UN APPROCCIO SINTETICO E CRITICO ALL'ANARCHISMO
A motivo della complessità del pensiero definibile anarchico, la cosa migliore sarebbe non dare una definizione di anarchismo. La stessa semantica del nome non aiuta affatto. «Anarchia» viene dal greco ed è parola composta da un α privativo e dalla radice αρχ- (arch), indicante comando; e infatti la troviamo nel verbo archiin1, «comandare» - ragion per cui generalmente la si traduce con «senza-comando», «senza-potere», «senza-autorità»; ma poiché la parola archí significa anche «principio» oppure «origine», anarchia finisce col significare «senza principio», «senza divinità», «senza dogmi». E l'anarchismo è il versante ideologico-programmatico-operativo con cui si vuole esprimere questi concetti. In senso politico fu usato per la prima volta - e negativamente - nel 1793 dal girondino Jacques Pierre Brissot per designare la corrente degli Arrabbiati, rivoluzionari radicali pronti alla critica
di ogni autorità. Poi, nel 1840, Proudhon dette un significato positivo ad anarchia e
anarchismo.
I dati semantici sopra esposti, come si diceva, non fanno capire molto, e possono anzi legittimare tutte le critiche di parte avversa, giacché se ne può anche ricavare il significato di mancanza di organizzazione, in assenza di comando e potere, cioè di un principio direttivo. Da qui il problema di come sia possibile la gestione di società quand'anche minimamente complesse, per non parlare di quelle contemporanee, che sono ultracomplesse. Quando poi si va a guardare alla storia dell'anarchismo si scopre quanto segue: nel secolo XX gli anarchici hanno partecipato attivamente a tre rivoluzioni, la messicana, la russa in Ucraina e la spagnola, e in nessuno di questi casi erano privi di un'organizzazione, né si sono
astenuti dal praticare la coazione verso i nemici di classe (anzi, ne erano il terrore in senso proprio). Si dirà che una situazione rivoluzionaria è del tutto particolare, per non dire eccezionale, e che quindi il problema di fondo resta.
A questo punto fermiamoci un attimo e vediamo di tracciare le linee fondamentali dell'anarchismo. Il mondo anarchico è definibile una galassia, giacché al suo interno esistono varie correnti di pensiero e di azione non tutte collimanti; anzi, fra esse le differenze e i contrasti esistono e sono accesi. Agli estremi abbiamo individualismo esasperato - a volte nichilista, e comunque più esistenziale o letterario che politico - e collettivismo spinto. Fra questi antipodi si trovano varie opzioni di rilievo politico: anti-organizzativismo (più vicino all'individualismo), anarco-comunismo (detto anche, nei paesi ispano-portoghesi, comunismo libertario), anarcosindacalismo, anarco-insurrezionalismo, anarco-pacifismo, anarco-ecologismo ecc.
Sotto vari aspetti l'anarchismo si propone come la continuazione e la correzione della rivoluzione francese, nel senso di propugnare - dopo la conquista dell'uguaglianza politica - una vera eguaglianza sociale ed economica; il che si traduce in lotta senza compromessi contro il capitalismo e per l'abolizione del lavoro salariato. Ma nella galassia anarchica c'è tutto e il contrario di tutto; e così ci si imbatte anche, con matrice anglosassone, in un settore anarco-capitalista, che esalta il diritto di proprietà privata (quale diritto naturale assoluto) e il libero scambio, pur affermando - insieme a tutti gli altri anarchici - la non necessità dello Stato per una società liberata e libertaria. L'anarco-capitalismo non si identifica, ma neppure è in contrasto, con le posizioni dell'ottocentesco individualismo dello statunitense Benjamin Tucker, sostenitore di un'uguaglianza sociale realizzata mediante il mercato libero inteso come redistributore delle risorse; in teoria il suo vagheggiato mercato libero, eliminati gli impulsi egoistici, sarebbe sfuggito alle distorsioni.
Alla luce di tutto ciò, è evidente che l'anarchismo non si traduce in un corpo ideologico specifico. Sarebbe meglio considerarlo un àmbito generico al cui interno ciascuno effettua poi le proprie opzioni, teoricamente senza imporle agli altri, ma limitandosi a propagandarle col pensiero e l'azione, gettando così dei semi nella società, a cui spetta poi di sceglierli e farli fruttificare. Infatti, l'imposizione di una delle opzioni esistenti in nome dell'anarchia non sarebbe cosa anarchica. Prima abbiamo usato l'avverbio "teoricamente", poiché all'atto pratico questo non succede: basti pensare alla lotta accanita condotta dal resto della galassia anarchica contro i settori anarco-comunisti e anarco-sindacalisti per tagliare a essi l'erba sotto i piedi, non senza ricorrere a colpi bassi e scorrettezze varie. Anche gli anarchici sono esseri umani, cosicché non ci si deve aspettare che alla teoria corrisponda la prassi sempre e totalmente.
Per quanto al suo interno il contesto anarchico sia più che variegato, l'obiettivo finale resta la nascita di una società di liberi e uguali sul piano dei diritti liberata dalla presenza dello Stato (organismo sovraordinato alla società stessa). Libertà ed eguaglianza sono gli assi portanti. Essi, però, sono interpretabili, e qui ricominciano le divergenze. Le maggiori riguardano da un lato gli anarco-comunisti e gli anarco-sindacalisti, che coniugano la libertà con l'uguaglianza economica e sociale difendendo il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione, dall'altro i sostenitori del libero mercato e gli anarco-capitalisti, per i quali le naturali differenze fra gli individui rendono impossibile questo obiettivo, visto come lesivo dei diritti individuali. Ma, come già aveva sostenuto Bakunin in polemica con Marx, la libertà senza uguaglianza è una malsana finzione, l'uguaglianza senza libertà è dispotismo dello Stato, e per esistere lo Stato dispotico deve avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata che, se non viene incarnata dai capitalisti, lo è dalla burocrazia.
Circa la libertà - a differenza dell'impostazione liberale, che vede finire la libertà personale laddove comincia quella di un altro -, per gli anarchici quella dell'individuo non viene limitata, bensì confermata dalla libertà altrui. Di qui l'interesse del singolo a che siano aumentati gli spazi di libertà degli altri. La libertà porta ad affermare il principio dell'autogestione, per il singolo come per le collettività. Ma la libertà non è conseguibile all'interno dello Stato e delle altre istituzioni basate sul dominio dall'alto.
A parte gli individualisti, in merito all'organizzazione sociale gli anarchici propongono il federalismo, nel senso che la gestione degli affari collettivi avverrebbe direttamente da parte di liberi organismi federati. Nelle imprese l'autogestione consentirebbe di sostituire il lavoro salariato con il lavoro associato; e le federazioni dei produttori, delle comuni, delle regioni permetterebbero di fare a meno dello Stato come ente sovraordinato alla società. Alla base di tale assetto organizzativo sta il contratto, volontario e modificabile da parte
dei contraenti (associazioni dei produttori, dei consumatori, singoli ecc.). Nel contratto federativo sono da indicare diritti e doveri singoli e collettivi, regolamentando anche gli inevitabili conflitti, ma senza rimettere in discussione l'autonomia dei membri della società.
L'anarchismo come fenomeno politico e ideologico nasce nel secolo XIX, ma non con Proudhon, bensì con Michail Bakunin e i suoi seguaci; e nasce come comunismo libertario, cioè in un'ottica di forte socialità da conciliare con l'autodeterminazione della persona, e quindi con la libertà nella società. Carlo Cafiero (collaboratore di Bakunin) si definì «anarchico perché comunista e comunista perché anarchico». Considerare anarchici il settecentesco Godwin o l'ottocentesco Stirner è fuori luogo: in qualche modo il primo è da porre in uno spazio anteriore all'anarchismo, il secondo rientra invece nella sfera dell'individualismo asociale e amorale.
L'influenza generale dell'Ottocento europeo è facilmente riscontrabile nei testi classici dell'anarchismo e si esprime in un ottimismo antropologico di fondo, tipico di quei tempi antecedenti alla grande rivoluzione scientifica a cavallo fra secolo XIX e XX, con particolare riguardo alla psicologia e alla psicanalisi. Era rimasta comunque ignorata la lectio del
settecentesco Étienne de La Boétie sull'oscura pulsione alla servitù volontaria esistente nell'animo umano. In linea di massima questa caratteristica persiste, per quanto sia le esperienze storiche del secolo passato, sia le moderne acquisizioni delle c.d. «scienze umane» avrebbero dovuto portare a una revisione profonda di molte ottimistiche certezze del pensiero anarchico «classico», bandendo schematismi astratti che privilegiano automatismi e semplificazioni. Ad esempio, il Programma Anarchico del 1919 e molti scritti di Errico Malatesta tracciano il quadro di una rivoluzione che abbatte «in tempo reale» il tiranno/Stato e pone le basi di una società libertaria che poi si difende con una certa «facilità» o «disinvoltura» da dissidenti e nostalgici del passato regime. Nella realtà si sono avuti il leninismo/stalinismo, il fascismo, il nazismo, la tragica esperienza della Spagna, l'espansione internazionale del dominio delle mafie e delle multinazionali, il capitalismo globalizzato, l'impero Usa, il radicalismo islamico ecc.; tutti fenomeni di fronte a cui l'anarchismo si è trovato impotente, continuando a cozzare con le realtà sociali, politiche ed economiche circostanti.
Per essere sintetici, dopo la rottura nella Prima internazionale fra Marx e Bakunin, con il fallimento dei moti rivoluzionari bakuninisti e poi con la rottura fra socialisti e anarchici, nel movimento anarchico cominciarono a penetrare idee individualistiche di matrice borghese (il che fu oggetto di un apposito pamphlet critico di Luigi Fabbri), si formarono correnti anti-organizzativiste, si diffuse l'esaltazione del gesto terroristico isolato e venne fuori la figura dell'anarchico secondo lo stereotipo forgiato dalla propaganda borghese, che naturalmente ci andò a nozze. Vale la pena notare che la partecipazione di siffatti anarchici alle tre rivoluzioni dianzi menzionate è stata sostanzialmente nulla, mentre numerose sono state le loro critiche agli anarchici che vi presero parte e comunque a quelli di impostazione rivoluzionaria. Basti pensare a quanto accaduto all'ucraino Nestor Machno e al francese Georges Fontenis, in buona sostanza accusati di cripto-bolscevismo dalla maggior parte della galassia anarchica, ormai attestata su posizioni solo parolaie. Tant'è che, in base all'attuale stato del movimento anarchico, lo storico George Woodcock ha terminato con la sconfitta nella rivoluzione spagnola la sua storia dell'anarchismo:
«Ho fissato come limite di questa storia dell'anarchia l'anno 1939. La data è scelta di proposito: quell'anno vide la morte, in Spagna, del movimento anarchico fondato due generazioni innanzi da Bakunin. Oggi vi sono ancora migliaia di anarchici sparsi in molti paesi del mondo. […] Ma sono soltanto il fantasma del movimento anarchico storico, un fantasma che non ispira paura ai governi né speranza ai popoli e nemmeno interesse ai giornalisti»2.
L'emarginazione delle correnti comuniste anarchiche (risultato a cui hanno contribuito anche la sconfitta della rivoluzione spagnola, lo scontro sanguinoso avvenuto al suo interno fra anarchici e stalinisti, e poi l'egemonizzazione dell'estrema sinistra ad opera dei partiti comunisti legati all'Urss, grazie all'enorme prestigio da essa acquisito con la vittoria contro la Germania) ha influito sul distacco fra mondo anarchico e mondo del lavoro: il legame con esso aveva costituito la sua vera forza sociale originaria.
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Camillo Berneri |
Non si può non rimarcare nel mondo anarchico una certa - e negativa - imprecisione terminologica, causa o frutto di confusioni teoriche. La principale è quella relativa al «potere»: stampa e discorsi anarchici pullulano di tirate contro il potere. Orbene, senza peraltro uscir fuori dalla dimensione dell'anarchismo, si deve distinguere fra tre concetti diversi
tra loro: a) il potere, quale funzione sociale regolatrice, ovvero quale insieme di processi attraverso cui la società si autoregola, producendo norme, applicandole e facendole rispettare; b) l'autorità, come insieme delle facoltà e delle capacità di decisione tipiche di una complessa divisione sociale del lavoro, con funzioni e ruoli differenti; c) il dominio, quale monopolio del potere esercitato da una minoranza, politica ed economica, che esclude da questo esercizio reale tutto il resto della società. Ne consegue che il fine dell'anarchismo consiste solo nella distruzione del dominio, mentre invece potere e autorità sono funzioni sociali in sé neutre, non eliminabili nemmeno nell'ipotetica società libertaria3.
