I CURDI: LA PIÙ CONSISTENTE MINORANZA ETNICA
Arriviamo ora al più grave e irrisolto problema etnico della Turchia contemporanea.
I Curdi sono notoriamente un popolo senza Stato proprio, diviso fra più Stati, perseguitato in vario modo a seconda dei paesi e costretto a una forte emigrazione (riguarda almeno un milione di persone stanziatesi in Germania, Scandinavia e Stati Uniti; esistono piccole comunità curde anche in Libano, Giordania, Georgia, Azerbaigian, Afghanistan e Pakistan). Si tratta di un popolo che numericamente si aggira fra i 35 e i 40 milioni di persone. Probabilmente discendono dagli antichi Medi, etnicamente sono affini alle popolazioni dell'altopiano iranico e appartengono al ceppo linguistico indoeuropeo, ma non hanno una lingua unitaria: la cosiddetta «lingua curda» è un termine che comprende vari linguaggi (i principali sono il Kurmanji in Turchia e il Sorani in Iraq, ma ne esistono altri ancora) fra loro imparentati. Sul piano religioso sono in maggioranza musulmani sunniti, ma esistono anche minoranze sciite, cristiane e israelite. In Turchia sono il 18-20% della popolazione, in Iraq circa il 12%, in Siria più del 5%, in Iran il 4% e in Armenia l'1,3%.
|
Insediamenti curdi in Turchia e nel Medio Oriente |
Oltre alla divisione territoriale, i Curdi hanno al loro passivo storico anche una forte e radicata disunione all'interno delle stesse singole realtà regionali, con faide politiche e non. Si pensi - ne parleremo in seguito - al fenomeno del collaborazionismo armato col governo turco da parte di miliziani curdi organizzati nelle guardie di villaggio, oppure alle sanguinose contese che contrapposero in Iraq il clan Barzani al clan Talabani, nonché ai non facili rapporti fra Kurdistan iracheno e Pkk. Non è detto, comunque, che un'eventuale unità curda (ipotetica, al momento) faciliterebbe la lotta per la formazione di uno Stato curdo unitario, giacché darebbe luogo a una poderosa coalizione anti-curda, facilitata dalla geografia politica.
A motivo del carattere nomade e tribale della società curda, non si realizzò mai un'organizzazione politica unitaria. Tuttavia, fino al secolo XVI il territorio del Kurdistan fu governato da prìncipi locali, pur trovandosi tra due colossi imperiali: la Persia e l'impero ottomano. Questo finì nel 1514 con il Trattato di Gialdiran e nel 1639 col Trattato di Kasiri-Sirin, i quali sancirono la definizione dei confini fra questi due imperi, e quindi la prima spartizione del Kurdistan. Le forme di autonomia che i Curdi erano riusciti a mantenere nel periodo ottomano cominciarono a essere ristrette durante il Tanzimat, che fu anche un tentativo di centralizzazione del potere sultanile. Furono di questo periodo le prime rivolte di potentati curdi: esse, per quanto non coinvolgenti tutto il Kurdistan ottomano, possono comunque essere considerate i prodromi di quello che sarà il consapevole nazionalismo curdo.
Prima della riscossa di Kemal, gli Alleati - attuando un utilitaristico divide et impera - avevano «pensato bene» di fare ai Curdi un regalo - magari all'epoca da essi poco richiesto - a discapito del Sultano: e così il primo Trattato di pace firmato dallo sconfitto impero ottomano a Sèvres, nel 1920, aveva illuso i Curdi, prevedendo la formazione di un Kurdistan anatolico indipendente. Che non fu mai realizzato, in quanto questo accordo fu poi messo nel dimenticatoio della politica a seguito della grande vittoria kemalista e sostituito, nel 1923, dal Trattato di Losanna, che ignorava del tutto qualsiasi ipotesi di Kurdistan. Un esito bruciante per la giovane minoranza nazionalista curda.
