Fra gli osservatori
di politica internazionale si pone ormai al di là del semplice sospetto
l’ipotesi che la guerra per procura attualmente in Siria faccia parte di una
nuova guerra fredda fra l’Occidente e il “blocco” Russia/Cina/Iran.
Negli
ultimi tempi la politica estera statunitense, con l’appoggio degli alleati
della Nato, ha aggravato l’instabilità di varie aree strategicamente rilevanti:
Balcani, Nordafrica,
Mediterraneo orientale, Iran; tuttavia non solo in fisica ad ogni azione
corrisponde un’azione uguale e contraria. Nel nostro caso il principale
soggetto controagente è la Russia, che oggi si trova in una posizione migliore
di alcuni anni fa, nella quale spiccano il rafforzamento della sua presenza nei
Balcani a seguito della vittoria in Serbia di Nikolić e nel Mediterraneo
orientale con le crisi di Grecia e Cipro. Non guasta, anzi, il darsi da fare
della Gazprom sulle riserve di gas al
largo delle coste cipriote.
Gli interessi di Cina, Russia e Iran sulla questione
siriana
a) Cina
Al momento
l’interesse cinese verso la questione siriana è indiretto, fermo però restando
che - a motivo della strategia globale degli Stati Uniti - anche per la Cina (e
non solo per Russia e Iran) la Siria di al-Assad costituisce un fianco
occidentale di difesa, seppur lontano. La posizione assunta al Consiglio di
sicurezza è sì “di principio”, tuttavia esprime una preoccupazione concreta,
giacché dopo la Libia un’ulteriore ingerenza nei problemi interni di uno Stato
- nel caso siriano palesemente posta in essere da Stati Uniti, Gran Bretagna,
Arabia Saudita, Qatar, Turchia - un domani potrebbe riguardare anche Pechino
per via dei musulmani Uiguri nello Xinjiang e del Tibet. Entrambi ottimi
pretesti per innescare qualche mina in territorio cinese, con il fine non tanto
recondito di mettere in difficoltà una Cina in fase di espansione commerciale
in Oriente e in Africa. Lo scenario libico, quindi, per Pechino assolutamente
non ha da ripetersi. Il fatto è che il diritto internazionale non si compone
solo di trattati, ma anche di consuetudini: da qui il fondato timore per la
possibilità dell’affermarsi di un nuovo principio consuetudinario di diritto
internazionale legittimante l’intervento contro Stati sovrani quando siano
compiuti per crimini contro la popolazione civile o per la possibilità del
compimento di siffatti crimini.
D’altro canto la
Cina sa benissimo di essere oggetto (insieme alla Russia) di un’azione di
accerchiamento e contenimento da parte degli Stati Uniti, suscettibile di
evoluzioni militari dirette; da ciò è derivato il rafforzamento delle intese
militari e politiche fra Pechino e Mosca, nonché, sul piano economico, il
progetto di realizzare uno
spazio economico eurasiatico unito e un’unione doganale.
b) Russia
Se nella faccenda
siriana la Cina, per il momento, ha solo una parte potenziale che non la
obbliga a entrare direttamenti e in scena al di là del voto al Consiglio di
sicurezza, ben diversa è la posizione della Russia. I suoi interessi in gioco
sono almeno quattro: il primo è uguale a quello cinese, in quanto gli spunti di
intervento dell’Occidente allineato con gli Usa sono vari (Cecenia, Ossezia,
Georgia ed eventuali agitazioni popolari “spontanee” in Ucraina e Bielorussia);
vi è poi da evitare la completa espulsione dal Mediterraneo con la perdita
della sua unica base navale (il porto di Tartus) e di punto fisico di appoggio
strategico verso il mondo arabo; impedire che, saltato l’asse Damasco-Teheran,
tocchi poi all’Iran essere attaccato, con il rischio e la conseguenza di
trovarsi alle sue frontiere meridionali - fisicamente e politicamente - di
nuovo la presenza degli Stati Uniti; infine perdere un ottimo cliente per la
vendita di armamenti. A questo si aggiunga che esistono anche contingenti
ragioni di politica interna perché la Russia non molli sulla Siria: infatti in
Russia l’opposizione a Putin si va diffondendo a livello popolare, e non è il
caso di fornirle pretesti ulteriori come l’accusa di debolezza verso
l’Occidente.
Sia pure per motivi
non tutti coincidenti, quindi, Cina e Russia si trovano sullo stesso fronte;
e tanto è chiara la cosa che un
esponente della Fratellanza Musulmana della Giordania ha invitato le nazioni islamiche a boicottare i
prodotti sia cinesi sia russi.
