L’omertà
sta al servilismo come la viltà sta alla prepotenza.
(Roberta De Monticelli)
Il film di Stefano Mordini, Acciaio, è tratto dal libretto fortunato
(in copie vendute e premi conseguenti) di Silvia Avallone... un romanzo scritto
abbastanza male e quel che più ci fa un po’ sorridere è l’interesse che una
cosetta rosa-rosa come il libro della ragazza bolognese, simpatica ed
estroversa (come la Clarabella di Disney), possa davvero aver sollevato un
polverone di contestazioni nel popolo piombinese (gli amministratori hanno solo
scaldato il brodo di frattaglie utile a non entrare troppo nel dissenso, tanto
da non inimicarsi i media nazionali... quelli locali sanno bene comportarsi nei
riguardi di chi li foraggia). Nei capitoli di Acciaio c’è tutta la Piombino peggiore, vizi e comportamenti di una
città anomala, sempre tesa a un’emancipazione dei costumi e sempre raggelata
nella sudditanza al volere politico. Qui perfino gli asini volano, se lo dice
il “comitato centrale”, un amministratore delegato o un ciarlatano di face book
che gioca a nascondino con i poteri forti.
Così la Avallone ha fatto il suo
compitino liceale. C’è il giovane operaio bello, l’amicizia perduta e ritrovata
tra due ragazze e l’inquinamento dell’ambiente (con moderazione) ad opera della
fabbrica. Ci sono anche i morti sul lavoro (ma la faccenda è troppo seria per
essere trattata come un fatto di cronaca). La classe operaia piombinese è vista
in una sorta d’inferno cartolinesco e la fabbrica segna il ritmo delle
giornate. Il sentimentalismo cementa tutto, anche la fantasia, quello che manca
è la conoscenza delle radici sociali di una città-fabbrica e più ancora il
coraggio degli operai che a più riprese nella storia di questa città hanno
cercato di rovesciare il corso dell’incatenamento politico-economico.
Anche il ’68 a Piombino è sfiorito
subito e i ragazzi extraparlamentari furono gettati nel discredito dai solerti
funzionari del PCI. Molti dei quali ancora albergano nelle
poltrone che “contano” e si adoperano in delazioni e censure preventive
(l’infamia sta tutta nel rizomario dei loro linciaggi indiscreti)... sotto il
mantello dell’ideologia e delle religioni sono avvolti crimini impuniti... la
libertà di espressione e il diritto al lavoro - come è scritto nella
Costituzione italiana - sono disattesi sul filo della mannaia o della genuflessione...
il senso dell’umano è sempre andato a rimorchio del profitto e della politica
della forca.
Mi ricordo
sì, mi ricordo...
della rivoluzione
libertaria planetaria del ’68 (dove le giovani generazioni volevano svergognare
il potere per distruggerlo): “Più della metà di coloro che, nel corso degli
anni, ho ben conosciuto aveva soggiornato, una o varie volte, nelle prigioni di
diversi Paesi: molti, certo, per ragioni politiche, la maggior parte tuttavia
per reati di diritto comune. Ho quindi conosciuto soprattutto i ribelli e i
poveri” (Guy Debord, filosofo situazionista, che abbiamo incontrato nei boschi
di Sassetta, ancora in clandestinità, prima di essere espulso dall’Italia per
attività sovversive). Ci voleva della ribellione a pensare che ci si poteva
ribellare per conquistare una vita più giusta e più umana per tutti... mai più
danzeremo nelle strade, berremo così giovani e saremo così belli!... a memoria
di ubriaco, nessuno aveva mai pensato che si potesse dichiarare l’ora di
chiusura del parlamento e inceppare i pubblici orologi... in quell’anno
formidabile anche i vini e le marmellate vennero più buoni.
Del
fotoromanzo Acciaio...
L’autrice di Acciaio si è guardata bene dal scrivere che nella città dalle rosse
bandiere un sistema di rappresentanza politica si è trasformato in un sistema
di relazioni di scambio fra poteri pubblici e interessi privati... i politici
passano, le loro devastazioni ambientali/criminali restano. Così ha scelto il
fotoromanzo... la felicità o l’infelicità giovanile che tutto assolve e tutto
dimentica... anche la bruttezza dei quartieri operai che fanno di Piombino una
città-dormitorio è esposta in modo abbastanza forzato. Via Stalingrado c’è, ma
nella testa della gente.