I territori ex ottomani a maggioranza di lingua araba - a seguito della politica imperialista - finirono divisi in misura quantitativamente diversa fra Armenia, Iraq e Siria. In Iran, come detto, già c'erano. In quasi tutti questi Stati si apriva per loro una fase di persecuzione, in misura e con modalità variabili.
Nei riguardi dei Curdi anatolici, la politica di Atatürk si sviluppò all'insegna del più puro opportunismo, in base alle contingenze. Si può dire che l'aiuto curdo alla lotta contro l'invasione greca fu essenziale per la vittoria finale; è un dato di fatto non eliminabile dalla considerazione che la risposta massiccia all'appello di Kemal da parte dei vilayetler («distretti») di Erzurum, Bitlis, Van, Mus e Erzincan ricevette una spinta di rilievo dal pericolo che quelle zone fossero annesse dall'Armenia e dal fatto che Kemal distribuì le proprietà armene ai capi tribù curdi. La prima grande Assemblea nazionale kemalista contava più di 1/3 di delegati curdi. Fino alla firma del Trattato di Losanna (24 luglio 1923), Atatürk mantenne un atteggiamento più che aperto verso i Curdi, parlando addirittura - nello stesso anno - di possibilità per essi di un certo grado di autonomia (letteralmente, «bir tür yerel özerklik»). Con la Repubblica turca, per i turchi e con i suoi abitanti che dovevano turchizzarsi - qualora già non lo fossero - il quadro mutò a 360º.
Durante gli anni Venti, nella Turchia repubblicana, scoppiarono due grandi rivolte curde: la prima, guidata da Şeikh Said, nel 1925, fu stroncata sul nascere; la seconda, detta «dell'Ararat», coinvolse più Stati, ebbe anche l'appoggio esterno armeno, durò dal 1927 al 1930 e venne stroncata da un massiccio impiego delle Forze armate, con la tacita collaborazione dell'Iran e dell'Urss. Si parla di alcuni milioni di morti.
In base ai presupposti ideologici repubblicani, non stupisce che con la fine del Sultanato i Curdi non furono più ufficialmente tali, bensì «turchi della montagna» (diventati poi «turchi orientali», nel 1980). Fin qui niente di male, almeno se si aderisce al detto shakespeariano «sotto un altro nome la rosa ha lo stesso profumo». Ma le cose non si limitarono al formalismo del nome, bensì giunsero a includere le sfere linguistica e culturale: vale a dire, gli elementi di base di quel che definiamo «nazionalità». Di modo che, quando i Curdi di Turchia cominciarono a rivendicare seriamente la propria identità etnica e culturale, fino al desiderio di indipendenza, la repressione sanguinosa e implacabile non fu inaspettata, ma - per così dire - nella logica delle cose. I primi a non doversene stupire avrebbero dovuto essere proprio i Curdi, avendo entusiasticamente e spontaneamente partecipato al grande massacro di armeni ordinato durante la Grande Guerra da Talaat Paşa ed Enver Paşa. Poiché di un analogo massacro non era stata invece vittima la minoranza greca dell'impero (la Grecia non faceva parte del fronte bellico degli Alleati), era di tutta evidenza che la tragica decisione assunta dal governo dei Giovani Turchi nasceva dall'intenzione di disfarsi di una minoranza palesemente orientata in senso filorusso e filofrancese, e quindi pericolosa per l'unità dell'impero. L'esperienza armena avrebbe dovuto allertare sul fatto che né l'autonomismo curdo, né a maggior ragione l'indipendentismo, l'avrebbero fatta franca.
Tuttavia, inquadrare il sanguinoso precipitare della situazione nella sola ottica della crudeltà o dell'intolleranza fine a se stessa sarebbe riduttivo. In realtà il problema è più ampio e complesso e si riallaccia alle non granitiche basi della costruzione kemalista, di cui si è già parlato.
