Sono usciti recentemente, editi dalla Massari Editore, due libri
estremamente interessanti per la riflessione di tutta la Sinistra radicale. Si
tratta del libro di Michele Nobile Capitalismo
e postdemocrazia e di quello di Piero Bernocchi Benicomunismo.
In questo breve articolo tratteremo soltanto di alcuni aspetti del
testo di Bernocchi, vista la complessità degli argomenti esposti che non
possono essere sintetizzati facilmente in questa sede.
In Benicomunismo (un
termine che nasce dal concetto della rivendicazione dei beni comuni dell’Umanità come possibile socialismo del XXI secolo)
lo storico leader dei Cobas esprime delle tesi molto interessanti sul marxismo
e sui miti che ha costruito - che hanno permesso tra l’altro la nascita del
totalitarismo stalinista, il quale non aveva nulla da invidiare a quello
hitleriano - oltre che offrire un’interessante analisi sulla situazione
italiana e una profonda riflessione sul futuro stesso dell’umanità.
I miti del marxismo
Il primo mito messo in evidenza da Bernocchi è quello del “proletariato unico” che viene visto come
un corpo omogeneo, unito e indissolubile, unico depositario degli interessi
comuni dell’intera umanità dei “senza poteri e senza proprietà” che, con la dittatura del proletariato e con
l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, porrà termine
alla lotta di classe.
È una convinzione, quella di Marx, così “granitica” che
l’abolizione della proprietà privata e la dittatura del proletariato possano
porre termine alla lotta di classe, che ne costituisce un vero e proprio
assioma religioso e che non prende neanche in considerazione l’ipotesi della
“possibilità che l’abolizione della proprietà privata e la statalizzazione
dell’intera economia potessero generare nella futura società postcomunista
altre classi, altre forme di proprietà, di alienazione e di sfruttamento del
lavoro salariato, altre modalità di dittatura, non del proletariato ma sul
proletariato, sulle masse popolari e sull’intera società”.
Un mito che inizia ad essere sviluppato in quella sintesi del
marxismo politico che è Il Manifesto del
partito comunista (1848), il quale costituisce un testo fondamentale per il
movimento comunista.
Qui Bernocchi sottolinea la divaricazione tra “il rigore
scientifico dell’analisi marxiana sulle radici economiche della società, sulla
struttura del capitalismo e dei suoi rapporti di produzione, sulle ragioni
basilari della lotta di classe tra operai e capitalisti, sull’origine – il
cuore geniale del marxismo – del plusvalore, del profitto e dell’accumulazione
del capitale” e un idealismo utopico in
fondo figlio dell’idealismo hegeliano e, oseremo dire, anche di quello
platonico il quale inficia l’analisi materialista di Marx ed Engels e che
nasconde soltanto gli auspici, i desideri e le speranze di questi grandi
rivoluzionari.
Per Bernocchi il proletariato non era e non è una realtà unica e
cosciente di sé e dei propri compiti storici. Una coscienza che è depositata in
un’avanguardia comunista la cui intellighenzia
proviene non dal proletariato, ma da quello strato sociale che viene denominato
piccola borghesia.
Ma cosa s’intende per piccola borghesia?
Ora, se noi definiamo Borghesia
capitalistica quella classe sociale che possiede i mezzi di produzione e il
capitale e Proletariato quella classe
proprietaria soltanto della propria forza-lavoro, rimane un ampio strato della
popolazione, peraltro di gran lunga maggioritario, che definito in modo
dispregiativo piccola borghesia include
vasti e differenti ceti sociali intermedi. Ma dalla piccola-borghesia, come
sostiene giustamente Bernocchi, andrebbero esclusi tutti quei “lavoratori/trici
senza potere e senza proprietà, né di
mezzi di produzione o altro, i quali – nel lavoro impiegatizio, in quello
intellettuale dipendente ed anche in una larga serie di professioni autonome –
non si appropriano né del lavoro altrui, né di plusvalore, né accumulino,
valorizzandolo, un proprio capitale grazie al lavoro salariato di una massa di
dipendenti: il che vale, per la verità, pure per molti contadini o
commercianti/negozianti o esercizi pubblici a conduzione famigliare.”
Tale avversione che il marxismo ha nei confronti della
piccola-borghesia nasconde in fondo un meccanismo di rimozione psicologica
proprio perché è da questo strato sociale che vengono reclutati tutti i quadri
rivoluzionari.