Se ancora si vuole fare perno sulla parola «autorità» (o «potere»), allora si deve muovere dalla distinzione fatta da Erich Fromm (un altro pensatore ebreo) fra autorità (o potere) razionale e autorità (o potere) irrazionale4. Quella razionale è sempre temporanea, si basa sul sapere e sulla competenza e controllo e critica non le fanno per niente male. Quella irrazionale, invece, è imposta, si basa sulla disuguaglianza e ne produce a sua volta e sottopone controllo e critica a limiti funzionali solo al suo perpetuarsi. E allora - in questo senso - si dirà che l'anarchismo combatte autorità (e potere) irrazionale.
Circa il modo di arrivare alla distruzione del dominio - politico, economico e sociale - dalla galassia anarchica sono provenute ipotesi, proposte, progetti la cui realizzazione innanzitutto compete alla libera sperimentazione del corpo sociale in cui si sia avviata la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo (di cui il lavoro salariato è parte essenziale). Questo perché non esistono «rivoluzioni anarchiche», bensì rivoluzioni sociali a cui partecipano gli anarchici, disseminando le loro idee libertarie e auspicandone l'egemonia.
Un valore fondamentale per l'anarchismo è la libertà dell'individuo. Tema delicato che non può essere affrontato astoricamente, bensì in rapporto alle situazioni storiche specifiche e alle loro complessità, tanto che un revisionista come Camillo Berneri (ucciso nel '37 a Barcellona da agenti stalinisti), nella sua lotta contro ciò che definiva «cretinismo anarchico», ammoniva a considerare la piena dimensione dell'anarchia come la linea dell'orizzonte a cui tendere, sì, ma che si sposta via via procedendo verso di essa.
Al di fuori di un certo anarchismo esistenziale alquanto diffuso, sta di fatto che la lotta al dominio implica una contrapposizione senza mezzi termini virtualmente proiettata alla fase della rivoluzione sociale, e a tale fine l'esercizio della coazione contro il nemico di classe serve anche a evitare di essere vittime della coazione operata da quest'ultimo. Dovrebbe ormai essere fuori discussione che una rivoluzione sociale deve fare i conti con una serie di fattori che le impediscono di essere un evento istantaneo, bensì la rendono un fatto di «durata». L'umanesimo anarchico punta, e giustamente, all'emancipazione dell'essere umano in quanto tale, che in definitiva è un punto di arrivo; il punto di partenza è la lotta degli oppressi contro gli oppressori e i loro complici e/o strumenti. La lotta rivoluzionaria degli oppressi e il suo sbocco insurrezionale non coinvolgono mai la maggioranza degli oppressi medesimi, ma solo la parte decisa a gestire il momento rivoluzionario anche contro il resto della popolazione. La rivoluzione, quindi, è l'evento coercitivo per eccellenza verso i sostenitori dell'ordine vigente. Il problema, naturalmente, sta nel non superare i limiti oltre i quali si avrebbe la rinuncia all'identità libertaria e l'avvento della
«dittatura rivoluzionaria» in favore solo di una parte dei rivoluzionari. La lotta di classe non è mai preceduta da sondaggi per verificare se abbia o no un consenso maggioritario. Semplicemente, raggiunto un certo grado di intollerabilità, alcuni sfruttati decidono di dire «no» all'assetto che li sfrutta, e si crea una contrapposizione di azioni e di forze per la prevalenza dell'interesse di un campo su quello dell'altro. Non è casuale che tra i comunisti anarchici dell'America Latina sia diffusa l'aspirazione al poder popular.
I programmi anarchici contemplano generalmente la libertà per tutti di propagare e sperimentare le proprie idee senz'altro limite che quello che risulta naturalmente dall'eguale libertà di tutti. Questo però esprime inevitabilmente un dover essere, e corrisponde alla laicizzazione dei mitologhemi di un ottimismo millenaristico che, seppure non escludibile in toto, perlomeno andrebbe proiettato in una dimensione temporale disgraziatamente
tutt'altro che prossima. Nello spazio rivoluzionario questa libertà non può che valere per i suoi specifici soggetti, non per il nemico di classe, altrimenti ne andrebbero
vanificate le conquiste. La rivoluzione sociale postula una libertà «da»: sfruttamento e dominio; e una libertà «per»: la realizzazione personale e sociale nello spazio liberato dallo sfruttamento/dominio nelle forme e nei modi che le masse rivoluzionarie attueranno. Se si consentisse a tali forme e modi di includere anche quanto la rivoluzione ha abbattuto, essa ipso facto si suiciderebbe. Per esempio, non erano autolesionisti i marinai rivoluzionari e anarchici che nel 1921 a Kronštadt si ribellarono alla tirannia bolscevica, chiedendo «la libertà di parola e di stampa per gli operai e i contadini, per gli anarchici e i partiti socialisti di sinistra»5, e su questa base nuove elezioni ai soviet. Non già per il nemico di classe appena sconfitto militarmente!
Se si mette da parte il deprecato anarco-cretinismo, uno dei punti di partenza per la società libertaria è un'organizzazione liberamente creata dagli stessi interessati in cui il potere sociale si muova dal basso verso l'alto, e non viceversa, come avviene nelle società basate sul
dominio6. Fini e princìpi determinano un'identità: ma nessuna identità si colloca in un limbo metastorico, bensì opera, si sviluppa e si attualizza in rapporto alla realtà esistente nel perseguimento dei propri fini. E se il costruttivismo eretico è parte essenziale della tradizione
anarchica nel suo sviluppo come parte fondamentale del movimento di emancipazione
dei lavoratori per giungere all'emancipazione dell'essere umano, allora continua ad
avere ragione un altro ammonimento di Berneri: «Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrine) e non può che dare ai princìpi un valore relativo».
«Relativo», tuttavia, non significa «violabile a piacimento», bensì esprime l'esigenza di una correlazione con un altro termine: vale a dire, la situazione effettuale. L'esaltazione assolutistica e astorica della libertà che riempie tante pagine degli anarchici va presa per quello che è: un approdo finale. Insegnava Berneri (purtroppo morto troppo presto, e prima che il suo revisionismo attecchisse davvero) che la libertà è inscindibile da un continuo rapporto
con le condizioni poste dalla necessità, in quanto la libertà non è solo tensione e
sforzo individuale, ma anche scienza dei nessi che collegano l'agire umano con un contesto storico determinato. Quindi, il farsi della libertà è «relativo» alla necessità, e la specifica discriminante dell'anarchismo è data dalla tensione per eliminare il dominio e ridurre l'autorità nei limiti della necessità7. I limiti della necessità fanno sì che nelle situazioni concrete in genere, e in quelle rivoluzionarie in specie, sia di estrema importanza riuscire a valutare correttamente in quale direzione si muovano gli avvenimenti. Se questi - per una già esistente forza organizzativa del movimento di lotta degli oppressi, e per un'eventuale posizione di tipo egemonico dell'ideologia anarchica - consentono di puntare rapidamente verso un assetto libertario della società, sarà del tutto controproducente rinunciare a dare la spallata decisiva alle strutture di dominio, statali e capitaliste, anche in termini coercitivi verso taluni degli occasionali alleati. Ma anche in una simile ipotesi, la necessità vorrebbe che il programma rivoluzionario degli anarchici facesse i conti con le condizioni storiche date in cui si opera, ivi comprese le tradizioni e le caratteristiche del popolo coinvolto dalla rivoluzione8.
La dimensione politica degli anarchici non si esaurisce solo nella lotta contro le istituzioni esistenti quali modalità di funzionamento delle strutture di dominazione e sfruttamento, ma deve include anche la lotta per la costruzione di un altro tipo di società, il cui massimo punto di arrivo è sostituire la politica con l'amministrazione. Punto di arrivo, ma obiettivo non facile da perseguire, che per ciò stesso implica una tensione dialettica attraverso contraddizioni e antinomie, non un passaggio immediato per realizzare le varie premesse costitutive.
CRISTIANI ANARCHICI E/O ANARCHICI CRISTIANI: PER STRANO CHE POSSA APPARIRE
Diamo qui alcuni cenni su un fenomeno che per i più è inaspettato, e sicuramente è poco gradito agli anarchici titolari di un ateismo «duro e puro». Per quanto gli aderenti a ideologie anarchiche o a movimenti rientranti nella variegata galassia dell'anarchismo siano al 98% atei intransigenti, tuttavia non sono mancate significative e illustri presenze di segno contrario. Guardare a esse con sufficienza, oppure ostilità, ha poco senso in nome della libertà di pensiero, poiché se esso è libero, allora non bisogna prestabilirne dogmaticamente
le direzioni da prendere. Diciamo subito - per quanto taluni storici ne vedano i
precursori nei «movimenti ereticali» del Medioevo e in Thomas Müntzer - che si tratta di una corrente dell'età contemporanea, essenzialmente nata in Russia, pur essendovi presenti personalità di altri paesi. L'origine russa non è priva di significato, essendosi sedimentata in quel paese una specifica atmosfera culturale/spirituale tale da fare parlare il teologo ortodosso Pavel Evdokimov (1901-1970) di estrema sensibilità verso la trasfigurazione del mondo e dell'esistenza, e verso l'eschaton apocalittico, talché «l'uomo russo è con Dio o contro Dio, giammai senza Dio. È del suo ateismo che un nichilista degli anni sessanta faceva un assoluto divino. Più tardi, per Lenin, Bodganov, Plechanov, il marxismo fu un vangelo, un messaggio universale di salvezza per tutti»9.
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Simbolo anarchico cristiano |
a) l'anarchismo cristiano
Questa corrente, chiamata anche «anarchismo religioso», ha ricevuto l'impulso formativo da Lev Nikolaevič Tolstoj (1828-1910), raccogliendo attorno a sé cristiani disposti a opporsi - in nome dei princìpi evangelici di giustizia, pace e libertà individuale - alle istituzioni di dominio temporale ed ecclesiastico. Pacifisti e non violenti per la maggior parte, essi ricavavano dal messaggio sociale dei Vangeli dottrine egualitarie e rivoluzionarie, giungendo all'anarchismo in particolare.
Tolstoj non si definì mai anarchico, poiché per lui questo termine stava a designare i fautori della trasformazione sociale con la rivoluzione violenta. Non si ispirò né a Bakunin né a Kropotkin (1842-1921), ma piuttosto a Proudhon (1809-1865). Comunque, egli elaborò una concezione fortemente radicale, seppure romanticamente utopista, non portatrice di un progetto politico di nuova società, ma volta piuttosto a una rigenerazione morale. Il suo anarchismo religioso si presenta come conseguenza socio/politica della sua concezione del Cristianesimo. Sul piano religioso fu propugnatore di una religiosità più etica e razionale che metafisica. Ovviamente teista, vedeva nel Cristo il sommo maestro etico e spirituale, ma non l'incarnazione di Dio, e incitava alla ricerca del Regno di Dio dentro di noi, non fuori.
Riguardo al rapporto con le istituzioni di dominio - ma anche di potere -, l'opposizione di Tolstoj fu senza mezzi termini e totale, in nome della sua religione, intesa come produttiva di uguaglianza e libertà completa per gli esseri umani. Ogni legge per lui era falsa e ingiusta, e bisognava liberarsene per giungere a un nuovo ordine basato solo sulla ragione e sull'obbedienza a Dio soltanto: ogni comando umano era rifiutato, insieme alla proprietà privata e allo Stato. La proprietà privata, perché oppressiva e fonte di dominio e sfruttamento fra le persone; lo Stato, perché incarna violenza istituzionalizzata ed è in contraddizione
con la realtà e i fini del Cristianesimo. Lo Stato ostacola la libertà dell'individuo e lo sfrutta in ogni modo, esigendone la sottomissione completa. In luogo dell'uso della forza, Tolstoj era fautore della resistenza passiva e della disobbedienza, opponendo alla violenza forza morale e amore. Qui per certi aspetti il pensiero tolstojano incontra quello di Kropotkin che, se non parlava di amore, era tuttavia propugnatore del mutuo appoggio per la libera organizzazione della futura società libertaria. Tolstoj ebbe seguaci in Russia e fuori. In Russia i suoi discepoli fondarono colonie basate sulla comunità dei beni e su un ascetico regime di vita; fuori dalla Russia, il suo pensiero influenzò in Olanda anarchici pacifisti e settori del Protestantesimo sociale, e in Francia il Cattolicesimo sociale di Emmanuel Mounier (1905-1950); per non parlare del Mahatma Gandhi (1869-1948).