Da tutto questo è derivata, sul piano politico e giuridico, la messa al bando della lingua e della cultura dei Curdi, con le consequenziali persecuzioni verso i dissidenti: cioè a dire, la formazione di un problema curdo che nell'impero ottomano non esisteva. L'aver attivamente partecipato i Curdi alla Guerra di indipendenza non poteva costituire un titolo di merito di tale portata da determinare un'eccezione nella generale turchizzazione del paese.
Negli anni Quaranta il governo di Ankara, per realizzare un'assimilazione rivelatasi più difficile di quanto desiderato, oltre a impiantare scuole turche in ogni paese e villaggio e vietare di parlare curdo, ricorse alla sottrazione di bambini alle famiglie, con l'obbligo di frequentare le scuole fino ai 16-17 anni e con la possibilità di incontrare i genitori solo una volta o due l'anno.
Normalmente i tentativi di forzato sradicamento dell'identità culturale e linguistica di una popolazione hanno cattivo esito e provocano reazioni violente e rivendicazioni politiche orientate - nella migliore delle ipotesi - all'autonomia, con la richiesta di indipendenza sempre dietro l'angolo. Così è stato per i Curdi di Turchia. Dal 1974, con l'organizzarsi di una parte dei Curdi nel Pkk (Partiya Karkerên Kurdistan - «Partito dei Lavoratori del Kurdistan»), formalmente di orientamento marxista, guerriglia e repressione militare hanno devastato la Turchia orientale, con varie province messe in stato d'assedio, massacri da ambo le parti, 4.000 villaggi distrutti, torture e circa 35.000 morti, 3 milioni di profughi e almeno 10.000 prigionieri politici, un enorme costo economico della repressione, che ha impegnato almeno 300.000 militari, più 50.000 miliziani curdi organizzati e pagati da Ankara. Da notare che il Pkk è forse l'unica formazione curda su cui si è appuntata l'ostilità dell'Occidente, essendo considerato gruppo terrorista, a differenza degli iracheni Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e Unione patriottica del Kurdistan (Upk), degli iraniani Partito democratico del Kurdistan iraniano e Partito per la libertà del Kurdistan.
La particolare durezza nella conduzione della lotta contro la guerriglia da parte delle Forze armate governative non deriva solo dalla loro tradizionale «mancanza di tenerezza», ma sia dalla consapevolezza di concretizzare la loro missione istituzionale di difesa dell'integrità del paese, sia dall'altrettanta durezza applicata fin dall'inizio dal Pkk, con la conseguenza dell'incrociarsi di efferatezze da cui nessuna delle parti in causa (nemmeno i Curdi, sempre presentati come le uniche vittime dai media occidentali) emerge immacolata.
Pur con tutto il suo violento rigore, il governo di Ankara non ha realizzato il perseguito obiettivo unitario ed è certo che oggi come oggi un ipotetico ritiro dell'esercito turco dai territori curdi porterebbe alla formazione di un Kurdistan anatolico indipendente. Il governo di Recep Tayyip Erdoğan ha allentato la pressione culturale sui Curdi, anche e soprattutto per le esigenze di cosmesi imposte dall'Unione europea al fine del fantomatico ingresso in essa della Turchia, e forse il caso della deputata curda finita in galera per aver usato la propria lingua nell'aula parlamentare appartiene al passato. Ma non è detto. La concessione dell'autonomia a un Kurdistan turco resta ancora una misura non facilmente digeribile dalla politica turca e dalle Forze armate, e tutto sommato non è agevolata dalla recente formazione di un Kurdistan iracheno dall'amplissima autonomia - a seguito dell'occupazione statunitense dell'Iraq. In Turchia il problema curdo resta aperto e senza una soluzione sullo sfondo.