E non si può non sottolineare negli scritti di Marx ed Engels, in
fondo uomini del XIX secolo, non solo il riconoscimento della funzione
rivoluzionaria e progressista della borghesia, ma anche il profondo
eurocentrismo che, come fa notare Bernocchi, nasconde un velato razzismo oltre
a sottovalutare i disastri ambientali e naturali che la “rivoluzionaria”
borghesia stava preparando:
“Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione,
con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare (…)
Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese
se non vogliono perire, e ad introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà,
cioè a farsi borghesi (…) La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio
della città. Ha creato città enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione
urbana in confronto con quella rurale, e così ha strappato una parte notevole della popolazione all’idiotismo della
vita rustica. Come ha assoggettato la campagna alla città, così ha reso dipendenti dai popoli civili
quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi,
l’Oriente dall’Occidente” (Il manifesto
del partito comunista).
Il crollo incombente del capitalismo pronosticato dal Manifesto non è avvenuto, nonostante che
siano passati quasi due secoli dalla sua stesura, anzi il capitalismo si è
esteso in tutto il mondo. Una vitalità, questa del capitalismo, che ci fa
rendere pessimisti sul futuro dell’umanità.
D’altronde non vi è niente di scientifico nell’affermare che la
lotta di classe conduca “necessariamente alla dittatura del proletariato” e che
tale dittatura (che oggi costituisce un orrendo vocabolo per l’umanità che ha
vissuto le tragedie del XX secolo) sia “il
passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi”.
È una tesi, questa, totalmente illuminista, nella quale vi è un ottimismo
infondato sulla natura umana con la convinzione che mutando l’organizzazione
sociale terminerebbe lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo mentre, molto più
realisticamente, bisogna ammettere che i conflitti sociali tra gli individui
non spariranno mai. Ricordiamo, senza scomodare Jared Diamond, che a differenza
di qualsiasi specie animale l’uomo non solo è in grado di uccidere
immotivatamente e con inutile crudeltà, ma che è l’unica specie che ha
inventato e pratica con piacere la tortura.
La concezione marxista del proletariato destinato a fondare questo
paradiso in terra e che viene visto come una entità unica, dotato di una
coscienza politica collettiva dallo sviluppo capitalistico, porterà fatalmente
alle tragedie che caratterizzeranno tutta la storia del movimento comunista a
partire dalla Rivoluzione russa. Ed è questa concezione che farà nascere un
altro mito: quello del Partito-Unico, del Partito-Stato, del Partito-Custode,
vero ed unico detentore della verità socialista e degli interessi del
proletariato. Una concezione, questa del predominio e della centralità del
partito, che è presente già nello stesso Marx prima ancora della degenerazione
staliniana e che neanche la grande Rosa Luxemburg metteva in discussione.
D’altronde non si può non citare la tesi di Roberto Massari, che
condivido pienamente, che il celebre partito bolscevico non fu un partito
rivoluzionario, ma un partito centrista il quale, sotto la pressione di
avvenimenti storici eccezionali, si trovò a codirigere un’autentica rivoluzione
sociale, operaia e comunista. Infatti prima del ritorno di Lenin nell’aprile
del 1917 i dirigenti bolscevichi “agivano non come rappresentanti di un partito
proletario che si prepari ad iniziare con la propria autorità una lotta per il
potere, ma come l’ala sinistra della democrazia che, proclamando i suoi
principi, si dispone per un periodo di tempo indeterminato a sostenere la parte
di una leale opposizione”. Il 2 marzo al Soviet di Pietrogrado “su circa
quattrocento deputati solo diciannove votarono contro la trasmissione del
potere alla borghesia, mentre la frazione bolscevica aveva già quaranta
delegati. E anche questi voti contrari passarono completamente inosservati, con
una procedura formalmente parlamentare, senza chiare controproposte da parte
dei bolscevichi, senza lotta e senza una qualsiasi agitazione sulla stampa
bolscevica.” (Trotsky-Storia della
Rivoluzione Russa).
Questo a conferma che prima dell’Aprile 1917 il Partito bolscevico
aveva una linea centrista, come testimonia Trotsky nel suo celebre testo, che
viene abbandonata dopo che Lenin fa passare non senza difficoltà le celebri
Tesi di Aprile riorientando così il Partito bolscevico in senso rivoluzionario.