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Simone Weil |
All'anarchismo cristiano va ascritto anche il francese Jacques Ellul (1912-1994). Giurista di formazione cristiana, studioso della società tecnologica, militante anarchico vicino al situazionismo, studioso del pensiero marxista e dell'ecologismo politico, amico di Ivan Illich (1926-2002), è stato anche uno dei padri delle teorie di decrescita ragionata e di semplicità volontaria e autore di lavori sugli aspetti sovversivi e liberatori del Vangelo e delle perversioni subite dalla rivelazione cristiana. Va anche ricordata l'israelita francese Simone Weil (1909-1943). Filosofa, attiva nell'estrema sinistra rivoluzionaria e nel sindacalismo, operaia meccanica nella Renault per scelta personale, si avvicinò a un Cristianesimo radicale tipologicamente anarchico e nel 1936, scoppiata la rivolta militare in Spagna, si arruolò come miliziana nella «Colonna Durruti» della Cnt/Fai. Entrata in un periodo di crisi spirituale e mistica, concentrò le sue riflessioni sull'affinità fra il Cristo e gli emarginati, sotto certi aspetti radicalizzando ulteriormente il suo pensiero sociale. Sarebbe interessante comparare la sua concezione cristificata degli emarginati con la Teologia della Liberazione della seconda metà del secolo XX. Quando i nazisti occuparono la Francia, fece parte della Resistenza. Nella sua coerente scelta etica di mettersi sempre dalla parte degli oppressi, Simone Weil sviluppò anche una serrata critica al marxismo e al suo materialismo - in quanto riduzione delle idee a espressione di forze economico/sociali -, e al determinismo propugnato da certi settori marxisti.
b) l'anarchismo mistico russo
Pur se influenzata da Tolstoj, la corrente definita «anarchismo mistico» può essere considerata autonomamente da lui, per la spiccata personalità dei suoi maggiori protagonisti, per l'ampiezza del suo orizzonte culturale e per il ruolo che ha cercato di svolgere dopo la rivoluzione d'Ottobre. Il poeta Georgij Čulkov (1879-1939) - ispirandosi al pensiero di Vladimir Solov'ëv (1853-1900) e di Dostoevskij - fu autore nel 1906 del Manifesto dell'anarchismo mistico, orientato anche verso problemi spirituali, filosofici, mistici, artistici ed etici, attraverso la lotta per la libertà. La libertà era considerata l'humus per rivendicare l'autogestione e l'emancipazione da ogni tipo di autoritarismo. Al centro di tutto c'era la trascendenza della persona umana nell'ottica proclamata da Gesù, e si sottolineava l'esigenza di una completa ristrutturazione della società in senso libertario. Altri esponenti di rilievo di questo orientamento furono il filosofo e matematico Aleksej Solonovič (1887-1937), sua moglie Agnja (1888-1937), il matematico Vasilij Nalimov (1910-1997) e il giurista
Apollon Karelin (1863-1926).
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Apollon Karelin |
Karelin - rivoluzionario in gioventù, deportato due volte in Siberia, rientrato pieno di entusiasmo in Russia dopo il febbraio 1917 - era destinato, per la sua graniticità battagliera, a entrare in rotta di collisione col governo bolscevico. La sua speranza in una grande rivoluzione sociale e libertaria, che rinnovasse e arricchisse spiritualmente l'essere umano, veniva progressivamente vanificata dalla pratica dittatoriale del regime impostosi sull'Ottobre sovietico. Si noti che proprio nella fase della delusione rivoluzionaria Kropotkin scrisse la sua opera filosofica di maggior spessore, L'Etica, che colpì vari osservatori per le evidenti tracce di ispirazione culturale cristiana. Per un breve periodo Karelin fu alla testa di un gruppetto di «osservatori» al Soviet Supremo, e per questo Paul Avrich (1931-2006), storico dell'anarchismo russo, lo definì «l'anarchico ufficiale dei sovietici». La cosa ovviamente durò poco e i rapporti col nuovo regime non furono certo facilitati da un articolo di Karelin in cui accusava i bolscevichi di aver distrutto la Rivoluzione. Ma se per i bolscevichi ogni discorso che si presentasse come spiritualista era controrivoluzionario - e quindi un nemico da perseguire -, per la Chiesa russa non era certo piacevole la tesi di Karelin per cui l'approfondimento del Cristianesimo si poneva al di fuori dalle istituzioni ecclesiastiche, altresì con la valorizzazione delle teologie personali. Durante gli anni Venti il gruppo riuscì comunque a operare, sia pure con difficoltà sempre crescenti, e a costituire nuclei in varie città russe.
Morto Karelin, venne il momento di Aleksej Solonovič, che morirà in prigione dopo uno sciopero della fame. Ne prese il posto alla guida del gruppo la moglie Agnja, che verrà poi arrestata e fucilata. L'ondata di arresti, eliminazioni fisiche e deportazioni posero naturalmente fine a quell'esperienza collettiva. Fra i condannati anche Vasilij Nalimov, uomo tutto d'un pezzo come il padre professore di antropologia, che ebbe il coraggio di entrare in conflitto personale con Stalin, finendo arrestato e fucilato nel 1939. Il figlio Vasilij si fece diciotto anni di Gulag e venne riabilitato nel 1957. Si deve a lui il recupero, negli archivi del Kgb, degli scritti del suo maestro Aleksej Solonovič.
EBRAISMO E ANARCHISMO
Generalmente, per il periodo tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima del Novecento, balzava all'attenzione il fatto delle massicce adesioni di ebrei al socialismo e al comunismo, e solo di recente è stato oggetto di studi il fenomeno della partecipazione o della vicinanza di molti ebrei anche all'anarchismo - sia in senso umanistico, sia in senso propriamente rivoluzionario. Rivoluzionari attivi furono Emma Goldman e Alexander Berkman, Volin (Vsevolod Michajlovič Eichenbaum), Gustav Landauer; e in un àmbito più intellettuale che operativo troviamo (oltre a Martin Buber) il grande studioso della Qabbalah Gershom Scholem, Erich Fromm, Franz Kafka, Walter Benjamin, Ernst Bloch, Leo Löwenthal, Noam Chomsky, Paul Goodman, Julian Beck, Murray Bookchin, il rabbino qabbalista Yehuda Ashlag (sostenitore della conciliabilità fra religione e comunismo libertario), il rabbino britannico Yankev-Meyer Zalkind (ebreo ortodosso, ma comunista anarchico e antimilitarista) ecc. ecc.
In una prima approssimazione - così come per gli ebrei social-comunisti - c'è stata la prevalenza di motivazioni di ordine sociologico e economico, in ragione delle condizioni in cui versavano gli ebrei, particolarmente nell'Est europeo; condizioni che determinarono fenomeni di emigrazione, adesione alle lotte politiche e sindacali del movimento operaio, una forte pulsione per una vera e propria palingenesi sociale. Non vi è dubbio che la maggior parte degli ebrei che aderirono o si accostarono a idee e movimenti dell'estrema sinistra aveva ormai effettuato il distacco dalla religione di origine, pur restando spesso e volentieri una loro ebraicità culturale, inevitabile in ragione della chiusura in cui gli ambienti circostanti li avevano costretti per secoli e secoli. L'aspetto interessante dei più moderni studi sta invece nell'approfondimento di tale ebraicità culturale, che ha portato alla ricerca e alla scoperta dei nessi - per così dire preparatori - tra la religiosità di origine e l'approdo all'anarchismo, come adesione o vicinanza. E i nessi non potevano non esserci, se un personaggio come Gershom Scholem si definiva credente in Dio, ma religioso anarchico, e poteva scrivere ad Hannah Arendt, nel 1946: «La mia fede politica - se ve ne è una - è anarchica»10.
Prima di muoverci nel senso della ricostruzione di questo processo di approfondimento, c'è da vedere se e come siano superabili due grossi ostacoli subito posti dall'Ebraismo. Innanzitutto, il problema dell'esistenza di Dio. Diceva Bakunin che se Dio esiste, l'uomo non è libero; ma, poiché l'uomo è libero, Dio non esiste. Il problema effettivamente si pone, anche per la teologia cristiana11. L'Ebraismo muove dalla chiara attestazione biblica sulla libertà dell'essere umano; da ciò risulta una concezione sviluppata organicamente dalla Qabbalah: onnipotenza e onniscienza divine si trovano autolimitate per effetto della necessaria «contrazione» (tzim-tzum) di Dio per produrre lo spazio per la creazione. E a maggior ragione Dio si autolimita a causa della sua creazione dell'essere umano con la sua incomprimibile libertà. Effettivamente, se a fronte dell'umanità ancora sussistessero in atto l'onnipotenza e l'onniscienza di Dio, allora essa sarebbe schiava. L'impianto è un po' alla Bakunin, ma con risultati diversi. Per inciso, questa concezione è presente anche in correnti teologiche del Cristianesimo ortodosso.
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Gershom Scholem |
L'altro ostacolo deriva dall'esistenza di una ricca serie di precetti nella cosiddetta «legge mosaica». Ce ne sarebbero almeno 613. Qui entra in gioco un problema comune a tutte le religioni con una ricca precettistica: come intendere questi precetti? La questione va ricollegata alla dialettica fra essoterismo ed esoterismo. C'è chi interpreta le prescrizioni come fini a se stesse, e quindi se ne assoggetta; e c'è chi le assume per il loro significato spirituale, cioè come strumenti di realizzazione dell'integralità della persona. Come esempio tipico e illuminante si può assumere il Sabato ebraico (lo Shabat), proprio per la sua ricca precettistica. L'ebreo osservante e consapevole sa che quell'insieme di norme positive e negative ha un solo fine, ed è esso a contare: inserire ogni sei giorni una giornata di liberazione spirituale dagli affanni mondani, da destinare alla propria santificazione. Lo ha ben chiarito Abraham Joshua Heschel nel suo libro Il sabato12, sottolineando che il problema è mal impostato se ci si ferma a quanto viene vietato in questo giorno; ci si deve bensì chiedere cosa si è liberi di fare il Sabato (Shabat) proprio grazie a quei divieti.
L'obiezione sollevata contro questo discorso da quanti mal conoscono l'anarchismo (cosa riguardante altresì parecchi anarchici!) consiste nell'effettuare un'identità fra anarchismo e assenza di norme - o anomia. Identità indebita, giacché estranea alla maturità dell'anarchismo, che non vuole norme calate dall'alto, bensì quelle prodotte e realizzate volontariamente dal basso13, essendo ovvio che nessuna società può farne a meno; il problema sta nella loro formazione, nella loro impostazione e nella loro finalità. Una cosa è l'abolizione dello Stato, altra invece l'eliminazione delle norme di convivenza.
Vero è che la precettistica ebraica non nasce dal basso: infatti la sua origine è fatta risalire a Dio stesso. Ciò non toglie la necessità di effettuare alcune considerazioni a chiarimento sulla normativa risalente alla Torah. Premesso che fino al Medioevo l'Ebraismo non ha conosciuto professioni di fede dogmatiche (queste sono venute dopo, per influenza del circostante ambiente cristiano), non è casuale che la cosiddetta «legge mosaica» sia chiamata halahá (dal verbo haloch, «camminare»): ciò vuol dire che essa esprime un percorso, indica una via verso una meta; richiede azione e non fede. D'altro canto, nella sua essenza l'Ebraismo è la fedeltà a un patto - quello con Dio -, e non un insieme di dogmi e/o credenze.
Il ricorso alla distinzione/interrelazione fra aspetto essoterico ed esoterico in ordine ai precetti positivi e negativi della Torah offre un angolo di visuale produttivo di risultati ancora più profondi di quelli evidenziati da Heschel. Rimaniamo all'esempio dello Shabat, della cui precettistica si è già detto non essere fine a se stessa, ma funzionale al perseguimento di un risultato sacrale: dedicandosi completamente a Dio in questa giornata, il credente ebreo si astiene dall'esercitare nel mondo della materia la potenza creatrice datagli da Dio per esercitarla nella dimensione dello spirito, con ciò puntando alla sacralizzazione della materia stessa. Riconoscendo in Dio l'unico padrone del creato, l'ebreo realizza nella sottomissione a Lui il duplice aspetto della libertà - la libertà «da» e la libertà «per» -, realizzando la sua integralità somatico-psico-spirituale. Per lui altrimenti c'è solo l'esilio: innanzitutto spirituale. La Torah, quindi, a presidio della libertà.
Proprio in merito alla libertà, gli antichi rabbi si impegnarono - con varietà di letture e di interpretazioni - sui problemi linguistici del testo ebraico di Esodo 32,16, in cui si dice che sulle tavole del Sinai il testo era scrittura di Dio incisa sulle tavole. Come tutte le lingue semite, l'ebraico è scritto senza vocali, ragion per cui c'è da chiedersi se la parola effettivamente traducibile con «incisa» - cioè charut - non vada letta con un'altra vocale, cioè come cherut, implicante libertà. E allora si avrebbe che la scrittura di Dio è libertà nelle tavole. E di quale libertà si tratti ha costituito oggetto di riflessione da parte dei rabbini. I risultati sono stati i più vari, ma qui non interessano: a rilevare, invece, è proprio il fatto che la mancanza di consenso su un argomento così fondamentale svela quanto grande sia la sfera della libertà di pensiero, e quindi anche di dissenso.