Qui si può comunque porre un problema politicamente scorretto e quindi in genere poco affrontato, preferendosi fare il tifo per questo o per quello: vale a dire, fermo restando che le repressioni alla maniera turca hanno il controproducente effetto di rafforzare il nazionalismo e le rivendicazioni anche meno realistiche, c'è da interrogarsi su quale sarebbe l'effettiva presa di tale nazionalismo in fasi e ambienti definibili più «normali». Il dubbio nasce dal fatto che in metropoli come Istanbul e Ankara le azioni del Pkk non sono mai riuscite a creare un clima di tipo nord-irlandese, mentre in questi luoghi i Curdi abbondano, vivono e lavorano. Certo, diversa è la situazione a Diyarbakır, città della regione curda resa ultranazionalista dalla repressione, ma ci si può chiedere se il ribellismo curdo non sia tanto questione di una minoranza etnica, quanto di una minoranza in una minoranza. Esempio di un'impostazione diversa (e forse più coi piedi per terra) è il grande vecchio delle lettere turche, Yaşar Kemal, che si considera curdo di espressione turca. Ben poco dicono le percentuali di Curdi che, anche all'estero, pagano il «pizzo» al Pkk, giacché qui siamo al confine fra la «tassa rivoluzionaria» e l'estorsione para-mafiosa, non essendoci possibilità di scelta.
Poiché anche le previsioni per il futuro prossimo sono estremamente aleatorie, spingersi più avanti non è consigliabile. Si può solo dire cosa si legge nei dati di fatto attuali. Essi ci dicono che - a parte la presente, e fragile, autonomia curda dell'Iraq - altrove i Curdi hanno poco da aspettarsi. Saranno fortunati se in Turchia otterranno ulteriori margini di riconoscimento. Qui c'è però un elemento a doppia faccia, che si aggiunge all'ideologia di quella Repubblica: il fallimento sostanziale della lotta armata curda è suscettibile di portare il governo di Ankara ad ammorbidire ancor di più la sua politica, ma anche di distoglierlo da ciò, proprio per le conseguenze del fallimento del Pkk. Il caso iracheno è stato del tutto particolare, poiché senza l'intervento imperialista di Washington con tutta probabilità non si sarebbe arrivati alla situazione attuale. D'altro canto, i dirigenti curdi iracheni non hanno molto spazio per fungere da punto di agglutinazione per altre realtà regionali curde, a motivo dei rapporti tutto sommato buoni che hanno attualmente con la Turchia (e anche con l'Iran): è infatti significativo che la Turchia resti assolutamente ostile alla costituzione di un'autonomia curda in Siria. In Turchia il massimo conseguibile è forse il mantenimento degli spazi ottenuti (per lo più culturali). L'autogoverno rivendicato da certi settori della dissidenza curda (alla maniera di Baschi e Catalani in Spagna) rimane velleitaria, di fronte a una nazione turca tutt'altro che pronta ad accettarla.
LA QUESTIONE ARMENA
Quella armena è una tragica questione ancora aperta, a motivo del rifiuto della Repubblica turca di riconoscere che il massacro di armeni ordinato dal governo ottomano dei Giovani Turchi durante la Prima guerra mondiale fu un genocidio e di assumersene la responsabilità, chiedendo scusa. Per gli oppositori all'ingresso della Turchia nell'Ue, la questione fa parte degli ostacoli irrisolti; di recente l'Assemblea nazionale francese ha approvato una legge che configura come reato il negazionismo di tale genocidio, e per chi sostenga pubblicamente che il massacro non arrivò a configurare un genocidio sono previsti un anno di prigione e 45.000 euro di multa.
L'incontrovertibile dato di fatto è che una notevole parte degli armeni dell'impero ottomano fu vittima di una specie di «grande gioco» (nel senso dato da Kipling al termine) gestito da Russia e Gran Bretagna per i propri obiettivi imperialisti, a far tempo dalla guerra russo-turca del 1877-78. La Russia voleva acquisire lo sbocco al Mar Mediterraneo per la propria flotta, così da essere quindi presente nel Vicino Oriente; la Gran Bretagna voleva controllare (o avere chi controllasse in veste subordinata) le vie terrestri dal Caucaso all'India, alla cui frontiera afghana era in corso il «grande gioco» principale fra il suo imperialismo e quello russo. Nel mezzo, e nella morsa, c'erano sia l'impero ottomano, teatro di mal sopportate ingerenze straniere, sia - dentro questo impero - gli armeni, portatori di un nazionalismo attizzato e strumentalizzato in modo opportunistico e irresponsabile da chi fingeva di aiutarli senza poterlo né volerlo fare.