La maggiore immediatezza dell’interesse russo va inquadrato nella situazione
posta in essere dagli Stati uniti fin dal inizi degli anni ’90 con il crollo
dell’Unione Sovietica, consistente nel porre in essere una strategia
finalizzata a circondare la neonata Federazione Russa e impedirle di diventare
una rivale pericolosa. Con questa prospettiva gli Usa hanno cercato alleanze (e
basi) nella zona caucasica, nella ex Asia sovietica e nei Balcani. La tattica
ha avuto innegabili successi, tuttavia non ha conseguito la totalità degli
obiettivi previsti, giacché la Russia - iniziata (faticosamente) una fase di
ripresa dopo il disastro a cui l’aveva portata la presidenza di Eltsin -
nell’insieme non è riuscita a non perdere tutta la sua influenza nella ex area
sovietica (in particolare in Asia centrale), si riorganizzata militarmente e va
facendo (finora) lucrosi affari nel settore energetico.
Effettivamente la Russia sul piano internazionale ha subìto una serie di
brutti colpi, di cui le invasioni di Afghanistan e Iraq,
nonché le crisi libica e siriana sono solo gli elementi più visibili. In Africa
gli Stati un tempo filorussi sono finiti sotto l’influenza occidentale, a parte
il Sudan. Nel Vicino Oriente, però, la Russia ha di molto migliorato i rapporti
con Baghdad ed è diventata di fatto un alleato della Repubblica Islamica
dell’Iran. Ovviamente dopo i cattivi esiti delle imprese in Afghanistan e Iraq,
Usa e Nato agiscono per contrastare l’influenza russa nel Caucaso.
In Asia la Federazione Russa (ma anche la Cina) ha effettuato grandi investimenti
economici e realizzato importanti accordi militari il cui culmine attuale è
dato dall’accordo di Almaty (Kazakhstan) che ha istituito un
sistema integrato di difesa aerea tra Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan,
Kirghizistan e Tagikistan.
Di recente Usa e alleati - dopo il disastro iracheno, e costretti ad
avviare il ritiro dall’Afghanistan - si sono concentrati contro gli interessi
economici e strategici russi nel Vicino Oriente e in Nordafrica. Siria e Libia
sono gli ultimi elementi di questa fase, e attualmente si registra l’appoggio
statunitense anche a movimenti radicali islamici in territorio russo.
Come si diceva, la disponibilità dell’accesso russo al porto di Tartus (che
verrebbe meno in caso di vittoria dei ribelli, e sul quale la Russia ha
investito vari milioni di dollari) è importantissima per Mosca anche perché
Mosca intende posizionarvi proprie portaerei. Comunque per la Russia
l’eventuale perdita di Tartus sarebbe rimediabile grazie agli sviluppi della
tecnologia militare, come vedremo nell’apposito paragrafo sulla strategia
russa.
c) Iran
E poi c’è l’Iran, non solo per il mantenimento dell’ormai famoso asse
sciita che oggi attraversa orizzontalmente il Vicino Oriente. Infatti anche
questo Paese (apparentemente così lontano) ha interessi navali nel
Mediterraneo, tuttavia, quanto testé detto per la Russia non può dirsi per
l’Iran, che in tale mare in atto dispone solo delle installazioni e strutture
semipermanenti realizzate nel porto siriano di Latakya. Venendo meno la Siria,
ed essendo il Mar Caspio un bacino chiuso (a differenza del Mar Nero per la
Russia), addio Mediterraneo per Teheran.
L’Iran ha oggi bisogno vitale della Siria nel quadro dell’estensione del
raggio operativo della sua marina militare oltre il Golfo Persico, fatto
illustrato dalle missioni finora compiute, che hanno riguardato già due volte
il Mediterraneo, nel 2011 e nel 2012. Poi, il 17 gennaio di quest’anno, il
Contrammiraglio Habibollah Sayyari, comandante della marina iraniana, ha
annunciato una terza missione, iniziata il successivo giorno 21: una flottiglia
comprensiva della portaelicotteri Kharg e
della fregata Sabalan, partita da
Bandar Abbas, attraverserà il Canale di Suez dopo il Mar Rosso con l’obiettivo
Mediterraneo, dove probabilmente parteciperà a manovre congiunte con la marina
siriana e con le tre flotte russe che sono attualmente al largo della Siria.