Ogni legame di dipendenza materiale viene abolito nel giorno dello Shabat, e chi ne vive lo spirito realizza tre obiettivi: la liberazione dalle preoccupazioni e servitù quotidiane, la riscoperta di sé e dei propri familiari, la fratellanza umana. In questa stessa ottica vanno considerati l'Anno Sabatico e soprattutto l'Anno Giubilare, con le sue regole sociali in favore dei poveri, per la redistribuzione delle ricchezze, la remissione dei debiti e la liberazione degli schiavi. Come ha scritto Erich Fromm,
«obiettivo della legge ebraica è quello di provvedere alla persona il massimo possibile di quiete, di affrancamento dagli istinti e di libertà da preoccupazioni, così che possa svilupparsi autonomamente la sua creatività religiosa. La legge deve offrire alla persona la possibilità di liberarsi dall'ingranaggio del mondo, per inoltrarsi fino al regno del religioso»14.
Dalla prospettiva esoterica emerge il filo rosso che lega gli elementi della precettistica e dà loro senso e fine: è una prospettiva di liberazione dal potere del mondo, dal potere che è nel mondo. In fondo l'identità ebraica sta nella consapevolezza della scissione in atto fra materia e spirito, ma anche nell'anelito all'unità; con ciò si coniugano la ricerca e attuazione
dei nessi fra morale e religione, nonché l'intendere la religione in termini di azione e spinta messianica verso un futuro degno dell'essere umano e di cui egli sia degno. Elementi che non sono solo ebraici, ma universali. Vedere in Dio l'unico signore del mondo15, nonché la prospettiva messianica, hanno le loro conseguenze - innanzitutto psicologiche - in ordine alla sfera della politica temporale. Conseguenze che rimangono quand'anche poi l'ebreo abbandoni il retroterra religioso. Per quanto l'ebraicità si sia formata nel corso dei secoli nel quadro di uno specifico contesto religioso, in essa sono individuabili elementi che mantengono la loro valenza anche se laicizzati all'estremo, e quindi altresì nel quadro dell'opzione ateista. Per esempio, abbandonata l'unica e piena sovranità di Dio sul mondo, resta comunque - e a maggior ragione - il senso di indipendenza mentale e spirituale dalle autorità umane, nonché la loro valorizzazione. Il messianismo, dal canto suo, è un anelito del presente che però proietta nel futuro l'aspettativa di una rivoluzione spirituale e materiale insieme.
Se poi consideriamo che già nell'àmbito propriamente religioso tutta la letteratura sapienziale ebraica attesta il rifiuto dell'autoritarismo, il gusto per il libero pensiero e la discussione più che «bizantina» - si dice «due ebrei, tre opinioni», e nel Talmud l'argomento suscettibile di risolvere una controversia è considerato fonte di difficoltà, mentre un argomento che la ristabilisca è considerato una soluzione (terutz) - e che, infine, la conoscenza è considerata uno degli scopi massimi della vita, è chiaro allora di quali tipi possano essere gli approdi, una volta usciti dalla sfera della religione. In più, in ordine alla citata prospettiva messianica, c'è da dire che l'attesa quietista dell'avvento dei tempi messianici è solo uno dei due possibili modi di aderirvi, poiché l'altro è l'attivismo preparatorio dell'avvento, inseparabile dall'azione contro il Male (privato e pubblico) esistente nel mondo. A questo va collegato l'alto grado raggiunto dall'etica veterotestamentaria, soprattutto in profeti come Isaia, che la sintetizzava nello «sciogliere le catene ingiuste, slacciare i legami del giogo, rimandare liberi i forzati, infrangere qualsiasi giogo, dividere il pane con l'affamato, introdurre in casa i miseri erranti, vestire gli ignudi, allora. Come aurora. Sorgerebbe la luce e la giustizia andrebbe innanzi»16. Pur essendo innegabile - e umanamente normale - nel corso della storia l'esistenza di ebrei tutt'altro che animati dalla sensibilità sociale e umana, del pari non vi è dubbio che nella cultura ebraica vi è quanto basta per opzioni sociali e politiche di segno ben diverso e radicale, con o senza secolarizzazione del retroterra spirituale.
MARTIN BUBER: LA VITA E IL PENSIERO FILOSOFICO
a) la vita
Martin Mordechai Buber, nato a Vienna nel 1878 da una famiglia di ebrei austriaci assimilati, fu filosofo, teologo e pedagogista e visse la propria vita con una pienezza intellettuale di tutto rispetto. Dopo il divorzio dei genitori, trascorse l'infanzia dal nonno Salomon, nell'attuale città ucraina di L'vov (all'epoca Leopoli, nella Galizia asburgica). Il nonno, oltre che uomo d'affari, era un grande conoscitore della tradizione e della letteratura ebraiche. Oltre alle lingue-madri yiddish e tedesco, imparò subito ebraico, francese, inglese e italiano, e poi polacco alla scuola superiore. Nel 1892, dopo una crisi religiosa, ritornò nell'ambiente laico viennese e conobbe le opere di Kant, Kierkegaard e Nietzsche. Nel 1896 cominciò a studiare filosofia, filologia e storia dell'arte a Vienna, continuando poi gli studi a Lipsia e Zurigo. In quel periodo conobbe il poeta e attivista anarchico Gustav Landauer, anche lui ebreo, e nel 1898 aderì al sionismo, pur senza che le sue posizioni coincidessero con quelle del fondatore Theodor Herzl. In definitiva si trattò di un'adesione non sempre facile, giacché per Buber il movimento sionista non era connesso tanto col fine di fondare uno Stato ebraico in Palestina, quanto soprattutto di creare nuove radici e ripristinare contatti più fecondi con la tradizione europea, dalla quale non si sentiva affatto emarginato.
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Theodor Herzl |
Nel 1904 pubblicò la sua tesi, Beiträge zur Geschichte des Individuationsproblems («Contributi alla storia del problemi dell'individuazione»). Si interessò alle filosofie mistiche di Böhme, Cusano e Paracelso e si riavvicinò alla mistica chassidica dell'infanzia. Studi che portarono alla pubblicazione delle Storie di Rabbi Nachman, ovvero racconti riguardanti Rabbi Nachman di Breslavia, grande esponente del Chassidismo, e delle Storie del Baal Shem. Nel periodo tra il 1910 e il 1914 si dedicò agli studi mitologici e pubblicò vari testi mistici. Durante la Prima guerra mondiale partecipò alla creazione della Commissione Nazionale Ebraica - per migliorare le condizioni di vita degli ebrei dell'Europa orientale - e fu redattore del mensile Der Jude. Nel 1921 Buber conobbe Franz Rosenzweig, con il quale nel 1925 iniziò
a tradurre la Bibbia ebraica in tedesco (opera terminata solo nel 1962): un importante lavoro linguistico giacché, più che una traduzione vera e propria, fu una Verdeutschung del testo, ovvero una «germanizzazione», per la quale furono reinventate regole linguistiche e grammaticali del tedesco, per una maggiore adesione allo spirito dell'originale ebraico.
Nel 1923 egli scrisse il suo primo capolavoro, Io-tu. Continuò a collaborare con Landauer e nel primo dopoguerra, dopo che l'amico fu ucciso dai Freikorps, durante la repressione della «Repubblica dei Consigli» di Monaco, ne fu esecutore testamentario.
Dal 1924 al 1933 insegnò filosofia della religione ebraica all'Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno, incarico che lascerà con l'avvento al potere dei nazisti, che peraltro nell'ottobre del 1933 gli proibirono di tenere conferenze in pubblico. Nel 1938 lasciò la Germania per Gerusalemme, dove occupò la cattedra di filosofia sociale, antropologia e sociologia all'Università ebraica. In Palestina Buber si trovò isolato più che mai nell'ambiente sionista, prese parte al dibattito sul ritorno degli ebrei nella «terra promessa», con particolare riguardo al problema della convivenza con gli arabi palestinesi, e come
membro del partito Yi'houd operò invano per realizzare un'intesa fra le due comunità, propugnando l'idea di uno Stato democratico binazionale insieme a Judah Magnes, Ernst Simon e altri, suscitando ovviamente antipatie e risentimenti.
Nel 1946 pubblicò Sentieri in Utopia, sulla sua concezione dell'anarchismo. Dopo la Seconda guerra mondiale, Buber tenne una serie di conferenze in Europa e negli Stati Uniti. Nel 1951 ricevette il premio Goethe dall'Università di Amburgo, nel 1958 il Premio Israele e nel 1963 il premio Erasmus, ad Amsterdam. Il premio Goethe gli suscitò nel mondo ebraico una marea di critiche e l'obiezione se non avesse avuto troppa fretta nel perdonare. La sua risposta fu la seguente:
«Circa dieci anni fa un numero considerevole di tedeschi - dovevano essere diverse migliaia -, sotto il comando indiretto del governo tedesco e quello diretto dei suoi rappresentanti, uccise milioni di persone del mio popolo, con una procedura preparata e attuata in modo sistematico, la cui crudeltà organizzata non trova paragoni in nessun precedente evento storico. Io, che sono uno dei sopravvissuti, ho solo formalmente un'umanità comune con coloro che parteciparono a questa azione. Si sono tolti così radicalmente dal consesso degli esseri umani, si sono spostati in una sfera di mostruosa disumanità talmente inaccessibile alla mia concezione, che in me non è nemmeno stato possibile far nascere l'odio. E chi sono io per poter presumere di concedere un perdono?»17.
Nel 1958 morì la moglie, Paula Winkler, un'intellettuale cattolica poi convertitasi all'Ebraismo, che gli aveva dato due figli. Nel giugno del 1965, Buber stesso si spense a Gerusalemme.
b) il pensiero filosofico
Il suo pensiero si caratterizza per il radicale rifiuto dell'idealismo e per l'incentrarsi sulla concreta realtà esistenziale della persona umana, con particolare riguardo alle sue relazioni con i propri simili e con Dio. Si avverte subito l'intento di creare le premesse teoriche per un rinnovamento religioso che vada dal popolo ebraico all'Occidente; ma con una specificità: Buber è estraneo sia all'ortodossia ebraica immobilista, sia alle componenti dell'ebraismo orientate alla completa integrazione nella cultura europea dominante in quel tempo, con l'intendimento di far operare il rinnovamento spirituale ebraico anche in favore dell'Occidente, ma dall'esterno, non dal suo interno. Se pensava che questo operare
potesse aiutare l'Occidente a uscire dalla sua crisi spirituale, l'aiuto sarebbe tuttavia venuto dall'Ebraismo come «frutto serotino dell'Oriente», e non già come parte della cultura occidentale. Una chiara rivendicazione dell'alterità culturale ebraica.
La proposta anti-crisi di Buber ha un taglio antropologico-esistenziale necessitato dalla situazione dell'essere umano contemporaneo in un mondo il cui artificiale «splendore» - esaltato dalla borghesia trionfante - nasconde insicurezze sociali, esistenziali e tecnologiche, a motivo dello schiacciamento della persona dovuto alla crisi di famiglie e di comunità urbane e rurali, e a un progresso tecnologico-scientifico che, se da un lato sembra far accrescere il potere sulla natura, da un altro lato aliena la persona e manifesta il concreto pericolo dell'incontrollabilità.
La necessaria riscoperta dell'integralità dell'essere umano va orientata dalla sua appartenenza al più ampio contesto dell'umanità e del mondo. Se quindi l'essere umano si incentra sul proprio «io» originariamente «astratto», Buber sottolinea che l'io prende concretamente forma solo attraverso un'apertura: l'incontro e l'interazione con un «tu»; da cui si passa poi al «noi». La persona è quindi un soggetto in relazione, ed è nella relazione che
essa assume le sue posizioni fondamentali. Così, le due relazioni di base sarebbero «io-tu» e «io-esso», a seconda della posizione attiva o passiva dell'entità «altra». Nella relazione «io-esso» - vale a dire, nell'esperienza cognitiva - la realtà verso cui si apre l'io appare in modo passivo, e l'io la ingloba nella sfera della sua esperienza personale e della sua sperimentazione. Nella relazione «io-tu», invece, entrano in gioco due termini ugualmente attivi e reciprocamente coinvolti e coinvolgenti: qui si avrebbe l'acquisizione di un sapere vero, effettivo. Quest'ultima relazione passa inevitabilmente in quella «io-esso», giacché «esso» e «tu» si pongono in due diverse dimensioni temporali: il «tu» appartiene al presente, all'attimo, poiché si dà nell'attimo e nell'attimo scompare; «esso», al contrario, appartiene al passato,
alla dimensione della durata, e resta sempre sotto il controllo della persona dell'io. Si ha in tutto ciò la dialettica evento/oggettività, attimo/storia, istante/durata, per non dire eternità/tempo.