|
I territori ex armeni in Turchia, Georgia e Azerbaigian |
Era quindi inevitabile lo scontro violentissimo fra il nazionalismo armeno, virulento ma debole, e un montante nazionalismo turco, virulento ma forte. E purtroppo, laddove il nazionalismo ha operato all'interno di ambienti multinazionali - o multietnici che dir si voglia - il massacro del diverso ha sempre costituito la tragica «normalità»; normalità da cui non sono stati immuni i turchi (cosa fin troppo notoria), ma nemmeno gli armeni (cosa assai meno nota). A differenza di greci, serbi, bulgari e rumeni, gli armeni - quando cominciarono a ostilizzare l'impero ottomano - si trovarono alle prese con due avverse situazioni non superabili: in nessuna regione dell'impero erano maggioritari; non trovarono, anche per questo, nessuna potenza europea disposta ad aiutarli davvero. La più attiva in questa tragica commedia fu forse la Russia zarista, ma con il suo altalenante atteggiamento fece agli armeni un dono avvelenato: avendo essi l'appoggio di un secolare e tenace nemico dell'impero ottomano, al governo del Sultano fu facile additarli come traditori. Naturalmente si susseguirono atroci rappresaglie reciproche in cui si ebbero - come sempre accade in casi del genere - armeni vittime innocenti e armeni carnefici di innocenti. Lo stesso dicasi per i turchi, con i loro criminali ma pure con le loro vittime delle rappresaglie e del terrorismo armeno.
Propaganda e storiografia armene fanno risalire la loro accusa di genocidio alla fine dell'Ottocento, vale a dire, vari decenni prima della Grande Guerra, durante cui si ebbe il massacro di proporzioni maggiori. È fuor di dubbio che nell'ultimo quarto del secolo XIX, in varie regioni dell'impero, fu percepito il ruolo di quinta colonna straniera da parte del nazionalismo armeno; e anche il governo del Sultano si rese conto di quel pericolo specifico che ne aggravava la debolezza. Tuttavia, sembra erroneo vedere negli eccidi localizzati di quel periodo l'antefatto o il prologo del grande massacro del 1915-16, non essendoci stata alcuna scelta politica globale del governo ottomano in tale direzione. Semmai, fino al 1908 la politica governativa fu orientata alla preservazione di situazioni di convivenza pacifica tra le varie etnie e religioni dell'impero.
L'avvento al potere dei Giovani Turchi mutò del tutto il quadro; con la Prima guerra mondiale e l'intervento ottomano al fianco di Germania e Austria-Ungheria, la questione armena diventò un problema di sicurezza del fronte interno, con la presenza di reparti armeni nelle truppe russe che avevano iniziato l'invasione dell'Anatolia, col corredo di massacri di popolazioni musulmane. I due veri padroni dell'impero - Enver Paşa e Talaat Paşa -pensarono di risolvere con una specie di «soluzione finale» ante litteram, fatta di indiscriminati massacri sul posto e deportazioni verso la morte. Il fatto di non essersi trattato di uno sterminio sistematico in tutto il territorio imperiale, e quindi totalizzante, costituisce uno degli argomenti dei turchi che negano l'accusa di genocidio. Sta di fatto, però, che i massacri del periodo bellico furono l'esecuzione di un progetto ideato dai massimi vertici governativi, inserendosi peraltro nell'incipiente programma di turchizzazione subentrato dopo il 1908. L'aveva ben capito l'ambasciatore austro-ungarico a Costantinopoli, il quale osservò che il massacro armeno era un mezzo per la creazione di uno Stato nazionale turco mediante l'eliminazione fisica di elementi stranieri.
A questo riguardo, va detto subito che entrare nelle sabbie mobili dell'esegesi giuridica del concetto di genocidio secondo il diritto internazionale è perfettamente inutile ai fini morali (perché di questo solo ormai si tratta), poiché ognuna delle tesi in campo è argomentabile. Resta tuttavia il fatto che si trattò di un massacro di enormi proporzioni; che tale resta al di là del balletto delle cifre contrapposte presentate dalle parti in causa - giocando al ribasso estremo i turchi (500.000 morti, in buona parte attribuiti ai combattimenti e alle deportazioni) e al rialzo estremo gli armeni (1.500.000 morti).
Immediatamente dopo la fine della Grande Guerra, il governo del Sultano - sia pure obbligato dalle potenze vincitrici - iniziò a processare i responsabili, ma si trattò di un corso giudiziario presto interrotto dagli sviluppi di quel periodo, cioè dalla vittoria di Mustafa Kemal. A quel punto, la questione armena andava archiviata per vari motivi: non rientrava fra le urgenze della nuova Turchia repubblicana; non conveniva affatto ai Giovani Turchi che si erano riciclati come kemalisti; infine, contro gli armeni si era dovuto combattere dopo il 1918 per riconquistare i territori dell'Anatolia orientale - dove esisteva una notevole popolazione turca - che le potenze vincitrici avevano attribuito a un'Armenia indipendente, ridottasi poi a una piccolissima repubblica inserita nell'Urss.
Nel secondo dopoguerra, il negazionismo turco è stato sostenuto nei fatti sia dalla Gran Bretagna che dagli Stati Uniti: se alla prima non conveniva che si andasse a scavare troppo nella sua politica estera del tempo, ai secondi non conveniva urtare la suscettibilità di un alleato custode della delicata frontiera antisovietica sulla linea che dalla Bulgaria va, attraverso il Mar Nero, al Caucaso.
Notoriamente, parlare di genocidio armeno provoca ancor oggi in Turchia reazioni trasversali assai negative. Ragion per cui, tirando fuori l'argomento senza essere armeni, la reazione ufficiale scatta immediata, anche con procedimenti giudiziari. C'è da chiedersi per quale motivo la Turchia reagisca in questo modo, quando sarebbe probabilmente diversa la reazione di un successore di Gengis Khan o di Tamerlano. Oltre a quanto detto in precedenza in un'ottica ideologica e psicologica, non deve essere trascurata l'esigenza, fortemente e diffusamente sentita, di difendere l'identità turca mediante l'autostima. Autostima che viene colpita dagli attacchi - quand'anche non campati per aria - di nazioni straniere peraltro specializzate in massacri che hanno riempito le pagine della Storia e continuano a essere effettuati. Ma anche questo non basta. Qui va fatto un parallelo con la Germania del secondo dopoguerra.
In linea generale, le classi politiche tedesche andate al potere dopo la sconfitta non hanno avuto nessi di continuità con il recente passato nazista (per quanto non siano mancate coperture politiche e giudiziarie per vari criminali di guerra). Orbene, per la Turchia va detto tutto il contrario, nel senso che esiste una chiara continuità fra responsabili e autori del massacro armeno e parte della classe politica kemalista. La Guerra di indipendenza contro greci e Alleati non sarebbe stata possibile - sul piano organizzativo - senza l'appoggio della rete della polizia segreta dei Giovani Turchi e senza la partecipazione diretta di persone con le mani sporche di sangue armeno e le metaforiche tasche piene di quanto rubato ai massacrati. Mustafa Kemal aveva inizialmente parlato di «atto vergognoso», ma dopo la vittoria non proseguì l'azione giudiziaria nei confronti dei responsabili degli eccidi, iniziata dai tribunali del Sultano. Si sospetta che Kemal volesse usare l'iniziale atteggiamento negativo verso i colpevoli dei massacri come una specie di moneta di scambio verso gli Alleati, per ottenere un trattamento della Turchia ben più favorevole di quello che in realtà strapperà a Losanna. Così non fu: salvò l'Anatolia - peraltro da lui già liberata con le armi - e la Tracia turca, ma nulla più; perse Aleppo, Mosul con le sue zone petrolifere e - in una fase iniziale - anche il sangiaccato di Alessandretta (temporaneamente affidato alla Francia come mandataria sulla Siria). Il rigore sul massacro armeno non serviva più come moneta di scambio per la politica estera e, in quelle condizioni, volerlo mantenere per la pulizia interna penale ed etica avrebbe significato aprire una pericolosissima contrapposizione con i suoi sostenitori provenienti dai Giovani Turchi o collusi con essi.