Ma a partire dal dicembre 1917 i bolscevichi ritornano su
posizioni centriste che si trasformarono in poco tempo in posizioni sempre più
reazionarie, fino a diventare un vero e proprio partito controrivoluzionario,
anticomunista ed antilibertario. D’altronde nella storia non sono mai esistiti
partiti autenticamente rivoluzionari.
Infatti il Partito bolscevico sostenne solo per pochi mesi la
parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” e la teoria della Rivoluzione
Permanente. Lo stesso Lenin, prima ancora della degenerazione stalinista,
cominciò a lottare contro i Comitati di Fabbrica, contro i Soviet e contro
tutti i partiti russi che insieme a quello bolscevico avevano diretto la
Rivoluzione Russa.
Lo stalinismo completò in modo più organizzato e sistematico tale
degenerazione e con onestà intellettuale bisogna ammettere che il grande
Trotsky capì molto poco di questa situazione in tutti gli anni ’20 facendosi
complice politico del massacro di Kronštadt.
Perciò non è un caso che la dittatura
del proletariato in tutti i paesi che hanno prodotto una rivoluzione
socialista (dalla Russia alla Cina fino a Cuba) si sia tradotta nei fatti nella
dittatura sul proletariato esercitato
da una burocrazia comunista lontana dagli interessi dei lavoratori.
Una burocrazia che si è caratterizzata nella costruzione non del
socialismo ma di un capitalismo di stato, vero ed infernale regime monocratico
responsabile dei più disgustosi genocidi che la storia umana ricordi,
paragonabili solo a quelli nazisti. Regimi diretti da un Partito-Unico il quale
è proprietario dei mezzi di produzione e che impedisce qualsiasi sia pur minima
libertà democratica, come si può ben osservare oggi in Cina in modo più netto
rispetto all’Est europeo novecentesco.
E di quanto consenso popolare godevano tali regimi lo abbiamo
potuto osservare nel 1989 con il crollo del muro di Berlino che ha visto la rapida
disintegrazione di questi regimi e dei loro apparati politici.
Tutta questa concezione viene prevista e messa in discussione dal
più geniale rivale di Marx cioè Michajl Bakunin che nel suo celebre Stato e anarchia (1874) ne metteva in evidenza le contraddizioni:
“Lassalle e Marx
raccomandano ai lavoratori la fondazione di uno stato popolare che come hanno
spiegato, non sarebbe altro che “il proletariato elevato al rango di casta
dominante”. Se il proletariato diverrà la casta dominante sopra chi dominerà?
Ciò significa che rimarrà ancora un altro proletariato sottomesso a questa
nuova dominazione, a questo nuovo Stato (…) Che cosa vuol dire il proletariato
organizzato in casta dominante? E mai possibile che l’intero proletariato si
ponga alla testa del governo? Che tutto il popolo governi e non ci siano
governati? Questo dilemma è risolto semplicisticamente nella teoria marxiana,
Con governo popolare essi intendono il governo del popolo da parte di un
piccolo numero di rappresentanti eletti.. L’universale diritto di elezione dei
sedicenti rappresentanti del popolo e dei governanti dello Stato è una bugia
che nasconde il dispotismo di una minoranza dirigente tanto più pericolosa in
quanto si presenta come l’espressione della cosiddetta volontà del popolo. Così
da qualsiasi parte si esamini la questione si arriva sempre allo stesso
spiacevole risultato: al governo da una parte di una minoranza privilegiata
sull’immensa maggioranza delle masse popolari. (…) il cosiddetto Stato popolare
non sarà altro che il governo dispotico sulla massa del popolo da parte di
un’aristocrazia nuova e molto ristretta di veri o Pseudo scienziati. (…).
E così per emancipare le masse
popolari si dovrà prima di tutto soggiogarle (…) Affermano che solo la
dittatura, la loro naturalmente, può creare la libertà del popolo; rispondiamo
che nessuna dittatura può avere altro fine che quello della propria
perpetuazione e che essa è capace solo di generare e di coltivare la schiavitù
del popolo che la subisce.”
Parole profetiche queste di Bakunin che se accolte avrebbero
evitato le illusioni, le tragedie e i genocidi che il socialismo del XX secolo
ha provocato.
Invece come sappiamo questo causò la scissione del 1872-74
dell’Associazione Internazionale dei lavoratori cioè della Prima Internazionale.
Una scissione dalle conseguenze nefaste le cui responsabilità sono da
attribuire totalmente a Marx e che ha spalancato le porte alla prima vera e
tragica divisione del movimento operaio.
Il ceto politico
Ma se nei paesi del cosiddetto socialismo reale abbiamo avuto ed
abbiamo (Cina e Cuba) un Partito-Stato che ha espropriato i cittadini dei loro
diritti e della loro forza-lavoro - confermando, se ce ne fosse bisogno, che
non può esistere socialismo senza democrazia come non può esistere democrazia
senza socialismo - anche nei paesi occidentali la democrazia politica non gode
di buona salute come sappiamo benissimo.
Infatti abbiamo funzionari del capitale nazionale che, pur non
godendo di forme giuridiche di proprietà individuale sulla ricchezza pubblica,
nei fatti posseggono il capitale nazionale decidendo l’impiego e la
distribuzione della ricchezza prodotta. E come fa notare Bernocchi: “anche nei
paesi europei a pluripartitismo istituzionale l’imposizione di leggi elettorali
bipolari ha progressivamente spazzato
via dalle istituzioni un effettivo pluralismo, creando qualcosa non solo assai
vicino al bipartitismo tra eguali del
modello Usa, ma anche simile ai Partiti-Stato, differenziandosi in correnti,
degli ex Paesi ‘socialisti’ ”.
Si è costruito così nei paesi occidentali un ceto politico sempre più omologato ed interscambiabile sul modello
statunitense e grazie in Italia a un falso bipartitismo si è accelerata
l’unificazione di questo ceto politico vero gestore della ricchezza nazionale
in stretta connessione con il Capitale privato. Una struttura così onnipresente
(dalle Circoscrizioni al Parlamento, dalle industrie di Stato alle Banche) che
costituisce nei fatti una vera e propria borghesia
di stato la quale gestisce senza nessun controllo l’immenso capitale
nazionale “pubblico”. E a questa borghesia di stato bisogna aggiungere la
burocrazia sindacale che costituisce un’altra parte della Casta politica.
E quando si parla a torto della crisi irreversibile della
forma-partito non si comprende che tale forma certamente è mutata non solo con
il cambio del nome e della ragione sociale facendo però restare immutato il suo
personale politico.
La professionalizzazione della politica e la trasformazione in
Casta del suo personale se ne hanno modificato i programmi non hanno fatto
perire questa forma per gli interessi
concreti dei loro professionisti.
Tale mutazione non toglie nulla quindi alla validità di questa
forma che rimane utile non più tanto per la difesa di una parte degli interessi
e obiettivi di una parte della società, ma proprio per la difesa dell’interesse
capitalistico nazionale.
Insomma, un vero e proprio gioco delle parti dove nessuno tocca il
Sistema e con un personale politico e sindacale di provenienza comunista e
socialista e che è pienamente inserito nella gestione complessiva del capitale
“pubblico” nazionale.
Mentre la cosiddetta sinistra
radicale istituzionale (Sel, Fed, Prc) non solo è subordinata a questo
sistema, ma ne dipende cronicamente per la sua stessa esistenza.
Così abbiamo Sel che costituisce un’alleanza elettorale con il
Partito democratico e il Psi, un fantasma di partito più inesistente del
celebre Cavaliere di Calvino, per prepararsi ad un governo con Monti e i
democristiani di Casini. E dall’altra parte assistiamo alla confusa nascita
della lista Rivoluzione Civile che vede la partecipazione di forze estremamente
eterogenee fra di loro che vanno dai vecchi Forchettoni
Rossi di Rifondazione /PdCI fino a forze borghesi come l’IdV. Una lista
guidata dal magistrato Ingroia, politicamente parlando un perfetto sconosciuto,
il quale viene visto da molti militanti della sinistra radicale come il nuovo
salvatore della patria facendoci ricordare la celebre frase di Bertold Brecht:
“Guai a quel paese che ha bisogno di eroi.”
La forma-Movimento
Ma con il 1968 nasce il movimento politico di massa, una nuova
forma in grado, contrariamente ai movimenti precedenti dell’Ottocento, di poter
camminare da solo senza l’onnipotente guida del partito; essa, infatti,
“assumeva in sé le funzioni di coscienza e di autoconsapevolezza, senza delegarle
più all’esterno. Persino i sostenitori del ruolo ineliminabile e cruciale del
Partito-coscienza dovettero ammettere (o comunque, bon gré mal gré, accettare)
che il Movimento potesse compiere un cammino completo di auto emancipazione,
giungendo progressivamente ad avere una strategia per l’esistente, trovando
cammin facendo alleanze, obiettivi organici e generali, programmi antisistema”.
E il ’68 ebbe in Italia il merito di smantellare le ammuffite
strutture studentesche ed universitarie, mettendo in crisi la sinistra
riformista del Pci e Psi, del sindacato e la stessa sinistra radicale
dell’epoca modificando e cambiando in meglio tutta la società. La successiva
frammentazione in vari gruppi e gruppetti politici ne attenuò l’impatto,
tuttavia la forma-Movimento conservò la sua forza effettiva e simbolica tra il
’69 e ’77, terminando con il rapimento di Aldo Moro.
Come osserva Bernocchi, i Cobas, nati nel 1987 da un grande
movimento di massa dei lavoratori della Scuola pubblica che non era mai
comparso sulla scena italiana precedendo, tra l’altro, il Movimento della Pantera del ‘90, in fondo sono un prodotto di
questi due movimenti e costituiscono una originale forma sindacale-politica che
non ha riscontri in altri paesi europei. Ricordiamo che questo sindacato non ha
funzionari pagati, ma vive solo dell’impegno volontario dei suoi aderenti.
Ma ritornando alla forma-Movimento, essa si è sviluppata a livello
internazionale con caratteristiche antiliberiste e anticapitaliste a partire
dal Wto di Seattle del dicembre 1999 da cui è nato il Movimento dei Forum
mondiali e che rappresenta oggi una delle poche vere speranze per opporsi alle
barbarie di un capitalismo incapace di offrire un’alternativa alla distruzione
del nostro pianeta.
Basti pensare alla contraddizione tra l’enorme sviluppo tecnico e
scientifico di tutto il novecento che potrebbe permettere all’umanità di
liberarsi dalla schiavitù del lavoro, che lo stesso Keynes aveva previsto
quando, nel lontano 1930, prospettò un futuro in cui tre ore al giorno
sarebbero state sufficienti per una produzione sufficiente per il benessere
della società:
“Il problema economico non è
il problema permanente della razza umana. Gli indefessi creatori di ricchezza potranno
portarci tutti, al loro seguito, in seno all’abbondanza economica. (…) Per ancora molte generazioni l’istinto del
vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di qualche lavoro
per essere soddisfatti. Turni di tre ore al giorno e settimana lavorativa di
quindici ore possono tenere a bada il
problema per un buon periodo di tempo (…) Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato
sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. L’amore
per il denaro come possesso, e non come mezzo per godere i piaceri della vita,
sarà considerato una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle
propensioni a metà criminali e a metà patologiche che si consegnano con un
brivido allo specialista di malattia mentali (…) Rivaluteremo i fini sui mezzi e preferiremo i beni sull’utile”
(J.M. Keynes, Prospettive economiche sui
nostri nipoti, 1930)
Oggi è quindi più che mai attuale la celebre espressione di Rosa
Luxemburg “Socialismo o Barbarie”,
che sono effettivamente le due uniche alternative che il futuro può riservare
all’umanità.
Con una crescita demografica senza precedenti (7 miliardi di
abitanti nel nostro pianeta, vale a dire 35 volte le presenze di 25 secoli fa),
con una previsione di 9 miliardi a metà di questo secolo, la distruzione della
vita sulla Terra è un’ipotesi maledettamente realistica.
A maggior ragione se si considera che lo sviluppo barbarico del
capitalismo sta distruggendo tutto il nostro ecosistema senza considerare la
possibilità, che purtroppo non è fantascientifica, di un olocausto nucleare.
Infatti dopo la chiusura del “secolo breve” con il crollo del muro di Berlino
si può affermare che con la Prima Guerra del Golfo del 1991 è iniziata una fase
di guerra permanente e globale che non può renderci ottimisti per il futuro
dell’umanità.
Il
libro di Bernocchi, come si può tranquillamente vedere da questa presentazione,
spazia veramente a 360°, è un libro per i temi che tratta estremamente
complesso, ma che merita di essere letto con attenzione da tutti coloro che
vogliono cambiare lo stato di cose esistente.
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