Per l’Iran non esiste solo l’interesse militare, ma anche quello
economico/energetico (tanto per cambiare). Il 25 giugno del 2011 il Ministero
iraniano delle Risorse Petrolifere aveva avviato il progetto di estensione dei
suoi oleodotti fino alla Siria e al Libano non
escludendosi una deviazione per raggiungere la Giordania. L’intera
realizzazione del progetto - che si pensa di estendere ulteriormente per
raggiungere i Balcani, con un investimento totale di 10 miliardi di dollari -
non solo potrà far abbassare i prezzi, ma, se comprenderà la Giordania, la
libererà dalla dipendenza energetica dall’Egitto e dall’arcinemica Arabia
Saudita. La costruzione del nuovo gasdotto è stata ripresa il 19 novembre 2012
dopo il momentaneo congelamento dovuto alla guerra in Siria, di modo che dopo
giugno di quest’anno il metano iraniano (che in quel periodo sarà giunto alle centrali
elettriche di Bagdad) sarà anche a disposizione di Damasco. La ripresa della
costruzione dell’oleodotto significa che sul piano militare la situazione
siriana si sta evolvendo bene per al-Assad, ma si vocifera anche che siano in
corso colloqui segreti fra Stati Uniti e Iran.
d) Israele
Va infine sottolineato che per Usa e Israele eliminare il regime siriano
vorrebbe dire anche infliggere colpo durissimo ai rifornimenti che l’Hezbollah libanese e Hamas a Gaza ricevono appunto da Siria e
Iran. Vero è che Israele ha atomiche nel suo arsenale, e che le userebbe senza
pensarci più di tanto se si arrivasse a una situazione del tipo “muoia Sansone
con tutti i Filistei”; situazione che però non è affatto dietro l’angolo.
Invece il ripetersi di conflitti armati locali è tutt’altro che da escludere.
Orbene, sia l’Hezbollah (che già nel
2006 dette sul campo una dura lezione ai soldati israeliani) sia Hamas oggi dispongono di moderna
tecnologia bellica iraniana, tra cui missili con la portata di 120 km (Tel Aviv dista da
Gaza solo 71 km),
capaci di superare senza problemi la cosiddetta barriera dell’Iron Dome – tanto strombazzata da
Israele – che invece era efficace solo per i primi razzi artigianali di Hamas. Praticamente, quindi, a seguito
dei rifornimenti di Siria e Iran all’Hezbollah
e ad Hamas, il territorio israeliano
sarebbe potenzialmente sotto attacco missilistico da nord e da sud, e in caso
di nuove ostilità, in Israele potrebbe essere costretta a usare i rifugi una
popolazione di circa 2.000.000 di abitanti, e non più di 200.000 come era
accaduto durante la guerra con l’Hezbollah
del 2006. Un ulteriore dato interessante è che l’Iran ha molto perfezionato la
tecnologia dei “droni”, tanto che di recente i Pasdaran sono stati in grado di assumere il controllo in volo di un
drone statunitense che volava su territorio iraniano, facendolo poi atterrare.
Dal canto suo l’Iran ha fornito droni di sua fabbricazione all’Hezbollah, che ha effettuato un test
facendo attraversare da uno di essi il territorio israeliano fino alla centrale
nucleare di Dimona, sopra la quale è stato distrutto dagli Israeliani.
Il Mediterraneo (e quindi
la Siria) come parte della strategia russa per fronteggiare gli Usa
Crollata l’Unione Sovietica, il mondo si era trovato giocoforza a vivere il
cosiddetto “monopolarismo”, con gli
Stati Uniti unica superpotenza. Questa fase - per le difficoltà di vario tipo
in cui versano gli Stati Uniti - sta passando. I disastri militari in Iraq e
Afghanistan probabilmente saranno registrati dagli storici come l’avvio delle
grandi manovre per un nuovo ordine mondiale meno un ipolare. Da qui per la
Russia la duplice esigenza di riorganizzarsi e riposizionarsi, sia per
difendersi dalla persistente - e non diminuita - minaccia statunitense, sia per
fini espansivi, e Putin ha teorizzato il passaggio dal “monopolarismo” al
“non-polarismo”. Cosa che non sarà indolore per nessuno, quand’anche i più non
si accorgano di quanto sta accadendo, e infatti Putin l’ha messo per iscritto
con la frase
«Il
mondo è sulla soglia di una fase di disordine che sarà lunga e dolorosa».
