Riproponiamo la seconda parte
dell’articolo di Michele Nobile (pubblicato nel marzo 2012; la prima parte
all’indirizzo http://utopiarossa.blogspot.it/2013/02/il-governo-monti-e-il-consenso.html) perché riteniamo possa essere utile a chiarire la
natura postdemocratica del regime politico italiano, nel quale le elezioni sono
oramai solo momento di legittimazione di una casta partitico-statale che
rappresenta gli interessi dell’imperialismo italiano contro i lavoratori. Di
questa casta sono parte marginale i forchettoni rossi di Sel e di Rivoluzione
civile: due componenti tatticamente divise ma che condividono la subordinazione
strategica al centrosinistra.
4. La complementarietà di
centrosinistra e centrodestra nella formazione del regime postdemocratico
italiano.
Il nocciolo della questione è che quel
che accade in questi mesi è l’epilogo del cambiamento della costituzione
materiale della Repubblica verificatosi nel corso degli anni Novanta. Ma a quali forze politiche
va attribuito questo cambiamento? Si identifica con la costruzione di un
particolare regime berlusconiano? Oppure, se ad esso hanno contribuito sia il
centrodestra sia il centrosinistra, come si ripartiscono le responsabilità?
È utile un minimo di periodizzazione.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso il centrodestra governò per complessivi
286 giorni, ma il centrosinistra nel senso stretto governò per 1816 giorni, che
salgono a 2211 se si conta anche il governo «tecnico» di Dini (appoggiato dal
centrosinistra, dalla Lega nord e dal centro democristiano, con l’astensione
del berlusconiano Polo delle libertà). Dal 1994 al novembre 2011 il
centrodestra ha governato per complessivi 3300 giorni, il centrosinistra per
2538 giorni, o 2933 contando Dini.
Se si ha il coraggio di guardare in faccia
«l’arido vero», questi numeri, ai quali si potrebbero aggiungere quelli dei
governi nelle singole regioni (dove Prc, Pdci, Verdi, Sel hanno avuto o hanno
consiglieri, assessori e anche un Presidente regionale in governi di
centrosinistra), ci dicono che negli ultimi anni l’Italia è stata governata in modo
quasi equivalente da entrambe le coalizioni. A fronte di questi dati di fatto elementari
solo la stabilità della leadership del centrodestra e la continuità di governo
nel 2001-2006 (un’intera legislatura, ma la precedente era stata tutta del
centrosinistra) possono spiegare come il buon elettore di sinistra
masochisticamente rassegnato al meno peggio possa vedere in Berlusconi il
nemico assoluto.
Il cambiamento è stato dunque opera tanto dei
partiti del centrodestra quanto del centrosinistra: il sistema dei partiti ha più che mai agito come l’autentico sovrano, decidendo in piena autonomia
(con l’attiva tutela del Presidente Scalfaro) su questioni della massima
importanza e in assenza di un processo costituente di natura democratica. Nei
partiti la funzione di governo ha del tutto soverchiato quella rappresentativa:
ciò sia dal lato borghese, con la fine della vecchia Dc, sia e in modo ancor più
determinante, con la mutazione dell’ex Pci e dei suoi frammenti.
Per quel che riguarda lo specifico apporto del
centrodestra alla mutazione della democrazia rappresentativa italiana e
dell’equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato, per ampio consenso si
può dire che la sua peculiarità scaturisca dal conflitto d’interessi in cui è
coinvolto Berlusconi. Ciò si può sintetizzare:
a) nel conflitto permanente con settori della
magistratura, l’intento di limitarne l’autonomia, il lungo elenco di leggi ad personam e miranti a garantire
l’immunità per le più alte cariche dello Stato tra le quali, fatto inedito, è
inclusa quella di Presidente del consiglio dei ministri;
b) nell’inedito assommarsi di una posizione
dominante nell’industria privata dello spettacolo e della comunicazione con il
controllo della televisione di Stato che, indipendentemente dagli effetti reali
sulle scelte elettorali dei cittadini, costituisce un’ulteriore e grave
minaccia alla libertà dell’informazione e culturale o, in termini più generali,
con l’assommarsi di potere politico, economico e televisivo;
c) nell’esasperata personalizzazione della
gestione politica, connotata sovente come populistica e plebiscitaria,
concretizzatasi nella legge costituzionale del 2005, bocciata dal referendum
del 2006. Accantonando l’importante tema del federalismo, nel senso della
concentrazione personale del potere erano rilevanti in quella legge le norme
relative all’obbligo del Presidente della Repubblica di nominare capo del
governo il candidato della maggioranza, all’ampliamento enorme dei poteri del
primo ministro, le disposizioni antiribaltone.