Dove non c'è relazione, c'è egoismo, di conseguenza non c'è dialogo e quindi non c'è nemmeno realtà. La parola si arricchisce col dialogo, e poi con la risposta. E la risposta - per il suo esserci o no, e per il suo contenuto - implica «responsabilità». A questo punto, cioè, la relazione si apre sulla dimensione dell'etica. La responsabilità nasce da una decisione (positiva o
negativa) o da una mancanza di decisione. Per Buber la non-decisione è sempre negativa. È solo impegnandosi nel mondo e assumendo le proprie responsabilità che l'uomo realizza
un vero rapporto con sé, con gli altri e con Dio stesso. La relazione «io-tu» eleva il ruolo e il significato della parola umana, giacché qui la parola va al di là della «comunicazione» per diventare «comunione», sia fra persona e persona, sia fra persona e natura (magari in questo caso si avrà parola senza parola). Ma la relazione io-tu, perché si abbia effettiva reciprocità, deve pervenire alla pienezza del «noi». La crisi dell'uomo contemporaneo (di una gravità diversa da qualsiasi crisi del passato) nasce dalla perdita del «tu» (sia umano che divino), determinata dal vivere in un mondo in cui il capitalismo ha disgregato le coesioni interne alla persona e ai corpi sociali intermedi, facendo sì che le relazioni siano basate solo su interessi economici, o comunque materiali.
In conclusione, per Buber la vita dell'essere umano è sempre incontro e ha un'essenza dialogica, la cui realizzazione richiede la comunicazione con l'umanità, con la creazione e con Dio. L'uomo è anche, per essenza, homo religiosus, perché attraverso l'amore verso l'umanità si apre all'amore di Dio, e viceversa. Non è quindi possibile parlare agli uomini senza parlare a Dio. L'io umano, elemento necessario delle relazioni di base da lui concettualizzate, non è né originario né assoluto, poiché queste due connotazioni attengono a Dio, da Buber definito «Persona assoluta». Dio costituisce il mondo come suo «tu» attraverso
l'io umano. Proprio perché assoluto, Dio entra in relazione con la persona umana e col mondo gratuitamente e senza esserne limitato; la sua presenza va al di là della dicotomia trascendenza/immanenza. Al riguardo Buber - come del resto in tutte le tradizioni religiose panenteiste (il panteismo è mero errore occidentale frutto di incomprensione concettuale, per non dire ignoranza) - non colloca Dio nel mondo, bensì il mondo in Dio, che a sua volta nel mondo è presente (la shekinah). Essendo Dio «Io assoluto» in sé, in rapporto all'essere umano è un «Tu assoluto». Stante questa alterità rispetto alle relazioni interumane, e anche alla luce di quanto fin qui detto, la relazione Dio-persona umana non può essere diretta, ma deve passare attraverso la relazione fra persona e mondo. E quindi Dio non diventa un «esso» per la persona.
La presenza di Dio nel mondo - per la quale Buber già nei primi scritti chassidici era ricorso, e non a caso, alla tradizionale nozione di shekinah -, la sua presenza nell'uomo, nonché la presenza del mondo e dell'uomo in Dio consentono di attribuire carattere fondamentale
a queste relazioni, e quindi a porre a fondamento della religione l'incontro originario Dio-uomo. La presenza di Dio, nel sistema qabbalistico di Isaac Luria (1534-1572), è l'ultima delle dieci sefiroth a essersi rotta nell'originario processo di creazione, e l'essere umano ha la capacità di riceverla, ma deve rispondere con un'azione che provenga dall'integralità del suo essere, nel segno di un'unità che può arrivare a coinvolgere anche il cosmo intero. Da qui l'intuizione di Buber per cui «in principio è la relazione», dalla quale la realtà può raggiungere il proprio compimento come il dialogo tra incontrante e incontrato, che si fanno il dono reciproco della presenza.
Rifiutando le teorizzazioni sulla «morte di Dio», Buber sottolinea invece l'eclissi di Dio nel momento in cui l'essere umano rifiuta il dialogo col suo «Tu assoluto». Più appropriatamente egli parla di «eclissi» di Dio: un'eclissi causata dall'egoismo umano, individuale e sociale. In definitiva, Buber vede la soluzione della crisi dell'umanità contemporanea nel rinnovamento della relazione con Dio, ma non in termini solipsistici. Poiché la persona integrale è un essere in comunione, il rinnovamento della relazione con Dio passa attraverso un «noi» che è la comunità. Buber è orientato verso una comunità che non sia sinonimo di collettivismo (cioè un'altra forma di alienazione), bensì di unione dialogica ed esistenziale fra persone, dove ognuna sia il centro comunitario.
Ovviamente non manca in Buber la riaffermazione e l'esplicitazione della identità ebraica. In merito alla sua essenza, egli sottolinea la coscienza della scissione e l'anelito all'unità; e inoltre la ricerca vissuta della relazione tra morale e religione, e la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi princìpi - unità, azione e futuro - sono validi per l'umanità intera: ragion per cui Buber considerava il ritorno all'autentico Ebraismo come ritorno alla vera umanità. Si può benissimo definire quello di Buber - anche in àmbito filosofico - un percorso verso l'utopia. Niente di male, giacché l'utopia (come aveva ben compreso Camillo Berneri) è parte ineliminabile dell'orizzonte umano; e d'altro canto il suo etimo dice soltanto della sua inesistenza in atto: il futuro resta impregiudicato, e non è detto che l'assalto al cielo fallisca sempre.
c) Buber e il sionismo
Con il sionismo Buber andò ben presto a urtare contro una realtà assai diversa dai suoi sogni e dai suoi ideali; anzi, contro una realtà che ne era l'antitesi più patente. In questo àmbito Buber ha costituito una delle voci eticamente più alte del mondo ebraico, e nello stesso tempo una delle più inascoltate. Così Israele ha scelto il suo peggio, poiché attraverso una brutale e cinica politica di potenza ha perduto quell'anima che Buber intendeva salvare; con la conseguenza di essere nell'ottica di un sionismo spirituale, un progetto ormai fallito.
Detto in termini molto sintetici, il sionismo è il movimento fondato alla fine del secolo XIX dall'ebreo austriaco Theodor Herzl, a seguito dell'ondata antisemita che nella pur liberale e laica Francia aveva portato al famoso «processo Dreyfus» e vi aveva trovato largo seguito. Da questa esperienza nacque l'obiettivo della formazione di uno Stato ebraico per gli ebrei del mondo, la cui ubicazione alla fine fu orientata verso la Palestina (la biblica «terra promessa»), all'epoca territorio appartenente all'impero ottomano quale parte della Siria. Per quanto i sionisti dell'epoca - e degli anni a venire - si siano volti alla Palestina come se si trattasse di un paese in buona parte disabitato, a parte un pugno di beduini considerati facilmente traslocabili, la regione era in realtà densamente popolata da arabi, per lo più stanziali, che ne avevano fatto una delle regioni più progredite del Vicino Oriente. Da qui la causa di tanti guai politici e dolori umani ancora in atto.
Vale la pena di ricordare che alla sua apparizione il sionismo non fu affatto considerato come una benedizione dal grosso del mondo ebraico (a differenza di oggi). Molti rabbini lo condannarono, considerandolo un'eresia laica a opera di ebrei ostili alla tradizione religiosa. In buona parte era vero, e dal canto loro i sionisti più religiosi vedevano nella creazione di uno Stato ebraico la possibilità di accelerare - per così dire «forzando Dio» - la fine del
plurisecolare esilio da un terra promessa che la promessa biblica aveva reso appartenente agli ebrei; a prescindere da chi la abitasse attualmente, e da quanto tempo lo facesse. Questo era considerato dai rabbini tradizionalisti una ribellione ai disegni divini. Addirittura il rabbinato antisionista espresse un partito avverso al «ritorno a Sion», l'Agudat Israel. Solo una minoranza di rabbini vedeva nel sionismo l'apertura di un'epoca messianica. A seguito del genocidio nazista e della creazione dello Stato di Israele, l'Agudat Israel avrebbe mutato atteggiamento, e a essere ostili al sionismo saranno solo gli ultraortodossi Neturei Karta, ovvero i chassidim di Satmar.
La posizione di Buber sul problema della Palestina muoveva da forti premesse spirituali. Non si trattava di una posizione in sé irragionevole; semmai era irrealista. Per eccessiva lungimiranza non teneva conto della gretta miopia della classe dirigente sionista (in buona parte secolarizzata, se non addirittura atea), che guardava allo stanziamento in Palestina in termini di appropriazione, convinta di avere più diritti rispetto agli arabi che vi abitavano da
più di un millennio (come sostenne Chaim Weizmann, primo Presidente di Israele). E poiché agli esseri umani l'appetito vien mangiando, non passò molto tempo perché i sionisti passassero dal «focolare» nazionale, promesso loro in Palestina attraverso la Dichiarazione Balfour (1917), alla pretesa di fondarvi uno Stato ebraico che comprendesse addirittura la Transgiordania (attuale Giordania)18.
Inoltre Buber - chiuso in un sogno che era solo suo e di pochi altri - non teneva affatto conto dell'inesistente entusiasmo degli arabi palestinesi (musulmani e cristiani insieme), poi diventato vera e propria ostilità, verso ondate di immigrati europei che si sentivano padroni in casa altrui, per di più prepotenti e intolleranti. Da buon ebreo Buber sentiva con forza il legame spirituale e mistico con la terra promessa19 e lo considerava essenziale, tuttavia personalmente non riteneva che fosse necessario costituirvi uno Stato ebraico. Questo, come meglio si dirà, finì col porlo in contrasto con i sionisti:
«In pieno 1917, momento terribile della "Grande guerra", fu pubblicato un grande testo antinazionalista a firma di Stefan Zweig, Geremia20, che esaltava il valore morale della condizione di diaspora
dell'ebraismo come esempio di "una vita al di là dell'esistenza politica nazionale, all'insegna della fratellanza, della reciproca tolleranza e dell'universale assenza di pregiudizi". In conseguenza di questa sua convinzione Zweig, subito dopo la fine della guerra, scrisse una lettera a Martin Buber, esponente del movimento sionista, per chiedergli se i sionisti, alla luce della disillusione provocata dalla guerra, avessero riconosciuto il messaggio della sua opera come il vero ideale dell'Ebraismo, se li avesse risvegliati dal loro sonno, "sogno pericoloso di uno Stato ebraico con cannoni, bandiere, onorificenze". Zweig si dichiarava deciso ad "amare proprio l'idea dolorosa della diaspora, il destino del popolo ebraico più del benessere del popolo ebraico. […] La Palestina sarebbe un punto di approdo, la chiusura del cerchio in se stesso, la fine di un movimento che ha scosso l'Europa e il mondo intero. E ciò sarebbe una tragica delusione".
Martin Buber dimostrò nella sua risposta come il suo sionismo si poneva in modo originale al di fuori del gretto nazionalismo, ma anche dell'idealismo astratto; e tra la scelta se l'ebraismo dovesse rimanere un'essenza spirituale e senza corpo o una comunità concreta e vivente, scelse la seconda, ma auspicava che questa comunità fosse di un tipo particolare, come si evince dalle sue parole: "[…] Oggi soltanto questo: che non mi appare nulla di uno Stato ebraico con cannoni, bandiere e onorificenze, neanche in forma di sogno. Che cosa diventerà dipende da coloro che lo realizzano e, proprio per questo, quelli che come me partecipano al lavoro e sono mossi da intenzioni umane devono costruire una comunità qui, dove ciò è posto in un dato momento nelle mani degli uomini. Non posso far valere le Sue considerazioni di carattere storico per il nuovo popolo che deve nascere ora dall'antico sangue. Se una Palestina ebraica dovrà essere la fine di un movimento esclusivamente di tipo spirituale, allora deve essere anche
l'inizio di un movimento che vuole realizzare lo spirito. Lei dice che questo movimento ha scosso il mondo intero ma era legittimo sempre solo sul piano dello spirito. Ciò che tale movimento produce, se va oltre questo piano, me lo mostra Trotsky: la realizzazione fallisce perché l'idea è viva soltanto sul piano della dottrina, non su quello del metodo. Questo è il punto su cui occorre soffermarsi. Io preferisco comunque collaborare all'immane, rischiosa impresa di qualcosa di nuovo in cui non vedo molto di benessere ma una serie di grandi sacrifici, piuttosto che sopportare più a lungo una diaspora destinata con tutta la sua bella e dolorosa fertilità a consegnare alla rovina interiore pezzo per pezzo il materiale nutritivo di quel movimento; preferisco una tragica delusione ad una corruzione nient'affatto tragica ma continua e senza prospettive".
Ma se Buber non indulgeva all'astratto idealismo, non era nemmeno tenero verso la realpolitik che la maggioranza del movimento sionista andava scegliendo, in particolare dopo la Dichiarazione Balfour. Buber non tollerava l'alleanza con le potenze imperialistiche dell'epoca, in particolare quella britannica, come si evince bene dalle parole di quest'articolo apparso nel 1919 sulla rivista Der Jude, fondata dallo stesso Buber: "La lealtà della nostra azione e del nostro insediamento all'alleanza dei popoli e ai suoi rappresentanti è naturale. Che non vogliamo avere niente a che fare con il suo attuale sistema di vita, quello dell'imperialismo che pervade l'umanità, dobbiamo esprimerlo con la nostra astensione da ogni politica estera - a eccezione di quei passi e misure che sono necessari a stabilire e mantenere un amichevole accordo con gli arabi in tutti i campi della vita pubblica, anzi una solidarietà fraterna con loro"»21.
Si trattava di un realismo più ampio di quello di corto respiro della realpolitik, non interessato a una vittoria esaltante della sua parte che poi si consumi velocemente e, attraverso effetti perversi non preventivamente valutati, si trasformi in tragedia. Era una posizione interessata invece alla durata di un processo guidato da una razionalità meno unilaterale e «tecnica» e più olistica e comprensiva, che deriva dal suo metodo dialogico, la cui regola conseguente, che in àmbito radicale conosciamo bene, è: non è importante vincere, ma con-vincere! E quanto sarebbe stato un bene per il mondo, e non solo per Israele, seguire i suoi consigli. Buber era cosciente dei possibili ed esiziali sviluppi e già allora vi proponeva un'alternativa, come vediamo in queste sue parole, tratte sempre dallo stesso articolo del 1919:
«Non parlo affatto contro una funzione mediatrice dell'ebraismo palestinese tra Occidente e
Oriente, al contrario! Noi che siamo orientali ed europei abbiamo in verità la capacità e il compito di diventare la porta dello spirito e della vita nel muro eretto dalla storia tra il sublime continente madre e la sua ricca e frammentata penisola; ma questo nostro compito non deve essere assolto al servizio di un'Europa potente e già configurata, ma in unione con una giovane Europa che in futuro sarà apportatrice di salvezza; il nostro compito non deve essere quello di un pigro mediatore, ma quello di chi partecipa creativamente, mediando, alla costituzione di una nuova cultura?».
L'asse portante della posizione di Buber sul problema palestinese è sintetizzabile con l'espressione «un solo paese, due popoli», tant'è che ancor prima del suo definitivo trasferimento in Palestina (nel 1938) aveva aderito all'associazione Brit Shalom («Alleanza di Pace»), il cui fine era realizzare un'intesa fra ebrei e arabi, insieme ad altri suoi amici come Hugo
Bergmann, Hans Kohn, Gershom Scholem e Ernst Simon. Su questa linea si mosse anche in Palestina, vedendo giustamente la cosiddetta «questione araba» come parte essenziale
della «questione ebraica». Al suo senso etico, infatti, non sfuggiva che atteggiamento e comportamento ebraico verso gli arabi poteva diventare elemento di contraddizione per lo stesso Ebraismo, così come l'antisemitismo lo era per il Cristianesimo. Non che Ben Gurion e gli altri dirigenti sionisti non si rendessero conto che il loro progetto politico - per le sue specificità - non sarebbe mai stato accettato dagli arabi; solo che la cosa interessava esclusivamente ai fini dell'autodifesa dei kibbutzim e dei gruppi urbani ebrei stanziatisi in Palestina. Molto più importante, nella loro ottica, era rendere quanto più possibile massiccia l'immigrazione ebraica nella regione, puntando a renderla maggioritaria per farla accettare - con la ragione o la forza - agli arabi. Al contrario Buber, oltre a manifestare comprensione per il timore arabo che si realizzasse un dominio ebraico in Palestina, si batteva (invano) perché si operasse al fine di conciliare i diritti e le volontà dei due popoli. Secondo lui l'obiettivo sionista del conseguimento di una maggioranza ebraica era sbagliato, nella misura in cui acuiva i timori arabi scatenando risentimenti, odio e violenze. Il suo
pensiero era stato chiaramente formulato in una conferenza tenuta a Berlino nell'ottobre del 1929, proprio due mesi dopo gli eccidi commessi da arabi a Safed e Hevron:
«La nazione che è divenuta nostra vicina in Palestina, e che condivide un destino comune con noi, ci impone una responsabilità maggiore. Niente sarebbe più contraddittorio per noi di costruire una vita organizzata nella nostra comunità e allo stesso tempo escludere gli altri abitanti del paese, sebbene la loro vita dipenda, come la nostra, dal futuro dello stesso Paese. […] Ci siamo stabiliti in Palestina accanto agli arabi, non insieme ad essi, accanto. Quando due nazioni abitano nello stesso paese, se quell'"accanto" non diventa "insieme", diventa necessariamente "contro". Questo è destinato ad accadere qui; non ci sarà ritorno ad un semplice "accanto"»22.
Nel 1948, con la Dichiarazione d'Indipendenza, Buber accettò la nascita in Palestina di uno Stato ebraico, ma non cessarono i suoi polemici - e inascoltati - interventi in difesa di quella che ormai era la minoranza araba e per la soluzione del problema degli esuli arabi dalla Palestina23. In fondo si manifestava il contrasto fra il sionismo religioso (quello di Buber) e il sionismo politico, operante fin dall'inizio come se in Palestina gli arabi non esistessero. Al riguardo Buber fece un considerazione tanto profonda quanto inascoltata: la Bibbia (come summa dei valori ebraici) esiste senza sionismo, ma il sionismo senza la Bibbia non esisterebbe. Ciò vuol dire che senza lo stretto legame con l'umanesimo e la spiritualità dell'ebraismo il sionismo perderebbe la capacità di operare come fattore per la rinascita ebraica. Posizione che era stata solennemente formulata al XII Congresso Sionista, tenutosi nel 1921 a Karlsbad. Non ne ricavò certo in popolarità fra i sionisti, e dal canto loro gli arabi rimasero indifferenti ai suoi sforzi. Il suo amico Gershom Scholem disse con una certa amara ironia che Buber aveva la tendenza a identificarsi con i vinti, piuttosto che con i vincitori; ma dovette a ogni modo notare che la vittoria sionista che si profilava «faceva perdere l'immagine interiore di Dio». D'altro canto lo stesso Scholem fu un'altra voce etica non ascoltata dalla leadership sionista24.
Cose del tutto secondarie per la dirigenza sionista, da Ben Gurion a oggi. Non stupisce quindi che la fama di Buber sia assai scarsa nell'attuale mondo ebraico (appiattito sulla politica israeliana), a differenza di quanto accade invece nel mondo cristiano, che lo considera una delle voci più alte ed eminenti del secolo XX. In definitiva (come spesso accade alle grandi menti), il sionismo a cui aveva aderito Buber era il «suo» sionismo e aveva ben poco
a che vedere con l'omonimo movimento. Si trattava di una concezione in qualche modo
messianica, orientata alla ricerca della Sion dei profeti, e non un progetto politico-temporale come quello di Herzl, già in origine con prospettive imperialiste, dove non vi era posto per la Sion spirituale.
Il suo atteggiamento critico in merito alla piega assunta dal sionismo in Palestina, comunque, non si tradusse mai in termini di rottura, e resta senza risposta la domanda sul suo effettivo grado di comprensione dell'effettiva natura del «sionismo reale». Ci si può azzardare a dire che tutto sommato egli sia rimasto prigioniero del suo sogno etico e spirituale rimasto senza condivisione. Ma questo non suona a sua critica: semmai suona a condanna dei «duri d'orecchio con cuore di pietra».
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Erich Fromm |
L'ANARCHISMO DI BUBER
Martin Buber rientra nella corrente culturale dell'Ebraismo dell'Europa centrale che durante il secolo scorso associarono il messianismo con la prospettiva socialista. Buber appartiene al versante spiritualista e religioso di questa corrente, mentre sul versante laico di essa il maggior esponente è stato forse Erich Fromm, freudiano e marxista, ma entrambi - pur con le inerenti differenziazioni - radicati nella tradizione biblica, da cui hanno
tratto ispirazione per le loro visioni di un futuro dell'umanità più giusto e libero.
Detto ciò, va subito messo in evidenza che per Buber la comunità è la soluzione per il problema dell'uomo. Non si tratta tuttavia della comunità «naturale», i cui vincoli interni sono di sangue o di luogo e che quindi si forma automaticamente, cioè a prescindere dalla volontà e dall'impegno delle persone; e non è nemmeno la massa, in cui l'uomo galleggia sull'acqua in balia della corrente, senza effettiva autonomia. Per conseguenza non si tratta neanche di una realtà improntata al collettivismo. Vero è che l'essere umano si sente sorretto dalla collettività, che lo solleva dalla solitudine, dall'angoscia del mondo, dallo smarrimento, ma in realtà ciò limita l'inclinazione al rapporto personale, come se coloro che sono riuniti nel gruppo dovessero insieme essere rivolti principalmente solo all'opera del gruppo. In tutti questi modi di essere della società si hanno individui «impacchettati insieme», con l'illusione di condurre la propria esistenza, mentre si ha soltanto una vita «derivata» e spogliata di vera responsabilità. La comunità è invece per Buber un sistema di relazioni interpersonali collegate con un centro, purché esistano due condizioni.
La prima condizione richiede che si superi il mero fatto spaziale-materiale della vicinanza reciproca, per dare luogo all'essere uno presso l'altro di una molteplicità di persone che ovunque fa l'esperienza di una reciprocità, di un dinamico e reciproco «essere di fronte». Con questo Buber si oppone all'impersonalista concezione heideggeriana dell'essere comune, rivendicando l'essere in comune, implicante il pluralismo che deriva dal riconoscimento reciproco dei singoli componenti: «Il fondamento dell'essere uomo-con-l'uomo [consiste nel] desiderio di ogni uomo di essere confermato per ciò che è […] e la capacità innata dell'uomo di confermare allo stesso modo gli uomini come lui»25.
Questa condizione viene meno quando non
si evitano atteggiamenti suscettibili di incidere negativamente sul significato della dimensione pubblica per la loro carica massificatrice; si tratta dei momenti di entusiasmo storico in cui la trasfigurazione della massa è così abbagliante da oscurare ogni alterità e la persona, sopraffatta da un'estasi inebriante, scompare nel movimento della vita pubblica; e altresì si tratta della passività che porta all'omologazione, vale a dire quando capita di stare dalla parte dell'opinione pubblica. Tutti questi casi hanno il minimo comun denominatore dell'affidarsi ciecamente a qualcuno e non decidere da soli.
Tutto il discorso filosofico di Buber, apparentemente solo antropologico e psicologico, in realtà si riverbera sulla sua intera concezione sociale e politica, è anzi la base del suo socialismo comunitarista anarchico. La sua visione della comunità come insieme di libere relazioni reciproche è una sorta di «noi collettivo» retto dalle relazioni fra una pluralità di «io-tu» e, sia pure con diversa motivazione, si apparenta al comunitarismo del principe anarchico Pëtr Kropotkin, incentrato sul mutuo soccorso e sulla libertà. L'anarchismo di Buber26, di cui Sentieri in Utopia è per vari aspetti la sintesi, si incardina - come già detto - nel filone della cultura ebraica ostile a ogni relazione umana (e sociale) improntata alla sottomissione, alla sudditanza e, quindi, avverso alla gerarchia e - a fortiori - alla repressione, in nome della libertà umana contro il dominio.
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Gustav Landauer |
Non è possibile trascurare l'influsso esercitato dall'amicizia personale e intellettuale con Gustav Landauer (1870-1919). Idee di quest'ultimo sono state riprese e portate avanti da Buber, con particolare riguardo al federalismo libertario e comunitario, del quale egli vedeva un riscontro nelle prime esperienze dei kibbutzim socialisti in Palestina. Un socialismo
capace di rinnovare l'animo umano; una democrazia basata sulle relazioni dirette; una
libertà che si formi nello spirito della persona prima ancora della sua oggettivazione nella società, e quindi prima della militanza sociale e politica; la rigenerazione spirituale come vera leva del progresso (ben più delle scienze e delle tecniche); il socialismo anche quale dimensione culturale per superare l'atomismo individualistico; il modello federativo basato sulla partecipazione volontaria e sulle relazioni umane; l'umanizzazione della vita sociale - sono tutti questi elementi che accomunano le concezioni di Buber e Landauer.
Fondamentale nel pensiero buberiano è la nozione di «interumanità» (zwischenmenschlichkeit), coinvolgente la socializzazione delle relazioni interpersonali, la cooperazione e l'umanitarismo, il superamento delle istituzioni centralizzate, che sono di ostacolo alla libertà, all'autodeterminazione e alla giustizia. Con Sentieri in Utopia Buber non ha voluto certo svalorizzare l'utopia, bensì il contrario, se si considera che per lui l'utopia è «la nostalgia di ciò che è giusto». Va notata la data in cui fu scritto questo libro: il 1946, vale a dire quando in Palestina i sogni di conciliazione dell'autore si erano ormai del tutto frantumati. Questa nostalgia diventa allora orgogliosa rivendicazione di un dover essere che - indipendentemente dal rifiuto attuale da parte del mondo (e in primis dello stesso mondo di Buber) - sussiste comunque, resta vivo quale pietra di paragone e segno di condanna senza appello.
Di primo acchito il libro in questione sembra un'opera storica e politica, giacché è incentrata sul pensiero di grandi pensatori rivoluzionari e su talune esperienze pratiche. In realtà, tutto il discorso è retto da un sottostante filo rosso di natura profetica e religiosa, con il quale interagisce l'aspetto politico. La prospettiva in cui si è mosso Buber è innegabilmente
messianica ed escatologica, poiché il fine ultimo degli esseri umani è inscindibilmente
legato alle sorti del mondo. Tuttavia, nell'àmbito della nostalgia per il giusto Buber ha distinto l'escatologia dall'utopia: la prima è l'immagine di un tempo perfetto in cui si dà il compimento della creazione; la seconda è l'immagine dello spazio perfetto. L'eschaton è nelle mani di Dio, ma l'utopico è in quelle degli esseri umani. E riguardo all'escatologia ha effettuato la distinzione fra «escatologia profetica» ed «escatologia apocalittica». La prima, di matrice ebraica, implica comunque una partecipazione attiva delle persone; la seconda, invece, di matrice iranica, per il suo carattere determinista fa sì che la persona vi svolga un ruolo essenzialmente passivo. Calata in àmbito politico, la distinzione investe le differenze fra il pensiero libertario e il marxismo, inquadrandoli rispettivamente nella prima e nella seconda categoria escatologica.
Influenzato da Landauer, Buber ha inteso la prospettiva comunitaria, libertaria e umanista come permanente rivoluzione della vita personale (nel giorno per giorno) volta alla ricerca del contenuto e del senso dell'esistenza. Di conseguenza la rivoluzione diventa un costante movimento per evitare che si staticizzi, che si cristallizzi nell'istituzionalità. Per l'esigenza di procedere in una direzione qualitativamente appropriata, Buber ha respinto ogni progetto di accentramento socio/economico e politico, e quindi l'impostazione leninista, rimarcando quanto di positivo c'è in quel «socialismo utopistico» a cui Marx e Lenin avevano contrapposto un socialismo «scientifico» che, nel caso di Lenin, si è rivelato scientifico solo in senso popperiano: cioè falsificabile e, nel concreto, auto-falsificato.
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Campi di cotone del kibbutz Shamir, 1958 ca. |
Buber e tutti gli ebrei anarchici animati da una speranza messianica ed escatologica avevano riposto enormi aspettative nell'esperimento dei kibbutzim in Palestina, quale nuovo modo di organizzazione sociale e produttiva anticapitalista e libertario. Ed effettivamente nella prima metà del secolo scorso si trattò di un fenomeno che fece epoca nell'àmbito delle sinistre non staliniste. Il kibbutz (al plurale kibbutzim) - cioè «assemblea»
oppure «insieme», e nel nome c'è già il programma - è una comunità agricola o anche industriale autogestita di tipo collettivista, originariamente formatasi sotto l'influsso del comunismo libertario27. Era in comune la proprietà della terra, delle case e dei mezzi di produzione in genere28, e anche l'educazione dei bambini. A quel tempo nei kibbutzim non c'erano strutture elette e il potere era direttamente gestito dall'assemblea dei membri. Costoro non avevano problemi economici di sorta, poiché di tutto si faceva carico la segreteria della comunità. Originariamente vi si conduceva una vita assai spartana29 e all'interno non circolava denaro. I kibbutzim si raggrupparono poi in federazioni perlopiù sulla base di affinità partitiche e ideologiche. Generalmente sono stati considerati frutto del marxismo, ma di marxista avevano solo il rifiuto della proprietà privata. I princìpi portanti - autogestione, libere assemblee, autonomia e federalismo - erano invece tipici dell'anarchismo. I membri dei kibbutzim erano per lo più atei o agnostici e comunque poco propensi alla religiosità. Pur tuttavia non mancarono i credenti che combinavano religione e anarchismo, soprattutto i qabbalisti e i chassidici. Come ebbe a scrivere Giora Manor
(del kibbutz Mishmar Ha-Emek),
«da quando è stato concepito […] il kibbutz è sempre stata una libera società che ogni membro può lasciare - come molti hanno fatto e fanno - se non condivide le sue decisioni. […] è prevalso il principio anarchico della libera volontà degli individui. […] Naturalmente i kibbutz hanno regole e ci si aspetta che i membri vi si attengano. Non vi è cioè «anarchia» intesa come totale assenza di norme. Ma la corretta definizione anarchica dell'anarchia non è quella di una società senza norme e regole, ma di una società basata sull'accettazione volontaria delle decisioni e dei regolamenti sociali da parte di ogni individuo. Consenso senza coercizione e sanzioni istituzionalizzate. Ciò è esattamente quanto avviene nella vita del kibbutz»30.
Tuttavia, le speranze di Buber e dei fautori di una conciliazione con gli arabi si sono risolte in disillusione e dramma, per motivi riguardanti entrambe le parti in causa. Da un lato abbiamo proprio l'intreccio con il sionismo politico, che rapidamente assunse connotati di «nazionalismo» religioso e di imperialismo, determinando così un cambio di paradigma da cui è conseguito - per la sua vittoria - il naufragio dell'anarchismo e di tutto il pensiero libertario in un Israele dominato da una tutt'altro che messianica volontà di potenza temporale. Resta del tutto aperta la questione se e fino a che punto non vi abbia contribuito anche l'estinzione della cultura yiddish, a causa del genocidio della Germania nazista in Europa. Dall'altro lato c'è il fatto che gli arabi, sotto il colonialismo anglo-francese, erano diventati tutt'altro che aperti alla conciliazione con i nuovi venuti dall'Europa31.
Nel mondo ebraico addirittura non mancò chi rivolse a Buber lo strampalato rimprovero di aver sovrapposto il sionismo al messianismo. In realtà aveva cercato di fondere messianismo e sionismo in una visione tanto limpida quanto - purtroppo - tutta e solo sua; con la conseguenza che ancora una volta il messianismo ha cozzato col mondo della politica aliena, e ancora una volta a vincere è stata quest'ultima.
Tirando le somme, l'opera sociale e politica di Buber si inquadra - a un livello indubbiamente alto - nelle ricerche di alternative all'antisocialità dell'individualismo borghese, del capitalismo e di quello che, dopo lo svuotamento della rivoluzione d'Ottobre, è stato il socialismo reale. Le due apparenti alternative - che Buber ha rifiutato - si identificano nello sfruttamento e nell'oppressione, nonché nella disorganizzazione sociale ed esistenziale della persona, eliminando gli spazi dialogici. Nel suo sforzo di superamento, Buber ha ripreso la tradizione dell'utopismo socialista e libertario, in ciò animato anche da una solida fede in Dio e - nonostante tutto - nell'essere umano. Questa concezione non ha avuto seguito; ma ciò non significa che fosse irrealista e non esprimesse esigenze
concrete e positive. Una volta Oscar Wilde definì il cinico come una persona che accetta il mondo per quello che è e si tiene lontana dal dover essere. Buber vide la realtà del mondo, ma fece del dover essere l'asse centrale della sua vita intellettuale, consapevole che il sogno non è disarmato di fronte alla realtà mondana, se diventa un sogno in comune ed è armato di volontà collettiva. Il punto sta proprio qui: nel voler fare il possibile desiderando l'impossibile.
Il realizzarsi di questo presupposto può aprire il sogno a una prospettiva messianica ed escatologica. In questo Buber traeva lievito dalla tradizione culturale ebraica, per la quale la storia non è un progresso lineare e irreversibile ed esiste sempre la possibilità di rinnovamento e riscatto, ma non in termini di gradualità: il rinnovamento, la rivoluzione, è per lui (perfettamente in linea con Landauer) l'irruzione improvvisa del nuovo, l'irruzione
messianica del rinnovamento. L'attesa del Messia è l'immagine iconica di ciò. D'altro canto - notava Buber -, chi pensa alla storia come progresso non attende certo il Messia. In merito al messianismo Buber ha operato per far pendere da una parte ben precisa, piuttosto che dall'altra, la tensione dialettica - esistente nell'Ebraismo - fra attendere e agire, tra fede in Dio e fede nell'essere umano, con riguardo alla sua partecipazione alla salvezza, propria e del mondo, orientandosi verso la creazione di un ordine sociale giusto, senza oppressi né oppressori, e quindi senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Di qui la visione di una comunità basata su rapporti umani autentici, sul mutualismo reciproco e sul riconoscimento completo dell'Altro. La visione di un mondo libero, in cui la libertà non è la vuota e solipsistica libertà dell'individualismo borghese, bensì la liberazione di massa dai vincoli del capitalismo (privato o di Stato) e dell'atomizzazione; la visione di una possibilità di vivere spontaneamente in comunità volontarie.
La visione buberiana contiene innegabilmente una sorta di nostalgia per le comunità del passato, maggiormente organiche rispetto agli aggregati sociali frutto della vittoria del capitalismo e della sua espansione. E non casualmente Buber ha ripreso la distinzione di Tönnies fra comunità e società, additando in quest'ultima la mancanza di interna coesione32. Tuttavia egli non ha certo vagheggiato un ritorno al passato, cioè la riproposizione pedissequa di quel che è stato. Anche rispetto al passato la sua comunità è nuova, ma non antitetica, poiché le si apparenta nei valori. Una comunità nuova - una federazione di comunità - che egli non concepisce come «stato», ma come processo, riprendendo così la classica visione anarchica delle comunità in cui liberamente si sperimentano nuove forme di organizzazione e di produzione. La sua sottolineatura circa l'esigenza che il rinnovamento rivoluzionario debba avvenire nel profondo delle coscienze personali, prima ancora che nelle istituzioni e nelle forme produttive, è della massima importanza, essendo egli consapevole di come sia proprio la mancanza di diffusa coscienza comunitaria e della coesione interna che ne deriva a rendere alla fine necessario lo Stato e la sua fisiologica coercizione/repressione. L'alternativa non è fra Stato liberale e Stato illiberale, bensì fra Stato e libertà.
È forte nell'opera buberiana il richiamo al ritorno alla terra, a fronte dell'atomizzazione e disgregazione esistenti nella vita cittadina. Pur tuttavia, fare di Buber l'apostolo dell'abbandono tout court dell'urbanesimo vorrebbe dire tradirne il pensiero. In realtà il senso della sua posizione sta nella creazione di forme di convivenza comunitaria che vadano al di là degli attuali assetti urbani, senza trascurare che a monte di tutto c'è il rinnovamento, sia interiore che nei rapporti intersoggettivi. Qualcuno ha definito la concezione sociale di Buber «teocrazia anarchica», per il fatto di riconoscere al di sopra di tutto solo Dio. Lasciamo stare il fatto che questa definizione possa fare inorridire gli anarchici duri e puri: in realtà Buber si è riallacciato all'originario patto teologico-politico della storia di Israele, ma dell'Israele premonarchico, in cui il Melekh («Re») era Dio e non un uomo. Cosicché accettare la regalità divina si accompagna con l'anelito all'autonomia dell'essere umano, con il rifiuto del dominio.
La Sion di Buber, la sua Terra Promessa, ha natura spirituale, religiosa e antistatalista: un ideale virtualmente universale. Niente a che vedere col progetto politico e nazionalista di Theodor Herzl, bensì un «sionismo tutto buberiano», fedele alla Torah e orientato alla realizzazione del Regno di Dio, per il quale Gerusalemme potesse diventare l'alternativa reale alla stalinista Mosca e alla capitalista New York. Disse Buber che «Israele perde se stesso se sostituisce la Palestina con un'altra terra, e perde se stesso se sostituisce Sion con la Palestina». Qui in effetti c'è la grande illusione di Buber: pensare ancora che un Israele in fase di allontanamento sempre più progressivo dalla Sion spirituale - ancor prima che Buber si stanziasse in Palestina - potesse diventare l'araldo e il precursore di un mondo redento.
IL PROFETA ANARCHICO DELL'EBRAISMO
Per dare il senso - e anche la pienezza - della concezione di Buber è necessario illustrare, sia pur brevemente, il suo nesso profondo con la Qabbalah (letteralmente, «tradizione»), che ne fa un epigono del profetismo ebraico, e non dei minori. Di sicuro quanto si dirà qui appresso sarà giudicato del tutto visionario, e magari campato per aria. Va però notato che la stessa taccia, a buon diritto, può essere rivolta anche ai profeti del Vecchio Testamento (per noi cristiani), quando presentavano con immagini da età dell'oro i tempi nuovi implicati dalla prospettiva messianica. Se fu visionario Buber, allora lo furono anche quei profeti. E allora, perché venerarli invece di considerarli prossimi alla follia?
Il fatto è che il profeta (almeno in senso biblico) non è un indovino per forza divina, bensì un veggente che in quanto tale «vede» la realtà dell'essere e del dover essere, e se è visionario lo è in virtù di questa sua giusta visione: questa capacità che gli proviene per forza divina, ed è la capacità di esprimere una retta coscienza religiosa in linea con i valori universali e specifici della propria religione, secondo la rivelazione divina. Ciò posto, prima di venire al punto si deve fare una piccola digressione in merito alla Qabbalah, per poi poter trattare del nesso fra questa antichissima tradizione esoterica e Buber. Nesso che risponde al «misterioso» nome di tikkun.
Preliminarmente va ricordata la fondamentale importanza che ha nell'esoterismo qabbalistico il concetto di sefiroth33: per i rabbini essoterici sono gli attributi di Dio, ma per il qabbalista si tratta più propriamente di potenze, o anche ipostasi, all'interno della vita divina, prodotte attraverso un processo «emanativo» interno a Dio. Hanno il duplice e concomitante aspetto di essenza e contenitori, cioè nello stesso tempo identiche a Lui e da Lui separate, ma con la particolarità di essere «senza confusione e senza distinzione». Quand'anche non manchino i qabbalisti che non le considerano perfettamente consustanziali con Dio, sta di fatto che non sono mai state intese al di fuori del Regno divino. E per tutti i qabbalisti, in definitiva, la complessità interna di Dio è tale da implicare la distinzione nell'unità, e l'unità nella distinzione34.
Nel sistema del qabbalista Isaac Luria, ai prodromi del processo della creazione le sefiroth si espandono col soffio divino e si ordinano in quelli che metaforicamente definisce «vasi». Ma a un certo punto essi si spezzano e la luce che contengono si espande caoticamente. In questa deflagrazione primordiale i dispersi «elementi» vanno o verso l'alto o verso il basso - con il formarsi, quindi, anche di forze negative -, e comunque nulla si trova più al suo posto: è la fine dell'unità, l'esilio dei vari «elementi». Per farla breve, diciamo che questo caotico risultato richiede l'azione di riunificazione, o di restaurazione,
che Dio compie attraverso l'essere umano e che si chiama tikkun.
Nel mondo ebraico il Chassidismo fece della Qabbalah la matrice della sua etica, dando luogo a una prassi quotidiana e comunitaria in cui a ciascuno era affidato un tikkun personale, un contributo alla «riparazione dell'infranto». E Buber aveva fatto del Chassidismo una delle sue maggiori fonti di influenza, traendone l'insegnamento che ogni vita - ogni azione umana - contiene una scintilla divina che si può ridestare. In fondo è questo il compito che per Buber doveva svolgere la sua comunità: comunità che finiva con l'avere un fondamento non più solo politico, ma anche e soprattutto metafisico, essendo chiamata
a contribuire al processo di ricomposizione della perduta unità metafisica. La comunità
buberiana, quindi, come strumento di sacrum facere, pensata in grado di eliminare (per il suo assetto e il suo modo di essere) cause sociali e personali del Male.
Questo non è avvenuto, e per di più Israele si è rivelato inadeguato (a voler essere eufemisti!) rispetto al compito che Buber aveva vagheggiato per esso. Un notissimo detto popolare avverte che le strade per l'inferno sono lastricate di buone intenzioni, ma se ne potrebbe coniare anche uno opposto: le strade per i tempi nuovi sono lastricate con i fallimenti delle buone intenzioni. Tuttavia, se si è davvero convinti, tanto vale continuare a provarci, perché… non si sa mai.
PICCOLA BIBLIOGRAFIA
(Testi non citati in nota)
Ernst Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 2005.
Martin Buber, Sentieri in utopia. Sulla comunità, Marietti, Genova-Milano 2009.
Id., Israele e Palestina. Sion: storia di un'idea, Marietti, Genova-Milano 2008.
Id., Profezia e politica. Sette saggi, Città Nuova, Roma 1996.
Id., Il cammino dell'uomo secondo l'insegnamento chassidico, Qiqajon, Bose 1990.
Id., Il problema dell'uomo, Marietti, Genova-Milano 2004.
Id., «Io e tu», in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993.
Id., Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba, Giuntina, Firenze 2008.
Id., La regalità di Dio, Marietti, Genova 1989.
Id., Il cammino del giusto. Riflessioni su alcuni salmi, Gribaudi, Milano 1999.
Id., Discorsi sull'Ebraismo, Gribaudi, Milano 1996.
Michael Löwy, Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale : Une étude d'affinité élective, Presses universitaire de France, Paris 1988 [trad. italiana: Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri, Torino 1992].
Gershom Scholem, Concetti fondamentali dell'ebraismo, Marietti, Genova 1986.
1 La traslitterazione è effettuata secondo i canoni della pronuncia bizantina, ancora in uso nei paesi di lingua greca, e non secondo l'opinabile pronuncia codificata da Erasmo da Rotterdam, in uso nelle scuole italiane.
2 G. Woodcock, L'Anarchia, storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano 1976, p. 414.
3 A. Bertolo, «Potere, autorità, dominio», in Volontà, n. 2, 1983, pp. 51-78.
4 Erich Fromm, Dalla parte dell'uomo. Indagine sulla psicologia della morale, Ubaldini, Roma 1970, pp. 17-9.
5 Ida Mett, 1921: la rivolta di Kronštadt, Partisan, Roma 1970.
6 Sull'argomento si veda Christiaan Cornelissen, Il comunismo libertario e la società di transizione (1931), I Quaderni di Alternativa Libertaria, Fano 2011.
7 In Giampietro Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Lacaita, Manduria 1998, p. 867-75.
8 Ibid., p. 876.
9 Pavel Evdokimov, Le Christ dans la pensée russe, Editions Du Cerf, Paris 1970, p. 38.
10 Cfr. Federico Battistutta, No man's land. Elogio e critica del religioso contemporaneo, IPOC, Milano 2012, pp. 88-9.
11 Quella occidentale è egemonizzata, alla fin fine, dalla teoria della predestinazione; non solo nel Calvinismo, ma anche - come esito logico - in Tommaso d'Aquino. Vero è che egli distingue fra prevedere e predestinare, ma al risultato finale della predestinazione non si sfugge nemmeno in questo modo, perché ha dovuto ammettere che Dio prevede ab aeterno, e quindi in definitiva è come se tutto si sia già compiuto per tutti, ancor prima della nascita di ogni singolo essere umano.
12 Il sabato. Il suo significato per l'uomo moderno, Garzanti, Milano 2013.
14 E. Fromm, La legge degli ebrei. Sociologia della diaspora ebraica, Rusconi, Milano 1993, pp. 32-3.
15 Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2004.
16 Is 58,1-10.
18 Se questo non è accaduto lo si deve solo a un «dettaglio» storico: quando la Gran Bretagna, per proprie esigenze strategiche e politiche, decise di dare al principe Abdallah (figlio di Hussain, Sceriffo della Mecca, e fratello di Faisal, primo re dell'Iraq) il regno (protettorato) della Transgiordania, l'interessato acconsentì a condizione però che il territorio affidatogli restasse assolutamente vietato all'immigrazione ebraica. La convenienza britannica fece accettare la condizione, altrimenti anche le terre oltre il Giordano sarebbero cadute nelle mani dei sionisti.
19 M. Buber, Israele, Garzanti, Milano 1964.
20 Si tratta di Jeremias, eine dramatische Dichtung in neon Bildern, opera teatrale marcatamente pacifista, andata in scena l'anno successivo. Cfr. l'edizione Kessinger Pub. Co., Whitefish, MT 2010.
23 Per esempio, Buber non esitò a definire il massacro di civili compiuto dall'estrema destra sionista a Deir Yassin, nell'aprile del 1948, «una macchia nera sull'onore della nazione ebraica»; protestando altresì inutilmente contro l'insediamento in quella località, dopo il massacro, di immigrati ebrei provenienti dall'Europa orientale, nel 1949. Oggi a Deir Yassin non ci sono monumenti o targhe a ricordo della strage di innocenti di cui era stato teatro: vi sorge però un manicomio. Tutto sommato è il simbolo più adatto.
24 A Gerusalemme Scholem aderì all'esiguo gruppo Brit Shalom («Alleanza di Pace»), fondato nel 1925 proprio da Martin Buber, insieme a Leo Magnes e altre personalità della neonata Università Ebraica. Scholem concepiva la Palestina come un'occasione e un centro di un rinnovamento per l'Ebraismo, e fino agli avvenimenti tedeschi del 1933 non ritenne che fosse necessaria una immigrazione ebraica di massa in Palestina. Anche come esponente di Brit Shalom, propugnava l'uguaglianza dei diritti fra arabi ed ebrei come per una trattativa orientata alla creazione di uno Stato binazionale. Inoltre Scholem era contrario alla confusione tra redenzione messianica e obiettivi politico-statuali. Brit Shalom restò isolato anche e soprattutto a opera dei sionisti socialisti del Mapaï, di cui criticava la politica araba del tutto reazionaria.
25 M. Buber, «Distanza originaria e relazione», in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 288.
26 Per quanto Colin Ward, anarchico, non lo consideri tale, bensì parli di «socialismo libertario»; ma qui entriamo nel campo sia delle sottigliezze classificatrici, sia dell'atteggiamento ostruzionista di un certo milieu anarchico verso i libertari che non si sono distaccati dalla religione, sulla base del «dogma» - posto da questo stesso milieu - secondo cui l'anarchico «deve» essere ateo, con tanti saluti per il vero principio anarchico della libertà di pensiero. Per costoro, per esempio, il Tolstoj libertario, nemico dello Stato, della proprietà ecc., non era un anarchico.
27 Il primo kibbutz fu fondato nel 1909. Gli aderenti passarono da 179 nel 1914 a 2624 nel 1927 e a 22.932 nel 1941. Ai primi del 1990 erano 124.900, ripartiti in 270 kibbutzim.
Sull'argomento si veda, in particolare: Roberto Massari, «Sui kibbutzim (1966-1967)», in Dentro e oltre gli anni '60. Culture, politica e sociologia (1960-74), Massari editore, Bolsena 2005, pp. 47-110; il saggio - scritto fra l'autunno-inverno del '66 e gli inizi del '67 - si occupa ampiamente delle caratteristiche dei kibbutzim presenti all'epoca, a poco tempo dallo scoppio della Guerra dei sei giorni, che ne modificherà sostanzialmente la natura decretando di fatto la scomparsa della loro originaria fisionomia collettivistica.
28 A differenza di quel che accadeva nel moshav, villaggio cooperativo in cui i soci conservavano la proprietà individuale della terra, ma gestivano in comune acquisti e vendite.
29 Col tempo, tuttavia, la linea anticapitalista e comunista si è andata via via attenuando fino all'apertura al mercato, alla proprietà e al profitto, fino alla vera e propria privatizzazione. Originariamente i lavori erano assegnati a ciascuno dalla comunità e il salario (uguale per tutti) era fissato dall'assemblea, mentre adesso i lavori sono scelti dai singoli, il salario è liberalizzato e le case sono in proprietà privata.
31 Per tali questioni rimando a un mio studio sulla questione palestinese, di prossima pubblicazione su Studi Interculturali.
32 Cfr. Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft (1887) [trad. italiana: Comunità e società, a cura di Maurizio Ricciardi, Laterza, Roma 2011].
33 Sono dieci: Keter Elyon (Corona Suprema), Hokhmah (Sapienza), Binah (Intelligenza), Hesed (Amore) o Gedullah (Grandezza), Gevurah (Potere) o Din (Giudizio), Tiferet (Bellezza) o Rahamim (Compassione), Nezah (Costanza), Hod (Maestà), Zaddik (Giusto, Virtuoso) o Yesod Olam (Fondamento del Mondo), Malkhut (Regno) o Atarah (Diadema).
34 Sull'argomento si vedano: G. Scholem, Le origini della Kabbalà, Il Mulino, Bologna 1974; Id., La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980; Id., Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1998; Roberta Simini - Alberto De Luca, In principio era Dio. Unità e complessità del concetto di Dio nell'esicasmo cristiano, nella quabbalah ebraica e nel sufismo musulmano, Laterza, Bari 2004.