Per quanto ancora né Russia né Cina siano in grado di porre fine
immediatamente all’assetto unipolare, tuttavia si vanno intensamente
attrezzando per la bisogna, tanto più che se l’annuncio di diminuzione delle
Forze Armate Usa e della riduzione del bilancio militare, dato a suo tempo da
Obama, implicherà una diminuita capacità di sostenere contemporaneamente più di
un fronte bellico. Obama (immeritato “premio Nobel per la pace”) sa bene che in
questa fase economico/finanziaria fare la guerra non è proficuo, per cui ha
varato un piano che, come di recente ha testualmente scritto il Washington Post
«riflette la preferenza della sua amministrazione per lo spionaggio e
l’azione coperta piuttosto che per l’uso della forza convenzionale».
Poiché esso si basa sul rafforzamento dell’organico della Dia (Defence intelligence agency), la
conseguenza è implicita: continuare a “fare la guerra”, ma
utilizzare prima massicce azioni coperte per minare dall’interno il paese nel
mirino, sia per poi effettuare attacchi militari veri e propri (come nel caso
della Libia) sia per farlo disgregarlo con la sovversione interna (come in
Siria).
Inoltre lo scudo missilistico statunitense, finalizzato a evitare una
risposta nucleare dopo un first strike
(primo colpo) statunitense, minaccia Russia e Cina (e Iran). La risposta che la
Russia sta dando a questa minaccia consiste nello sviluppo e aumento delle sue infrastrutture militari sulla costa artica, nell’accrescimento della potenza navale e nella
ricerca di ulteriori punti di appoggio (la Russia evita di usare la parola
“basi”) oltre a quelli esistenti fuori dal territorio russo in Mar Nero
(Sebastopoli) e nel Mediterraneo (Tarsus). Oggi la Russia in questa ricerca
guarda al Mar dei Caraibi, al Mare Cinese Meridionale e
alla costa orientale dell’Africa vicino al Golfo di Aden. Le sue nuove basi
navali potrebbero essere installate a Cuba, nel Vietnam e nelle Seychelles. Il loro ruolo è chiaro: fungere da
strutture permanenti di attacco contro gli Usa.
Si aggiunga che sta cambiando la funzione della flotta russa: mentre
all’epoca dell’Unione Sovietica il suo compito consisteva principalmente nella
difesa costiera, per contrastare eventuali tentativi d’invasione da parte di
forze terrestri, oggi invece è in atto l’adeguamento alla strategia di
accerchiamento statunitense, e quindi - al pari di Cina e Iran - la Russia sta
accrescendo di gran lena la sua potenza navale, puntando ad acquisire per la
flotta la superiorità nell’armamento nucleare. Entro il 2020 dovrebbero entrare
in linea almeno 50 nuove navi da guerra e oltre 20 nuovi
sottomarini, dei quali più del 40% avranno un’accresciuta capacità di attacco
nucleare rispetto agli standard attuali. Nel 2011, dopo i testi di lancio del
missile nucleare Liner, che sembra
essere in grado di penetrare lo scudo antimissile statunitense, il comandante
delle Forze Strategiche Missilistiche della Federazione Russa,
colonnello-generale Karakaev, ha sostenuto che in un futuro prossimo i missili intercontinentali
russi saranno “invisibili” alle difese nemiche.
Se Assad sta per vincere,
ci sarà davvero l’intervento degli Usa?
La domanda non è affatto retorica per due motivi. Il primo è che ci si deve
chiedere se gli Stati Uniti assisterebbero
passivamente a un successo strategico dell’attuale blocco russo/iraniano. Una
recente incursione aerea israeliana non fa certo ben pensare. Con la sconfitta
dei ribelli salterebbe la strategia Usa per la creazione di un asse di governi
della Fratellanza Musulmana da Tunisi fino a Damasco, proiettato verso l’Iraq
nonché tale da accerchiare l’Hezbollah
libanese e chiudere da sud l’Iran.
Il secondo motivo è che la vittoria di Assad è oggi meno aleatoria di ieri,
anche se sui grandi mass-media non se
ne parla. Sembra che l’esercito regolare siriano controlli ormai circa l’80%
del territorio nazionale, tant’è che oggi i combattimenti si concentrano presso
la frontiera turca, nelle provincie di Idlib, nelle zone
attorno a Damasco e Homs, e vicino al Libano. Si sono formate milizie popolari
filogovernative per contrastare gli attacchi dei ribelli e di recente la
Guardia Repubblicana, dopo aver autorizzato le reclute a prestare servizio
nella regione di origine, hanno arruolato in una settimana 20.000 volontari. Bloggers non-allineati rendono noto che,
dopo essersi riassestato colmando le perdite e ricostituito le scorte di
materiali, l'Esercito regolare siriano ha in corso offensive in grande stile,
che nell'Ovest si è concluso vittoriosamente un grande scontro nella zona di Homs,
che vaste operazione sono in corso vicino Daraa, al confine con la Giordania, e
a Deir Ez-Zour, vicino al confine iracheno Anbar.
