assume qui una filosofia dello sconcio (della disinibizione dell'immaginale) e una poetica del fuoco (della distruzione della storia) che non poco hanno fatto sobbalzare i critici del restauro e i lettori abusivi del cinema d'autore.
Il sarcasmo pasoliniano si fa forte nelle scene d'insieme… le scurrilità della "Donna di Bath", il "sesso degli angeli" esposto senza falsi pudori e la complicità laida, ciarliera, infame della classe "alta" (interpretata da attori professionisti) con quella trucida, furfantesca, servile del popolo (preso dalla strada) chauceriano… allargano il limite dell'indicibile, fanno di una diversa rappresentazione dei corpi e dei linguaggi (qui Pasolini impiega ancora dialetti diversi) uno sbilanciamento del terribile che richiama fuori dall'apparenza di ciascuno il diavolo che è in tutti. Il Peterkin di Ninetto Davoli è spumeggiante. Forse troppo. Una macchietta da avanspettacolo che strappa sorrisi e malinconiche ribalderie. È comunque un omaggio riuscito a Charles Chaplin (con tanto di bombetta e bastoncino) e una rivisitazione delle comiche del cinema muto americano. Il riferimento chapliniano è Sunnyside (Un idillio nei campi o Charlot campagnolo, 1919). Erano i tempi in cui la surrealtà anarcoide di Charlot vagabondava tra Nietzsche e il cinema di David W. Griffith, che proprio nello stesso anno di Sunnyside firmava la sua opera più amara e poetica, Broken Blossoms (Giglio infranto, 1919).
I vagabondaggi urbani di Ninetto ridicolizzano gli agenti di polizia, l'omone con i baffi "alla tedesca", e invitano a una vita senza né tetto né legge, che s'invola nell'accidente, nell'imprevisto, nel gioco portato all'estremità surreale del sogno, dove l'immagine interiore diviene vera, viva, altra… tanto quanto la realtà oggettiva delle cose. Lungo il film i lazzi e gli sberleffi delle "slapstick-comedies" di Mac Sennett sono molti, ma ci sono anche rimandi ad autori più raffinati come Kurosawa (Rufo e il tesoro nascosto) e Ingmar Bergman (l'esattore/Diavolo). Nel prologo Pasolini dice: «Tra scherzi e giochi grandi verità si possono dire». Lo sguardo pasoliniano del grottesco pone l'accento sull'immoralità del potere e la genuflessione arcaica del popolo. I sottoproletari napoletani del DECAMERON somigliano molto ai popolani inglesi e la fisicità denudata dei corpi viene incorniciata in ambientazioni più distaccate, quasi fredde, spesso suggestive (come il bordello, l'inferno/Etna o la reggia di Gennaio). Il film si chiude con un «Amen» ed è difficile non apprezzare il senso di utopia che contiene.
Qualcuno vede Pasolini come «il primo regista pagano del cinema moderno» (Dominique Noguez) e IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE sembra dargli ragione… infatti, il film è un piccolo capolavoro sulla gioia di vivere in un "buon posto" (Eutopia) dove ancora i giovani possano stupirsi e meravigliarsi dell'amore, dell'amicizia, della fraternità… La vita e la morte, l'eros e la tenerezza, la malinconia e la solitudine… sono disseminati in un'atmosfera celestiale/angelica dove la verità intera non è mai parte di un sogno, perché «è in molti sogni» (Pier Paolo Pasolini). La razionalità e la cultura dell'universo borghese/occidentale sono abiurati e le storie ad incastro che infiorano lo schermo ri/creano quel «sentimento dell'altrove» (Pier Paolo Pasolini) che fuoriesce dalla favola e ri/porta nella realtà l'afflato fantastico dell'esistenza amorosa senza steccati.
Prima di essere assassinato su un campetto di calcio della periferia romana da un marchettaro semianalfabeta, che non poteva essere solo a compiere questo omicidio… (Ostia, nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975), Pasolini porta a termine un'opera controversa, dura, di grande spessore eversivo, SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA (1975). Nessuno gli perdona la «cattiveria del nuovo» (Bertolt Brecht). Dalla sacralità del miele libertario de IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE, Pasolini passa alla dissacrazione del fiele fascista/borghese e figura come nessuno il letame del mondo. Rivisita De Sade e lo riattualizza, passando per Baudelaire, Proust, Nietzsche, Klossowski, Huysmans, Kafka, Barthes, Dante… ambienta il film nei "colpi di coda" del regime fascista, la Repubblica di Salò. La ricerca della provocazione è forte, ossessiva, irriverente, mirata a risvegliare il proibito mascherato nel moralismo cartaceo/comandamentale dell'uomo. Un presidente, un magistrato, un duca e un vescovo si ritirano in una villa veneziana con un gruppo di ragazzi e ragazze, fatti rastrellare nella campagna da giovani soldati repubblichini e collaborazionisti… I quattro potenti scrivono il loro catechismo, diviso in un "Antinferno" e tre gironi: girone delle manie, girone della merda e girone del sangue. Tre megere narrano a turno situazioni erotiche estreme, mentre una quarta signora accompagna le loro descrizioni al pianoforte. I loro racconti solleticano gli appetiti pornografici di tutti… la masturbazione, il voyeurismo, la coprofagia, il tradimento, la tortura, l'incesto… vengono assemblati in una scenografia di straordinaria bellezza e Pasolini elabora un apologo sulla tristezza e la violenza del potere che resta il più radicale apologo antifascista della storia del cinema. Il carnefice (l'immunità del potere) e la vittima (l'anomia dell'uomo-massa) incarnano lo stesso desiderio, lo stesso disperato bisogno di dominare e di essere dominati.
Con SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA, Pasolini dà battaglia all'indifferenza, s'invola nei luoghi estremi dell'eresia e fa della «prigionia totale dell'offeso nelle maglie dell'onnipotenza» (Giovanni Franzoni) l'origine di tutte le soggezioni e il principio di tutte le liberazioni. Ecco le sue ultime parole (scritte per l'intervento al congresso del Partito Radicale e mai pronunciate): «Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare» (Pier Paolo Pasolini). Sfugge alla venerazione di Dio solo chi sceglie l'eresia come forma estrema di libertà possibile. I massacri delle democrazie appartengono alla rapacità dei governi, dei tiranni, dei generali, dei preti… i massacri dell'antichità all'idolatria povera della stessa gente, ma almeno avevano un'aura di stupida profanazione del passato. Gli imbecilli della modernità, fortunatamente, sono progressisti. Entusiasti in eterno e convertiti ad ogni forma di rassegnazione… gli imbecilli danzano con le spoglie di Marx, Cristo e il feroce Saladino. La missione storica che li riguarda, oltre ad inventare qualità superiori di terrorismo, sono i ceppi della prossima tirannia.
La lavorazione di SALÒ… suscita perplessità e il cast è tenuto in una specie di limbo espressivo dove nessuno sa bene cosa fare o cosa interpreta (nemmeno i pochi attori professionisti). Nessuno ha il copione e quelli che circolano sono soltanto canovacci senza dialoghi. Gli attori dicono le battute al momento delle riprese e sovente sono solo numeri… la dissolutezza del crimine viene degradata in lunghi silenzi ed estenuanti monologhi, la lingua della violenza afferma una visione della realtà che è aberrazione, una disperata corruzione o gioco al massacro della "perduta giovinezza". Pasolini si scaglia contro ogni forma di educazione istituzionale, fa un discorso da "cattivo maestro" o "profeta solitario" dove l'etica del male diviene una lezione di vita che provoca (fa uscire fuori) una rivisitazione/scontro tra Eros e Thanatos (tra amore e morte), che rimandano le loro pulsioni alla lotta della coscienza. Elsa De Giorgi, Caterina Boratto e Hélène Surgère (doppiata da Laura Betti) interpretano le puttane con grande pregnanza del ruolo… sul corpo fuori tempo della Boratto sembra passare tutto il "cinema in camicia nera" e il volto incipriato, diafano della Surgère ricorda non poco la Gloria Swanson di Viale del tramonto di Billy Wilder. Gli otto ragazzi e le otto ragazze appaiono un po' spauriti o perfino troppo ribaldi… anche i quattro soldatini alternano momenti di legnosità figurale ad altri più sanguigni; nell'insieme ne risulta un'attoralità così estraniante e frammentata, di difficile decifrazione.
SALÒ… è una requisitoria radicale contro il potere e il suo messaggio non lascia spazio che a una ritrovata/utopica innocenza giovanile (vedi il pugno alzato comunista e il ballo finale dei due giovani). L'utopia pasoliniana qui è tanto più forte quanto più feroce era cresciuto il suo scetticismo nei confronti della nuova gioventù: «… come potrei più fare film come quelli della Trilogia della vita? In Oriente ci sono stato, non posso mica tornarci. Qui, hai voglia a tagliare capelli alle citrulle in jeans attillati e barbe da menippi o da bramini: ciò che salta fuori è sempre la stessa faccia infelice e vagamente sinistra che ti guarda non si sa se con provocazione o con aria supplice, se mediti di chiederti aiuto o di darti un calcio. Non resta che adattarsi. E poiché l'adattamento è una sconfitta e la sconfitta rende aggressivi e magari anche un po' crudeli, ecco Salò, o diciamo pure Salaud» (Pier Paolo Pasolini). La critica è feroce. Coglie il cuore della realtà giovanile del nostro tempo. Il film resta a testimoniare quell'angoscia di morte (e quella folgorazione utopica della vita) che Pasolini ha espresso in tutta la sua opera. SALÒ… è il film di Pasolini che Glauber Rocha preferisce, «perché - dice il poeta dell'estetica della fame e dell'estetica della violenza latinoamericana - penso che sia il migliore dal punto di vista della forma: sono belle le inquadrature, è ben montato, ben recitato e il film diventa un corpo convincente, con una sua violenza esistenziale, e non la violenza teorica degli altri film. Perché in SALÒ egli dice la verità quando afferma: Ecco, io sono pervertito, la perversione è il mio personaggio, il mio protagonista ama i torturatori come io amo il mio assassino». Ciascuno è profeta o vittima della propria intelligenza come della propria morte.
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© Federico Garolla |
Il montaggio di SALÒ… assorbì Pasolini per quasi due mesi. Come è noto, lui era tra quei poeti del cinema che teorizzava il processo di montaggio alla moviola, il momento in cui la scelta dei materiali è anche una scelta di morte, cioè di libertà creativa dell'autore che si manifesta nell'opera. Il 31 ottobre (1975, venerdì), il produttore (Alberto Grimaldi) visionò la copia appena stampata di SALÒ… e suggerì a Pasolini alcuni tagli riguardo a certe scene di coprofagia… pensava che nel momento in cui quel personaggio col volto sporco di merda, dopo aver baciato un compagno, era costretto a mangiare degli escrementi… «la gente sarebbe uscita dalle sale» (Alberto Grimaldi). Pasolini acconsentì di tagliare qualche cosa nei giorni successivi, ma il film sarà contaminato da altre mani e altre intenzionalità "poetiche". Quella notte (tra l'1 e il 2 novembre)… Pasolini viene ammazzato a bastonate (per una marchetta) da un "ragazzo di vita"… ai limiti di un campetto di calcio tra le baracche di Ostia.
Il profumo di cinema selvatico di SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA non piace a nessuno. Né ai fascisti, né ai comunisti, né ai democristiani, a nessuno. Pasolini sconcerta, provoca, bestemmia… non mescola solo il sadismo col fascismo, il freudismo col marxismo, la blasfemia con l'adorazione dei miti… costruisce una profezia ereticale contro il fascio dei poteri e ci rovescia dentro di tutto… da Evola a Gentile, dal libertinaggio eresiarchico all'apologia del piacere (seduzione, prostituzione, tortura)… come forma ultima di disgregazione sociale, illustra il fascismo ordinario nel labirinto esegetico di una perversione culturale senza via d'uscita… in questo senso il suo film «vale come riconoscimento oscuro, in ognuno di noi mal controllato, ma certo imbarazzante» (Roland Barthes), che smaschera timori malcelati e aperture desiderate. Sotto questo taglio non ci sono atrocità nel lavoro pasoliniano ma soltanto orrori solidificati e celati nelle coscienze educate nei valori dominanti. Salò-Sade è l'insieme delle passioni, dei bisogni, dei desideri di amore e di libertà di un poeta maledetto, di un autore cinematografico corrosivo, sempre al limite tra l'abbordaggio immediato e l'alba della rivolta nel nome (gramsciano) di un rosso straccio di speranza.
SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA circola appena 12 giorni (incassa più di 40 milioni di lire, ne era costato 800.000), poi il Procuratore della Repubblica di Milano lo fa sequestrare e inizia un procedimento penale contro Pasolini e Grimaldi per «commercio in pubblicazioni oscene»… poiché il film era «caratterizzato totalmente da immagini e linguaggio tesi a rappresentare deviazioni e perversioni sessuali con particolare compiacimento su scene di accoppiamenti omo e eterosessuali, di coprofagia, di rapporti sado-masochistici». Grimaldi e Pasolini si difesero sostenendo che le immagini del film «non erano realistiche ma simboliche» (Alberto Grimaldi), e in ogni caso erano parte di un'opera di grande contenuto poetico. La Corte visionò il film il 26 gennaio e il 30 ne confermò il sequestro. La Procura di Roma fu solerte quanto quella di Milano e il 19 febbraio accusò Grimaldi di «corruzione di minori» e «atti osceni in luogo pubblico» (avvenuti nel corso delle riprese del film). I procedimenti penali contro il film, l'autore e il produttore si allungarono e varcarono le frontiere… a Francoforte e a Stoccarda l'Associazione dei genitori cattolici e "movimenti" per il "buon costume patrio" ricorsero ai tribunali e impedirono la programmazione. Il 27 aprile 1977, il corrispondente sovietico delle Izvestija, dalle colonne del Corriere della Sera, faceva udire la sua voce e scriveva che SALÒ… «è il peggior cumulo di sadismo e masochismo che mai si fosse visto al cinema… Pasolini ha scelto un soggetto antifascista al fine di mostrare la violenza sotto tutte le sue forme. Il suo film non rende omaggio alla resistenza italiana ma la insozza». Gli rispondiamo che chiunque non ami il "caos" della poesia non è un creatore e chiunque disprezzi la folgorazione dell'utopia non ha nessun diritto di parlare dello spirito libertario che ha spinto l'uomo/la donna a liberarsi delle loro catene.
SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA ha continuato ad essere sequestrato, dissequestrato, processato fino agli anni Ottanta… e infine assolto dalla Corte d'Appello di Milano (sentenza confermata in Cassazione), che lo giudicò «opera d'arte e documento di raro valore etico». SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA - sotto qualsiasi taglio lo si veda o giudichi - resta il film più tormentato ed eversivo di un maestro del cinema di poesia. Quando Pasolini viene assassinato ai confini di una periferia invisibile - come uno dei personaggi che tante volte aveva descritto/filmato nelle sue opere -… per molti era morto l'Agnus Dei, per altri un teppista degenerato. Per qualcuno era scomparso uno dei più grandi poeti del nostro secolo, un maestro del cinema civile, un uomo con le sue difficoltà esistenziali e i suoi sogni amorosi, spezzati dalla stupidità di un ragazzo di borgata incapace di amare e di essere amato. Sui resti di Pasolini ancora sporchi di sangue e del fango di periferia… qualcuno si era affrettato a dire che con la sua scomparsa anche il suo pensiero aveva cessato di esistere. È vero il contrario! A dispetto dei suoi scorticatori di professione (in abito talare o in doppiopetto fa lo stesso)… Pier Paolo Pasolini continua ad essere un riferimento costante della cultura/politica internazionale e l'insieme delle sue opere continuano a partecipare, a combattere, a insorgere a fianco degli oppressi di tutto il mondo. Pier Paolo Pasolini è vivo, perché è viva la poesia utopica/ereticale del suo pensiero. Ti puoi dimenticare con chi hai riso, ma non ti dimenticherai mai con chi hai pianto o sognato un mondo più giusto e più umano per tutti.
1 Sandro Petraglia, Pier Paolo Pasolini, La Nuova Italia, 1974.
2 Karl Marx, Urtext (Grundrisse), Edizioni International, 1977.
3 Un cinema per l'uomo, a cura di Vittorio Bicego e Giorgio Bruni, Guaraldi, 1978.
4 Pier Paolo Pasolini, cit.
5 Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, 1977.
6 Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, 1975.
7 Id., La gioventù assurda, Einaudi, 1975.