Per quel che riguarda l’equilibrio tra i poteri
dello Stato e la svalutazione della certezza e uguaglianza nel diritto, il
centrodestra ha indubbiamente dimostrato di avere un disegno (abbastanza)
organico, perseguito con la massima tenacia, alimentato da una retorica dai
toni «sovversivi» nei confronti di settori della magistratura, dalla
celebrazione carismatica della figura di Berlusconi, dalla pretesa demagogica e
in effetti antirappresentativa che il capo del governo e la sua maggioranza
rappresentino la volontà popolare. Il tutto reso più grave dal saldarsi,
specialmente quando al governo, della forte posizione oligopolistica
nell’industria privata della comunicazione e dello spettacolo con la gestione
della televisione di Stato. E, ovviamente, il garantismo solo per i potenti
suona come un impulso alla corruzione e addirittura come la copertura
dell’affarismo a fini privati da parte degli stessi detentori di cariche
pubbliche (l’uso patrimonialistico dello Stato). La spettacolarizzazione e
personalizzazione della politica, i limiti alla rappresentanza dei diversi
orientamenti presenti nella cittadinanza, la concentrazione del potere
nell’esecutivo, la degradazione delle garanzie giuridiche, la corruzione,
insomma tutti quegli aspetti presenti anche in altri paesi si presentano
esasperati nella prassi del centrodestra.
Nell’insieme l’azione del centrodestra
configura una trasformazione che per la sua portata politica (non per i
dettagli istituzionali) è equiparabile a quella della quinta Repubblica
francese, all’avvento del regime gollista nel 1958.
Tuttavia il progetto più organico del
centrodestra, la legge di riforma della Costituzione approvata a maggioranza
nel 2005, venne bocciata dai cittadini nel referendum dell’anno seguente (il
61% dei votanti fu contrario, ma 47% di astenuti). Non solo: il centrosinistra
ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione postdemocratica e
semipresidenzialistica del sistema politico italiano.
Occorre infatti considerare quanto segue:
a) l’inazione da parte del centrosinistra,
quando poteva farlo, in materia di conflitto d’interesse;
b) che il Pds a suo tempo fu determinante nella
vittoria del referendum che impose la svolta maggioritaria e
antirappresentativa contro il sistema elettorale proporzionale, con ciò
alimentando la demagogia contrattualistica, la personalizzazione della politica
e, quindi, la sua spettacolarizzazione;
c) l’approvazione da parte del centrosinistra
delle riforme elettorali per le elezioni comunali, provinciali e regionali, in
forza delle quali i sindaci e i presidenti delle province e delle regioni sono
eletti direttamente, sono dotati di poteri prevalenti rispetto ai consigli e
per cui vige il principio aut simul stabunt aut simul cadent secondo cui se il presidente
è sfiduciato automaticamente il consiglio viene sciolto. In altri termini, al
di sotto del livello nazionale il centrosinistra ha condiviso la logica
semipresidenziale del centrodestra, inclusa la norma antiribaltone, che era
propria della legge costituzionale respinta dal referendum del 2006. Del resto,
nel 1999 Veltroni si era orientato verso la blindatura della maggioranza
parlamentare attraverso analoga norma antiribaltone (facendosi anche
bacchettare da Giovanni Sartori per l’enfasi sulla stabilità rispetto alla
governabilità).
c) Personalizzazione e verticalizzazione della
politica non sono affatto estranei al centrosinistra: la tendenza
presidenzialistica esiste anche nei partiti, inclusi quelli post-Pci. Semmai,
il problema del centrosinistra è che esso non è riuscito a dotarsi di una
figura altrettanto stabile e carismatica. Certamente il centrosinistra partiva
svantaggiato rispetto a Berlusconi, che per la spettacolarizzazione politica
disponeva già di mezzi potenti, muovendosi, per così dire, nel proprio campo.
Ma la ragione è essenzialmente politica: risiede nell’unità di direzione che il
centrodestra ha avuto fin dall’inizio in forza di una maggiore omogeneità
politica;
d) quanto allo Stato di diritto, il Pci aveva
già enormi responsabilità nell’attacco al garantismo in nome del «il fine
giustifica i mezzi», a partire dall’approvazione della legge Reale nel 1975 e
dalla criminalizzazione del movimento del 1977, fino all’approvazione delle
norme e della prassi che delinearono un sottosistema penale d’eccezione
antigarantistico; è poi da ricordarsi che il cosiddetto lodo Schifani scaturì
da un emendamento estensivo al lodo Maccanico (della Margherita) relativo alla
sospensione dei processi penali alle più alte cariche dello Stato.
e) il centrosinistra (e prima il Pci, poi i
partiti post-Pci) ha pienamente condiviso l’insulto alla volontà popolare
espressa dai risultati del referendum contro il finanziamento pubblico ai
partiti, mezzo e motivo potentissimo per la statalizzazione degli stessi;
f) se il centrodestra è caratterizzato da un
partito visceralmente xenofobo, fino al grottesco e all’irresponsabilità
istituzionale (si ricordi la tragica vicenda della maglietta mostrata in tv
dall’allora ministro Calderoli), e all’invenzione di quella mostruosità che è
il reato di «immigrazione illegale» e ai vantati accordi con il tiranno libico,
fu il centrosinistra a istituire i Centri di permanenza temporanea (Cpt) con la
legge Turco-Napolitano del 1998.
Se dal campo dello Stato di diritto e
dell’equilibrio dei poteri dello Stato ci spostiamo verso quelli dei diritti
socioeconomici, del rapporto tra Stato ed economia, e della politica
internazionale, è invece il centrosinistra a detenere il primato assoluto.
Nell’ultima decade del secolo scorso fu il
centrosinistra ad essere il protagonista della ridefinizione dei rapporti tra
Stato (imperialistico), capitalismo italiano e capitalismi europei, attuato
intorno alle privatizzazioni dell’industria e delle banche pubbliche e alla
manovra di convergenza sui parametri di Maastricht come condizione per
l’entrata nel nuovo sistema monetario europeo, con quel che comportava quanto a
livelli di disoccupazione, precarizzazione del lavoro, relazioni industriali,
riforma delle pensioni. In quel periodo il centrosinistra e i suoi governi
nazionali ebbero anche l’appoggio di Rifondazione comunista, non continuativo,
e la diretta partecipazione ministeriale dei Verdi e del Pdci (fondato, come scissione del Prc, per
sostenere il governo Prodi, dopo la precedente scissione degli ingraiani doc
come Lucio Magri per sostenere il governo Dini nel 1995). È stato il
centrosinistra, non il centrodestra, a realizzare le più importanti «riforme»
dette «neoliberistiche».
Ed è stato il nuovo centrosinistra ad agire, in
occasione della guerra contro la Serbia, contro il dettato costituzionale
dell’articolo 11, «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali». A parte il vero e proprio colpo di Stato, è difficile
immaginare un più forte colpo alla Costituzione e alla sovranità popolare di
quello portato dalla decisione presa dal primo governo D’Alema di partecipare
all’intervento militare Nato. In quel governo il Partito dei comunisti italiani
e i Verdi avevano ciascuno due ministri (compreso Oliviero Diliberto) e tre
sottosegretari: partiti e individui che, al di là di ogni ipocrita distinguo,
portano interamente sulle loro spalle la responsabilità politica di aver
continuato a sostenere e a far parte del governo di guerra. Questa
responsabilità si estende anche al Partito della rifondazione comunista da
quando, dopo aver votato la fiducia al governo imperialistico di Prodi in cui
era ministro Paolo, nel luglio 2006 votò anche per le sedicenti «missioni di
pace». Su scala miserabile quello fu il 4 agosto dei post-Pci e un altro
terribile colpo al valore rappresentativo del Parlamento: il venir meno di ogni
opposizione alla guerra e la scelta governista di un partito che della
non-violenza e del pacifismo aveva fatto da poco una bandiera, e che anche per
questo era stato votato, erano l’ultima dimostrazione della degenerazione della
sinistra italiana e dell’involuzione auto-referenziale del sistema dei partiti,
del quale «comunisti» e verdi sono una sottocasta subalterna (1)
Tirando le somme, si può dire che il
centrodestra abbia esteso e, se possibile, abbia peggiorato o tentato di peggiorare quanto già il
centrosinistra aveva realizzato o contemplato tra le possibilità. Ma sono stati
i governi Amato 1° e 2°, Ciampi, Dini, Prodi 1°, D’Alema 1° e 2° a innovare
profondamente la legislazione e i rapporti tra Stato e società in Italia.
Negli anni Novanta è stato il centrosinistra a
costruire, stando al governo, l’ossatura del regime postdemocratico italiano entro
il quale si colloca il governo Monti.
5. Italia-Europa, andata e ritorno
nella postdemocrazia.
Come quello di Lukas Papademos in Grecia, il
governo Monti e le crisi di governo che hanno accompagnato e accompagneranno lo
svolgimento della crisi economica pongono inquietanti domande circa il valore
della democrazia parlamentare e della sovranità nazionale in Europa. A queste
domande ritengo si possa rispondere in modo coerente solo mettendo da parte la
contrapposizione dualistica tra il livello nazionale e quello europeo e tra
capitale finanziario (o monetario) e produttivo. Occorre anche analizzare il
processo di costruzione dell’Unione europea e dell’eurozona con un’adeguata
profondità temporale, cogliendone le motivazioni propriamente geopolitiche, relative
ai rapporti tra gli Stati, in particolare tra Francia e Germania, e
l’orientamento dei diversi capitalismi, in particolare di quello tedesco, nel
processo che ha portato all’unificazione monetaria e nel quadro da essa
determinato.
Gli sviluppi della crisi hanno ampiamente
dimostrato che non esiste un unico capitalismo europeo e, conseguentemente, un
unico imperialismo europeo, non più di quanto esista un’economia globale
caratterizzata dalla de-territorializzazione del capitale e da un processo di
convergenza socioeconomica dei livelli di sviluppo economico e delle condizioni
di vita (che sia verso il meglio o verso il peggio). La forma più generale e
duratura della dinamica dell’economia mondiale capitalistica è ancora quella
dello sviluppo ineguale e combinato, della riproduzione e trasformazione dei
dislivelli del potere economico e della potenza politica in un sistema che è,
nello stesso tempo, mondiale (che è qualcosa di più della sommatoria di
economie e Stati nazionali) e gerarchizzato, unitario e contraddittorio. Ciò
vale anche sulla scala del continente europeo, dell’Unione europea e
dell’eurozona.
L’unificazione monetaria non ha fatto altro che
dare nuova forma al meccanismo dello sviluppo ineguale e (altamente) combinato,
ricco di interdipendenze, dei diversi capitalismi del continente. Nei primi
anni dell’eurosistema la convergenza dei tassi d’interesse sembrò mostrare le
virtù della rinuncia alla sovranità monetaria. In effetti, col venir meno della
possibilità di svalutazioni competitive, si aggravavano gli squilibri
continentali, che in parte riproducono la fisiologia dello squilibrio da quasi
trent’anni esistente su scala mondiale. Anche nell’ambito europeo abbiamo
infatti un polo esportatore, quello del capitalismo tedesco e di alcuni altri
paesi (della vecchia zona del marco), la cui competitività è aumentata dalla
moneta unica e dalla compressione dei salari e della domanda interna; e
dall’altra parte una serie di paesi importatori, principalmente mediterranei
che, per un breve periodo, si sono giovati dell’esportazione di capitale
dall’area più competitiva e della riduzione dei tassi d’interesse. La crisi
finanziaria iniziata negli Stati Uniti quindi ha rivelato sia lo squilibrio
esistente nell’economia mondiale sia quello inerente all’Europa. Il trait d’union è costituito dal
prevedibilissimo costo fiscale del salvataggio delle banche private, nazionali
ed estere, che converte la crisi della finanza privata in crisi del debito
sovrano (2).
La logica del potere di classe prescrive che a
pagare i costi della crisi capitalistica siano le classi dominate europee. Tra
queste, il peso maggiore ricade sulle classi dominate dei capitalismi e degli
Stati più deboli. Questo accadrebbe anche in presenza di monete nazionali, ma il
neomercantilismo dell’area più competitiva, la moneta unica e il monetarismo
della Bce, combinati con l’inesistenza di meccanismi compensativi, la lentezza,
l’inadeguatezza e le condizioni degli «aiuti» e la prospettiva di
costituzionalizzare il pareggio di bilancio, tessono una camicia letale quanto
quella di Nasso. Sicché, potrà essere che l’Ercole europeo finisca per
soccombere, frammentandosi in aree a diverse velocità e/o diverse unità
monetarie.
Sul piano propriamente politico-istituzionale,
l’Unione europea e l’eurosistema sfuggono a una definizione. È più facile dire
cosa non siano che cosa siano: non sono uno Stato, neanche federale; non sono
un’unica entità sociale ed economica. Non sono apparati che rispondano ai
requisiti minimi di uno Stato parlamentare liberaldemocratico. Unione europea
ed eurosistema sono strutture chiaramente e fortemente postdemocratiche: si
valgono della retorica liberale e sono il quadro entro cui si collocano Stati
parlamentari, ma non rispondono a quei criteri di rappresentatività e
responsabilità politica che, almeno formalmente, caratterizzano i regimi
liberaldemocratici; l’Unione ha tentato di legittimarsi dotandosi di un
Parlamento europeo il quale, però, non detiene affatto i poteri di un
parlamento nazionale. Nella crisi esso spicca per mutismo e inconsistenza
politica.
Il nocciolo duro dell’Unione europea è
costituito dai governi nazionali e dai loro delegati; e da quell’ampia
burocrazia europeista che, pur avendo una propria logica d’apparato (più o
meno) sovranazionale ed espansiva, in definitiva deve la propria esistenza a
quella dei governi nazionali.
È sbagliato pensare che la postdemocrazia
europea proceda unilateralmente dall’alto (dell’élite paneuropea) verso il
basso (degli Stati nazionali). C’è un’interazione, ma il movimento decisivo è
semmai inverso, dagli Stati verso l’alto. La spinta a superare lo stallo, le
diatribe e la crisi quasi fatale dell’ambito europeo è venuta dalla Francia
(quella socialista di François Mitterrand), in accordo con la Germania (quella
democristiana di Helmut Kohl). All’origine dell’unificazione monetaria fu
infatti uno scambio politico tra Francia e Germania: la prima accettava la
riunificazione della Germania dopo il crollo della Ddr, la seconda accettava di
intraprendere un percorso che avrebbe portato alla fine del deutsche mark e di farsi imbrigliare, per
così dire, in un ambito istituzionale inter-statale (piuttosto che autenticamente
sovranazionale). Scambio, peraltro, non simmetrico, giacché la Germania
spuntava comunque che la Banca centrale europea fosse costruita sul modello
della Bundesbank (recalcitrante all’unificazione monetaria), il cui obiettivo è
la stabilità dei prezzi in funzione di una politica neomercantilista
d’esportazione (nel caso tedesco caratterizzata anche da un alto livello di
centralizzazione della contrattazione) (3). Anche ora il destino dell’Unione è
principalmente nelle mani dei governanti francesi e tedeschi.
Ancor più importante è un altro processo di cui
si ha forse minor consapevolezz; o, perlomeno, pare insufficiente la
comprensione delle relazioni e della reciproca influenza tra il livello
paneuropeo e quello nazionale. Intendo dire che non è la cosiddetta eurocrazia
che ha ristretto gli spazi democratici nazionali ma, viceversa, è il procedere
della trasformazione in senso postdemocratico dei sistemi politici nazionali
che ha reso possibile un determinato disegno istituzionale, funzionamento e
orientamento politico delle istituzioni europee. Queste, quindi, devono essere
viste come la proiezione, formalizzata e perciò anche potenziata, del movimento
postdemocratico delle realtà politiche nazionali.
Ne consegue anche che, piuttosto di parlare di
attentato alla sovranità nazionale da parte delle istituzioni
europee (Commissione, Bce) e internazionali (Fmi), bisognerebbe partire dal
fatto che la sovranità popolare (nozione già in sé
discutibile) è in realtà già stata assorbita dai sistemi partitico-statali
nazionali, autentici sovrani oligarchici.
D’altra parte, fin dall’inizio la storia delle
Comunità e delle istituzioni europee (del carbone e dell’acciaio, dell’energia
atomica, il Mercato comune europeo, la Comunità economica, fino alla Bce) fu
fortemente verticistica e opaca, volutamente distante dalle istituzioni
elettive, regno del funzionalismo presuntamente tecnico e delle mediazioni
segrete, dedalo di normative e di lobbies, connubio di politica e capitale.
Quanto a lobbies non mi riferisco solo al capitale finanziario ma al fior fiore
del capitale industriale del continente. Quella che probabilmente è la lobby
più influente, l’European round table of industrialists (Ert, tra i cui
promotori figurava nel 1983 Umberto Agnelli) comprende 45 presidenti e Ceo
delle principali multinazionali europee che, a quanto dichiarano, danno lavoro
a 6,6 milioni di persone nel continente; i rapporti tra l’Ert e la Commissione
europea pare siano stati particolarmente calorosi e politicamente fruttuosi
durante la lunga e decisiva presidenza del socialista francese Jacques Delors
(1984-1995) e si sono in certa misura istituzionalizzati attraverso la
partecipazione di esponenti dell’Ert in un gruppo di lavoro ufficiale dell’Ue,
il Competitiveness advisory group, il cui primo rapporto del 1995 fu firmato da
Carlo Azeglio Ciampi (4). Non è questione di «governo delle banche» ma di
capitale multinazionale sia industriale che bancario.
Con questo non intendo dire che le istituzioni
europee siano state strumentalizzate dal capitale attraverso la conquista
d’influenza e l’occupazione di posti ma che esse sono intrinsecamente
capitalistiche: per struttura e per regole esse sono state determinate in modo
da assicurare tanto la mediazione tra i diversi Stati capitalistici quanto la
mediazione politica con il grande capitale con interessi continentali e
mondiali. Il livello europeo, in altri termini, è da sempre quello in cui la
mediazione politica in funzione dell’accumulazione del capitale (essenzialmente
delle grandi società oligopolistiche e multinazionali) può svolgersi tutta
all’interno della classe dominante, del suo personale economico, politico e
accademico, prescindendo dalla mediazione verso il basso che può essere
necessaria per assicurarsi un consenso elettorale. Le istituzioni europee sono
state la prima forma embrionale della postdemocrazia ma hanno tratto linfa
vitale e forma definitiva dal terreno nazionale, sia che i governanti fossero
di centrodestra sia che fossero di centrosinistra. Tra il livello europeo e
quello nazionale ora tende a chiudersi un circuito, di cui il governo Monti con
appoggio bipartitico è un bell’esempio.
Se sul piano dei singoli Stati le radici della
trasformazione postdemocratica dei sistemi politici precedono l’unificazione
monetaria, essendo esse il risultato dall’evoluzione dei rapporti tra Stati e
società (capitalistiche) nazionali nel corso del secondo dopoguerra e della
progressiva statalizzazione dei partiti, in particolare di quelli di sinistra,
e se tempi, modi e intensità del fenomeno sono diversi per ciascun paese, si
può dire che il punto di non ritorno e la generalizzazione del fenomeno si
collocano negli anni Novanta del secolo scorso, in concomitanza con il rilancio
dell’Unione e con la decisione dell’unificazione monetaria. L’unificazione
monetaria è stata, a sua volta, l’impulso e il quadro nel quale il mutamento
postdemocratico si è compiuto.
Conclusione.
Da quanto sopra risulta, sul piano
interpretativo, che la compromissione dello Stato di diritto e il degrado dei
diritti sociali non conseguono solo o essenzialmente dall’occupazione del
potere da parte di Berlusconi e soci e che i cambiamenti nella statualità dei
paesi europei non possono essere imputati solo o essenzialmente all’utilizzo
strumentale
(o più rozzamente patrimoniale) dei poteri statali da parte di forze politiche
neoliberistiche o di destra o criminalmente rapaci, nazionali e internazionali.
Questo strumentalismo è l’ultima espressione
dell’attaccamento ideologico della sinistra post-comunista (post-Pci in Italia)
al mito e all’eterna e frustrata speranza di sviluppi più o meno progressivi e
partecipativi che mutino la natura sociale dello Stato capitalistico.
Lo strumentalismo è miope nella capacità di
definire i processi della trasformazione politica nel tempo e nello spazio. Non
può vedere le radici pluridecennali, molteplici, internazionali e strutturali
delle trasformazioni e della crisi strisciante della cosiddetta rappresentanza
parlamentare. Non può accettare che in Europa sia giunta al termine l’epoca del
parlamentarismo e, ancor peggio, che questa fine coincida con la fine di
un’epoca della storia del movimento operaio e socialista e dei partiti e dei
sindacati che ha espresso.
Lo strumentalismo è ipocritamente unilaterale
perché pone in secondo piano o elude il fatto che i partiti di centrosinistra
storicamente hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione del regime
postdemocratico e all’attacco ai diritti sociali.
Lo strumentalismo ipocrita, unilaterale e miope
della sinistra ha però una motivazione politica, che sia confessata oppure
nascosta nella fraseologia emergenziale e apparentemente movimentista e
ribellista: la necessità di realizzare, al momento elettorale opportuno,
accordi di collaborazione subalterna con il centrosinistra, ammesso che questo
ancora ritenga in qualche misura utile accordi del genere. Oppure si tratta semplicemente
di discorsi destinati a finire nel nulla perché non rispondenti alla realtà.
Non si tratta di difendere la patria ma di
battere innanzitutto il nemico in casa propria: è per questa via che si può
costruire un movimento reale e popolare contro gli imperialismi europei.
1) Si veda I Forchettoni rossi. La sottocasta della
«sinistra radicale»,
Massari editore, Bolsena 2007, a cura di Roberto Massari.
2) Si vedano i dati riportati nella mia prima
nota sulla crisi del marzo 2009, «La crisi nel contesto storico e la
neo-ortodossia di Obama», ripresi da «Systemic banking crises: a new database»,
di Luc Laeven e Fabian Valencia, Imf Working paper, ottobre 2008.
3) Sulla storia e il mito della Bundesbank
dalle origini all’euro: Jeremy Leaman, The Bundesbank mith. Towards a critique of
central bank independence, Palgrave, Basingstoke e New York 2001. La questione del rapporto
tra Bundesbank e politica è stata recentemente ripresa da Marcello De Cecco, di
cui riporto la conclusione:
«Da tutto quel che sopra ho narrato, appare
chiaro che le autorità monetarie tedesche sono quanto di più politicizzato sia
disponibile in Europa attualmente nel settore. Le loro talvolta travagliate
vicende indicano come la Buba e il circolo più ampio dei suoi sostenitori sia
soggetto a oscillazioni nella capacità che ha di indirizzare la politica
economica in Germania e di controllare la Bce. Sono, tali vicende, anche il
riflesso delle lotte di potere che si conducono all’interno della classe
dirigente tedesca. Un blocco informale di opinione e di potere che riunisce la
gran parte degli economisti accademici tedeschi, la Corte Costituzionale
Federale, una parte non trascurabile di grandi importatori tedeschi, specie nel
campo dell’energia, che vorrebbe una politica nazionale verso la Russia e gli
altri produttori di petrolio e gas orientali, e i grandi giornali popolari,
nazionalisti e conservatori, si muove abbastanza scompostamente ma con
decisione per favorire e spesso contrastare le azioni della politica, in
particolare per quanto riguarda i problemi dell’Euro e del debito sovrano
europeo. La Buba cerca di influenzare a suo vantaggio le azioni di tale
blocco»; da «Quella lobby della Buba», Affari e Finanza di Repubblica, 23 gennaio 2012.
4) Si vedano il sito dell’Ert http://www.ert.eu/default/en-us.aspx
e il rapporto del Corporate Europe Observatory, Europe Inc. Regional and global
restructuring and the rise of corporate power, Pluto press, London 2003.