Di recente Bachar al-Assad
ha rilasciato l’orgogliosa dichiarazione di chi non ha alcuna intenzione di
lasciare campo libero ai mercenari jihadisti, che ormai sono la parte di gran
lunga maggioritaria del cosiddetto Esercito Libero Siriano e ai loro mandanti
internazionali, sostenendo che
«Se si dovesse verificare
l’invasione straniera della Síria, (…)
ultimo bastione della laicità, della stabilità e della convivenza, ci sarebbe
un effetto domino (…). L’Occidente
non avanzarà in questa direzione. Ma se lo facesse, nessuno potrà prevedere le
conseguenze. (...) Io non sono un pupazzo né sono stato
fabbricato dall’Occidente (....). Sono siriano. Vivrò e
morirò in Siria. (...) [Erdoğan, premier turco] si comporta come un
sultano dell’Impero Ottomano e si reputa un califfo. (…) L’uscita di scena o no
del Presidente siriano potrà essere decisa solo dal responso delle urne (...)
La Siria non sta vivendo una guerra civile. Bensì una questione di terrorismo
che ha ha a che vedere con l’appoggio esterno di cui godono i terroristi per
destabilizzare la Siria. (…)
Dobbiamo pemsare che la guerra sarà dura e difficile. Non
ci si può aspettare che un piccolo paese come la Siria possa vincere i giorni o
settimane tutti i paesi che ci stanno attaccando attraverso intermediari, come
stanno facendo gli Stati Uniti, l’Occidente e vari paesi arabi. (…) Se cessasse
l’appoggio ai ribelli dall’estero, posso dire che tutto finirebbe in poche
settimane».
E c’è da dire che una vittoria di Assad non farebbe certo venir meno, anzi,
i molti motivi concomitanti (l’entità delle vittime civili non interessa
nessuno) in virtù dei quali finora l’intervento non c’è stato. Anzi. E questi
motivi sono tali, come ora vedremo, da far pensare che l’eventuale intervento
richiederebbe il formarsi di un’adeguata coalizione.
E passiamo ai motivi:
a) la non-teorica possibilità che gli Stati Uniti siano considerati
occupanti, e non liberatori, da un quarto almeno della popolazione siriana e
anche da una parte consistente dell’opinione pubblica araba, con la prospettiva
di un bis dell’Iraq;
b) l’esercito siriano in quanto ad armamento, addestramento e volontà di
non cedere ai ribelli e ai loro complici è ben diverso dall’esercito iracheno e
nella sua capacità operative si è assai migliorato con la guerra civile; molto
hanno giocato i rifornimenti dell’Iran e della Russia (quest’ultima ha inviato
ad al-Assad anche gli elicotteri Mi-25, detti pure i “carri armati del cielo”,
come dimostra l’intercettazione britannica di un cargo russo diretto in Siria);
in più almeno il 70% dei militari di carriera è fatto di alatiti, mentre
esercito e regime sono sostenuti da una parte consistente della popolazione che
non vuole vivere sotto un regime islamico;
c) la prospettiva di un intervento di non breve durata e costosissimo è
accresciuta dal potenziamento dell’apparato antiaereo siriano, grazie alle
forniture russe di missili Iskander, immuni ai sistema di difesa missilistica e dei micidiali missili
di difesa terra-aria multi-bersaglio Pechora-2M,
temuti dai vertici militari Usa;
d) l’enorme deficit degli Stati Uniti
sconsiglia una nuova avventura militare nel Vicino Oriente, tant’è che
l’intervento in Libia è stato effettuato dai soci della Nato; quindi l’imbarcarsi
di Washington in prima persona nel pasticcio siriano potrebbe avere anche
risvolti positivi per tutti i suoi molti nemici;
e) il consistente arsenale di armi chimiche della Siria, con circa
cinquanta siti di stoccaggio e impianti di produzione propri, anche in zone
assai popolate; per metterci subito le mani onde evitare che cadano in mani
jihadiste (cosa che gli Usa pur nella loro irresponsabilità non vogliono
assolutamente) e per proteggerli adeguatamente, bisognerebbe impiegare
parecchie migliaia di soldati (più di 70.000, pare, e solo per questo compito);
inoltre non è detto che in caso di attacco esterno occidentale Assad non decida
di farne uso;
f) infine l’eventualità che un intervento occidentale in Siria non provochi
una conflagrazione nella totalità del Vicino Oriente è così bassa da reputarsi
inesistente.
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