Nel racconto (di una banalità
scritturale indicibile) della “città rossa”, la Avallone evita di ricordare la
distruzione della bellezza, in ogni sua forma, che questa città si porta addosso
(i suoi strali sull’architettura piombinese sono pennellate all’acqua di rose,
rispetto alla reale devastazione storica della città). Si dimentica di annotare
(ma non è penna di talento passionale) che “la nostra epoca ha nutrito la
propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni... Noi abbiamo
esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi” (Albert Camus).
Senza mai considerare che ciò che non ci uccide ci fortifica (Nietzsche,
diceva). La paralisi dell’immaginario spinge talora gli scrittori nelle macellerie...
come non conoscere ciò che gridavano i maledetti della Beat Generation (Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Norman Mailer), e cioè che l’impudore del vero muore nell’innocenza
dell’amore dell’uomo per l’uomo che si fa storia? L’impero della merce fa
spettacolo di sé e la luce degli altiforni è legata al senso dell’umano andato
sempre a rimorchio del profitto.
Il solo
regista buono è quello celebrato dal mercato...
Il regista di Acciaio è Stefano Mordini, autore di pregio del cinema d’impegno
civile italiano... i documentari Paz ’77
(2000), L’allievo modello (2002), Il confine (2007), Come mio padre (2009)... lo fanno conoscere come attento testimone
di realtà sovente non trattate o disconosciute dall’industria filmica del
giovanilismo d’accatto... ingiustamente sottovalutato dalla critica
festivaliera di Berlino, all’uscita della sua prima opera di finzione, Provincia meccanica (2005). Un film
aspro, poco incline al consenso spicciolo, costruito con inquadrature forti,
buona fotografia e un montaggio serrato che aiuta non poco il bamboleggiamento dell’interprete (Stefano Accorsi), restituendo un ritratto di donna (Valentina Cervi) difficile da dimenticare. In Acciaio Mordini sembra prendere un’altra via, quella di piacere un po’ a tutti. Del resto, al fuoco del botteghino bisogna scaldarsi, per non bruciare.
Dalla velina dispensata alla 69°
Mostra del cinema di Venezia riportiamo la sinossi di Acciaio: — “Piombino l’acciaieria lavora ventiquattro ore al giorno e
non si ferma mai. Di là, l’isola d’Elba, un paradiso a portata di mano eppure
irraggiungibile. In mezzo, né di qua né di là, Anna e Francesca, tredici anni,
bellissime, un’amicizia potente ed esclusiva quanto l’amore. Lo stesso amore
che tiene in piedi Alessio, il fratello di Anna, operaio fino al midollo che si
ostina a pensare all’unica ragazza che non può avere, il sogno della sua vita,
Elena. Un giorno l’amore arriva, potente inaspettato per tutti e la vita prende
un’accelerata improvvisa, finché si incrina, sanguina, si spezza.
Dietro al mondo dei ragazzi,
vivono in lontananza, arresi e crudeli, i genitori, modelli a cui i figli
giurano, nel bene e nel male, di non assomigliare mai.
E sopra ognuno di loro, genitori e figli, la violenza continua dell’acciaio, che qualsiasi cosa accada, non si può fermare mai” —. Vero niente. Forse.
Dietro i
paraventi della città rossa...
La classe operaia di Mordini (e
Avallone) non solo non va in paradiso ma nemmeno all’isola d’Elba. È l’ultima
estate prima del liceo... le ragazzine Anna e Francesca sono in preda ai primi
turbamenti sessuali, ancora indecisi. Si allontanano, poi si ritrovano.
Alessio, il fratello di Anna, fa l’operaio, tira di coca e ruba il rame per far
quadrare i conti. Si abbevera al falso erotismo di provincia del night club. Il
posto sicuro in acciaieria lo conforta. Ama con trasporto Elena, figlia del
dottore della città, che dopo aver fatto esperienze di lavoro altrove, ritorna
e diventa impiegata nella stessa fabbrica di Alessio. Il rapporto delle ragazze
con i genitori è difficile, forse incolmabile, tuttavia l’acciaio, a conti
fatti, resta il collante a garanzia del futuro di un’intera città (fotografata,
male, nella sua parte più brutta). Il morto in fabbrica commuove anche i
predatori dell’acciaio nell’implosione della bolla finanziaria (dissimulata nel
sudario dei loro misfatti a colpi di licenziamenti ricattatori) e in accordo
con i loro vassalli - sindacalisti inclusi - dominano come i ratti su un cumulo
di spazzatura.