Oggi, irrigidirsi dall'esterno nell'imputare ai «turchi» - in modo indifferenziato storicamente e collettivamente - il massacro armeno durante la Grande Guerra serve solo a irritare il governo di Ankara e la sua popolazione, senza apportare alcun beneficio proprio all'Armenia. In più questa crociata dall'esterno - oltre a implicare apoditticamente l'immutabilità delle identità collettive e a voler corresponsabilizzare i contemporanei per crimini compiuti in costanza di generazioni del passato - non tiene conto del fatto che a doversela poi vedere con la Repubblica turca di oggi è l'attuale Repubblica di Armenia, ben più degli armeni della diaspora (ormai radicati in altri paesi, a prescindere dalla conservazione di tradizioni proprie, e per i quali può dirsi quel che si diceva per gli aristocratici russi fuggiti dalla Rivoluzione: «nulla hanno dimenticato, ma nulla hanno imparato»). Molto meglio sarebbe lasciare ai diretti interessati (cioè Ankara e Erevan) l'incombenza di dirimere la questione. Su questo versante i segnali positivi non mancano affatto, quand'anche non siano stati ancora ratificati i protocolli turco-armeni di Zurigo dell'ottobre 2009, volti ad avviare la normalizzazione dei reciproci rapporti. E allorquando qualcosa si muove, qualcosa poi succede. Inoltre, sul piano interno della società turca, la cosa davvero importante è che si consolidino sempre di più gli spazi democratici e liberali per la libertà d'espressione: solo alveo da cui può nascere un libero dibattito turco, fatto da turchi, su quella tragica pagina di storia.
* Per la pronuncia dei termini in lingua turca: la ü si legge come la u francese di sur; la ğ non ha suono proprio e si limita a prolungare la vocale che la precede; la ı senza il puntino è una vocale muta, assimilabile a una specie di e appena abbozzata; la ş si legge come in scena; la c equivale alla g di gioia; la ç si legge come in cena; la g è dura; l'h è aspirata; la j si legge alla francese; la ö è come il dittongo francese di jeu; la z è una s dolce. L'accento tonico, semplificando, in linea di massima va sull'ultima sillaba.
1 «Religion and Secularism in Turkey», nell'opera collettiva curata da Ali Kazancigil ed Ergun Özbudun, Atatürk: Founder of a Modern State, C. Hurst and Co., London 2009, p. 194.
2 Franco Cardini - Sergio Valzania, Le radici perdute dell'Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Mondadori, Milano 2007, p. 17.
3 Parliamo di battuta d'arresto perché ormai i più autorevoli contemporanei storici europei hanno riletto la portata di quella vittoria ispano-genovese-veneziana-pontificia: l'anno successivo la flotta ottomana era stata ricostituita al completo, ma gli interessi marinari del Sultano si spostarono verso il Mar Rosso e l'Oceano Indiano, a motivo del rilevante pericolo costituito in quelle acque dalla flotta portoghese, sovente collusa con la Persia sciita, il nemico orientale dell'impero ottomano.
4 Ali Kazancigil, «The Ottoman-Turkish State and Kemalism», in Atatürk: Founder of a Modern State, cit., pp. 42-3.
5 Le radici perdute dell'Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, cit., pp. 65-6.
6 Il testo del Trattato (in lingua inglese) è consultabile qui.