Il neoliberismo mette tutti
d’accordo, padroni e operai. Non ci sono santi che tengono. Sfruttati e
sfruttatori non guardano in faccia alla distruzione ambientale né alle morti
sul lavoro... ciascuno è deresponsabilizzato e finché dura la sola cosa che
conta sono le proprie convenienze in barba alla miseria montante della globalizzazione
dei mercati.
Le giovani generazioni di
disoccupati restano nei dati Istat e nelle chiacchiere televisive degli
imbonitori della politica. La lezione della fabbrica di morte di Taranto
insegna (dove rassegnazione e sottomissione degli operai ai padroni dello
stabilimento e ai faccendieri della politica sembra toccare gli stilemi della
farsa). A questo proposito ci piace riportare quanto afferma in un intervista
rilasciata a Venezia Today
dall’attore Michele Riondino (tarantino), che interpreta Alessio nel film Acciaio: "Quello che è cambiato
ultimamente verso l'Ilva è l'attenzione dei media. Si parla di bustarelle o
intercettazioni, ma in realtà sono tutte cose che a Taranto tutti sanno bene.
Non c'è politica che si interessi davvero del problema. La famiglia Riva si è
schierata con ogni parte politica, con la chiesa e con i giornali così non ci
resta che strappare la scheda elettorale. Potrebbe sembrare un segno non
costruttivo, ma secondo me è un segnale che si può dare alla mia parte politica
che non è mai stata al potere". Ricordiamolo: la salute dei cittadini fa
parte dei servizi pubblici, la cui protezione e gratuità dovrebbe essere
garantita. Le mafie della politica identificano la persona con il gregge e il
parlamento è un covo di serpi in attesa che venga schiacciata loro la testa!
Porca puttana! Bisogna proprio
essere dei coglioni o non aver niente di meglio da fare per vedere un film (o
leggere un libro) che parla di queste cose come fossero la realtà... qui la
filosofia da zuccherificio impera e l’acciaio è il solo responsabile
dell’incomprensione tra padri e figli... l’aridità della politica
istituzionale, le vessazioni dei padroni della fabbrica, l’inquinamento
ambientale vero, le lotte della classe operaia (vinta ma non arresa) restano
fuori... al limite dell’indecenza creativa... il confetto adolescenziale è
servito.
È il desiderio di vivere tra
liberi e uguali che apre le porte al possibile. È “il divenire davvero umano
dell’uomo che supera la propria umanità e crea il proprio destino” (Raoul
Vaneigem). Imparare a vivere superando la predazione dell’economia politica è
il solo elogio di uno stile di vita da conquistare. Lo sfruttamento delle masse
è planetario e le bande a delinquere degli affari attribuiscono ai cadaveri che
divorano con gli indici della Borsa, il servilismo volontario. Se la corona di
spine è il copricapo di un impostore o di un pagliaccio, l’aspirazione alla
felicità pubblica passa dall’abbattimento di tutte le idolatrie. Quando i
popoli si accorgeranno della fame di bellezza che tengono nel cuore, ci sarà la
rivoluzione nelle strade della terra.
La sceneggiatura di Acciaio è di Mordini, Giulia Calenda (e Silvia Avallone)... i luoghi comuni si sprecano... le banalità figurative, anche. La fotografia di Marco Onorato è molto televisiva, da sceneggiato in prima serata... tutto è ben edulcorato, i frammenti della fabbrica poi sembrano tratti da una pubblicità del Mulino Bianco (manca solo la faccia un po’ tronfia di Antonio Banderas che parla con una gallina a fare da specchio per l’educazione delle masse all’acquisto di un biscotto). Il montaggio di Marco Spoletini e Jacopo Quadri è inesistente, lento, accompagna le sequenze senza un’invettiva strutturale. Della scenografia di Luciano Ricceri e dei costumi di Ursula Patzak, meglio lasciar perdere (roba da centro commerciale). Riuscita invece la scelta degli attori. Michele Riondino è bravo, sostenuto da un certo fascino proletario che utilizza bene e Vittoria Puccini, una faccia bella, fin troppo malinconica, lavorano senza troppi estetismi e insieme alla freschezza giovanile, quasi selvatica di Matilde Giannini e Anna Bellezza impediscono l’uscita dal cinema. Restiamo convinti però che una passeggiata a Cala Moresca [un sentiero in un parco naturale a Piombino], una birra all’osteria con gli amici a cantare “Bella ciao” o fare l’amore (omosessuale o lesbico è la medesima cosa) su una spiaggia di fronte all’isola d’Elba è senz’altro un modo migliore di occupare il proprio tempo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore