Summary
Statizzazione e convergenza programmatica di Pasok e Nea Dimokratia: la
lunga crisi di rappresentatività e legittimazione dei partiti di governo -
Dati sul finanziamento statale dei
partiti - Il relativo sottosviluppo
del capitalismo greco - Lotta sociale
e fasi della crisi economica e politica
La estatalización y la convergencia programática
del PASOK y Nueva Democracia: la larga crisis de la representatividad y de
legitimidad de los partidos gobernantes - Datos sobre la financiación estatal
de los partidos políticos - El relativo subdesarrollo del capitalismo griego - Lucha social y etapas de la crisis económica y
política
Nationalization and programmatic
convergence of Pasok and Nea Dimokratia: the long crisis of political
representation and legitimation of the parties of government - Data on the
public financing of the parties - The relative underdevelopment of the Greek
capitalism - Social struggle and phases of the economic and political crisis
La nationalisation et la convergence
programmatique du PASOK et de Nouvelle Démocratie, la longue crise de
représentation et de légitimité des partis au pouvoir - Les données sur le
financement public des partis politiques - Le sous-développement relatif du
capitalisme grec - Lutte sociale et étapes de la crise économique
et politique
Estadismo e convergência programática de Pasok e
Nea Dimokratia: a longa crise de representatividade e legitimação dos partidos
de governo - Dados sobre o financiamento estatal aos partidos - O
subdesenvolvimento relativo do capitalismo grego - Luta social e fases da crise
económica e política
In questi anni di crisi
economica il conflitto sociale e politico ha raggiunto in Grecia livelli senza
paragone negli altri paesi europei, giustamente attraendo l’attenzione della
sinistra e le preoccupazioni dei governanti.
Per qualche settimana tra
maggio e giugno del 2012 è balenata la possibilità di una piena vittoria
elettorale del cartello elettorale di Syriza e quindi di un governo di
sinistra: in Syriza sono state riposte le speranze di una rivincita contro la
feroce politica antisociale dell’Europa del capitale e dai suoi miserabili e
immiserenti ricatti. Nelle elezioni del 2012 Nea Dimokratia (ND) e Pasok, i due partiti che hanno
governato la Grecia dalla caduta della dittatura dei colonnelli, hanno dimezzato i voti mentre Syriza ha strappato al Pasok gran parte
del suo elettorato popolare, così divenendo il secondo partito greco e il rappresentante
dell’opposizione sociale in parlamento. Fatti che esprimono la
più grave crisi di rappresentatività e legittimazione di un sistema partitico
in Europa.
È ovvio spiegare la gravità di
questa crisi politica con quella della crisi economica e con un riflesso di
rigetto nei confronti dei partiti dominanti che hanno sottoscritto i «programmi
di aggiustamento economico» (i Memorandum con la Commissione europea, la Banca
centrale europea e il Fondo monetario internazionale), che appaiono come un’imposizione
straniera; ed è anche facile collegare il successo elettorale di Syriza a una
particolare qualità politica di questo cartello.
Tuttavia, pur facendo le
proporzioni tra le diverse situazioni, nel resto d’Europa non si vede nulla
d’equivalente a quanto accaduto in Grecia: è vero che la crisi economica
danneggia i partiti al governo, aumenta l’instabilità politica e favorisce
gruppi politici di outsider (di sinistra ma anche di destra), ma i cambi della
guardia sono avvenuti all’interno del sistema dei partiti dominanti; né esiste
un nesso meccanico tra crisi economica, mobilitazione sociale e
radicalizzazione politica. I movimenti degli Indignados e di Occupy
esprimono (o hanno espresso, se come pare sono in fase calante) la rabbia di
una generazione e un bisogno radicale di democrazia e di controllo dal basso
delle condizioni della vita sociale. Sono un’esperienza necessaria e una
promessa di ciò che potrà essere ma, a differenza delle primavere arabe da cui
hanno tratto ispirazione, non costituiscono una forza in grado di incidere
materialmente sui rapporti di potere sociali e politici né, come tali, sono in
grado di farlo.
Come spiegherò in altro articolo, «fare Syriza» in Italia
è il sogno dei nostri forchettoni rossi, che tale rimarrà perché a questi
mancano le qualità politiche e etico-politiche minime per realizzarlo, segnati
come sono dal sostegno e dalla diretta partecipazione nei governi di
centrosinistra dell’imperialismo italiano e dall’aspirazione a sedere su
poltroncine imbottite. Nondimeno, Syriza non presenta aspetti programmatici o politico-culturali che siano
qualitativamente diversi da quelli degli altri partiti postcomunisti europei.
La differenza deve risiedere altrove.
Il fatto è che la crisi
politica greca ha radici profonde e una gestazione lunga, rivelatrici dei
limiti del processo di democratizzazione dopo la dittatura dei colonnelli
(1967-74) e, infine, dell’entrata a pieno titolo del sistema politico greco
nella grande famiglia delle postdemocrazie europee.
Per
comprendere cosa è accaduto nel 2012
in Grecia occorre partire dalla formazione e dalla crisi
strisciante del regime postdemocratico già prima dell’esplodere della Grande
recessione e cogliere il modo in cui un cartello elettorale di sinistra, che
fino alle elezioni di maggio e giugno aveva ottenuto un consenso elettorale di
modeste proporzioni, sia riuscito a capitalizzare buona parte dell’opposizione
sociale. Ma proprio analizzando i risultati delle elezioni intorno
ai quali ruotavano le speranze e si è
formato il mito di Syriza è chiaro che la via attraverso la quale l’opposizione
sociale può ottenere risultati concreti non è quella elettorale
e parlamentare. E da questo dipenderà anche il futuro di Syriza.
Statizzazione e convergenza programmatica di Pasok e Nea Dimokratia: la
lunga crisi di rappresentatività e legittimazione dei partiti di governo
Fondato nel 1974, nei
suoi primi anni il Pasok sosteneva l’uscita della Grecia dalla Comunità
economica europea (tradizione ora ripresa da formazioni «rivoluzionarie») e
dalla Nato; per la fraseologia antimperialista e socialisteggiante all’inizio
degli anni Ottanta era apparentemente il più a sinistra tra i partiti
socialisti europei. Una volta al governo quelle parole d’ordine finirono nel
dimenticatoio, tuttavia i governi di Papandreou padre (1981-89, 1993-96) si
distinsero per i rapporti molto buoni con l’Unione sovietica, un atteggiamento
«combattivo» nella Cee (nella quale la Grecia entrò proprio all’inizio del
1981, pochi mesi prima della vittoria elettorale del Pasok) l’appoggio alla
causa palestinese e l’amicizia con i regimi dell’Algeria, Siria e Iraq, questo
mentre imperava la seconda guerra fredda e Israele distruggeva l’Olp in Libano.
In realtà l’atteggiamento verso l’Unione sovietica si fondava su rapporti commerciali
e d’investimento (il più grande investimento dall’estero in Grecia fu quello
sovietico nell’estrazione di bauxite), sulla necessità di contenere a sinistra
il Partito comunista greco «dell’esterno» Kke (assolutamente dipendente
dall’Urss, l’atteggiamento del partito nei confronti del governo oscillava con
le posizioni di Papandreou in politica estera), e sull’ostilità nei confronti
della Turchia, pilastro del fianco meridionale della Nato (dopo il colpo di
Stato voluto dai colonnelli contro l’arcivescovo Makarios, la Turchia invase la
parte settentrionale di Cipro, sfiorando la guerra con la Grecia).
Il rozzo keynesismo
orientato alla crescita del consumo dei primi anni di governo venne
abbandonato, ma il Pasok sovrappose ai tradizionali canali clientelari quelli
derivanti dall’espansione (relativa) del welfare State, dalla proliferazione
delle istituzioni statali e dalla gestione della spesa pubblica in funzione
elettorale (1).
La centralizzazione del
potere intorno a Papandreou e la gestione verticistica dall’alto era senza
eguali, tanto che il primo congresso del partito ebbe luogo nel maggio 1984, a dieci anni dalla
fondazione. Alle misure progressiste corrispondevano l’interpenetrazione tra
apparato di partito e Stato e la corruzione. Nel 1989 il Pasok perse le
elezioni e Papandreou venne imputato per corruzione, risultando però assolto
nel 1991 e di nuovo primo ministro nel 1993.
Nella seconda metà degli anni
Novanta, durante le manovre di convergenza economica per l’adesione della
Grecia all’unione monetaria europea iniziò la convergenza politica tra Pasok e
ND. Quale fosse la novità del nuovo orientamento politico del Pasok si può
rappresentare con la fortuna di Kostas Simitis: già ministro dell’agricoltura
dal 1981, come ministro dell’economia nel 1985-87 questi attuò la svalutazione
della dracma e un piano di stabilizzazione dell’economia che marcò il rovesciamento
del precedente keynesismo (2) ma che per la sua impopolarità gli costò il posto
di ministro all’approssimarsi delle elezioni. Tuttavia, Simitis fu presidente
del Pasok e primo ministro dal 1996 al 2004, governando all’insegna di una
«modernizzazione» che rompeva con la tradizione del partito e che allineava il
Pasok ai partiti social-liberisti di «terza via»: ad esempio privatizzando la
metà delle imprese statali. Per quanto alla fine del secolo la crescita
economica della Grecia nel contesto europeo fosse sostenuta (e crescesse anche
il salario reale), la crescita dell’occupazione era un decimo della media
europea e nella seconda metà del decennio la disoccupazione crebbe fino al 12%
del 1999 (con un tasso di disoccupazione giovanile al 31%, quasi il doppio
della media europea). Inoltre, più che un compromesso neocorporativo tra
governo, padronato e sindacati le leggi di riforma del mercato del lavoro del
1998 e del 2000 furono un pasticcio che generò tensioni fra le parti sociali e
anche nel governo, mentre la disoccupazione rimase intorno al 10% fino al 2005.
La convergenza tra i partiti
maggiori non avveniva solo attraverso lo spostamento del Pasok da sinistra
verso il centro, concretizzatosi con l’adesione alla «terza via» e l’abbandono
della retorica nazional-popolare tipica di Papandreou padre a favore del
pragmatismo tecnocratico; nello stesso tempo anche ND muoveva da destra verso
il centro. L’identità ideologica di destra venne raccolta all’inizio del nuovo
secolo dal Laos, partito nazionalista fondato dal giornalista ed ex
parlamentare di ND Giorgios
Karatzaferis.
Europeizzazione e modernizzazione erano il terreno comune nel
quale si confondevano le tradizionali identità ideologiche dei partiti
maggiori.
Pur vincendo le elezioni, il cambiamento social-liberista
degli anni Novanta determinò una crisi strisciante del Pasok. All’inizio del
nuovo secolo la disoccupazione aumentava insieme alla corruzione e alla quota
del profitto sul reddito nazionale, mentre diminuivano la parte dei salariati e
il valore del salario minimo. Nell’immediato questo andò a vantaggio di ND: il
Pasok vinse le elezioni del 2000 per soli 72 mila voti e perse alla grande
quelle del 2004 e del 2007.
Tuttavia, tra la metà degli anni Novanta e i primi anni
del nuovo secolo si delineava una crisi strisciante di rappresentatività e di
legittimazione per entrambi i partiti:
la partecipazione alle elezioni cadde di sette punti tra il 1993 e il 1996,
anni dell’ultimo governo di Papandreou padre, e complessivamente di dieci tra
il 1989 (84,5%, il massimo della partecipazione del dopoguerra) e il 2000 (e di
nuovo nel 2007).
Inoltre, se nel 2000 e nel 2004 il Pasok e ND avevano
monopolizzato l’86% dei voti, in linea con i risultati di un ventennio, nelle
politiche del 2007 la percentuale di consenso congiunto scese di sei punti. Pur
vincendo le elezioni del 2007 ND perse più di 400 mila voti relativamente a
quelle del 2004 (e 4 punti di percentuale sui voti validi); lo stesso anno il
Pasok ne perse 300 mila. Sotto la leadership di Giorgios Papandreou, già
ministro dell’agricoltura nel governo del papà e ministro degli esteri con
Simitis, il minimo che si possa dire è che l’opposizione del Pasok fu debole e
inconcludente se non complice a proposito di riforma delle pensioni,
privatizzazioni, riforma universitaria.
Dati sul finanziamento statale dei partiti
La convergenza programmatica
del Pasok e di Nea Dimokratia è il risultato della compiuta statizzazione di
questi partiti, di cui un aspetto emblematico è l’assoluta dipendenza della
loro attività dal finanziamento statale (a partire dal 1984 e per partiti oltre
la soglia del 3% dei voti), chiarissima nella tabella che segue.
Finanziamento
dei partiti greci: % di contributi statali (A) e della base (B),
1997-2007
|
|
Pasok
|
ND
|
KKE
|
SYN
|
|
A
|
B
|
A
|
B
|
A
|
B
|
A
|
B
|
1992
|
|
12,2
|
|
3,7
|
|
54,7
|
|
22,6
|
1997
|
64,8
|
-
|
76,8
|
0,03
|
48,3
|
6,2
|
74,2
|
0,55
|
1998
|
-
|
-
|
80
|
0,02
|
50
|
?1
|
78,5
|
0,15
|
1999
|
76,8
|
10,6
|
69,4
|
0,01
|
53,1
|
3,7
|
74,2
|
0,12
|
2000
|
83,5
|
9,7
|
64,7
|
0,00
|
58,6
|
4,1
|
82,6
|
0,04
|
2001
|
86,5
|
2,5
|
82,2
|
0,01
|
52,2
|
2
|
87,2
|
0,00
|
2002
|
79,1
|
5,6
|
63,2
|
0,00
|
50,9
|
2,9
|
82,3
|
0,00
|
2003
|
77
|
-
|
84,6
|
0,00
|
53,3
|
4,8
|
82,4
|
0,00
|
2004
|
-
|
-
|
72,4
|
0,00
|
63,4
|
6,3
|
85,1
|
0,08
|
2005
|
-
|
-
|
87,9
|
0,00
|
55,8
|
4,2
|
85
|
0,00
|
2006
|
92,6
|
1,1
|
90,5
|
0,00
|
56,5
|
5,9
|
592
|
-
|
2007
|
92,3
|
3,0
|
50,5
|
0,00
|
55,3
|
2,6
|
-
|
-
|
Media
|
81,6
|
5,4
|
74,7
|
0,00
|
55
|
4,1
|
81,3
|
0,00
|
Fonte: Xristoforos
Vernardakis, 2012, tabelle 1 e 2. Legenda: sotto A e B
rispettivamente le % dei contributi dello Stato e della base al finanziamento
dei partiti; la fonte riporta anche una tabella dei prestiti delle banche ai
partiti; ND indica Nea Dimokratia, SYN il Synaspismós.
1) Nel bilancio pubblicato dal Kke nel 1998 la
somma dei contributi dei membri del partito includeva anche quelli dei
parlamentari, degli ex parlamentari e degli amici del partito;
successivamente le categorie vennero differenziate.
2) La riduzione del
contributo statale nel reddito del Synaspismós
nel 2006 è fittizia perché dal totale è stata dedotta la parte destinata alle
altre componenti di Syriza. Dei 3.044.609,21 euro del finanziamento pubblico,
2.587.917,83 andarono al Synaspismós e 456.691,38 agli altri membri della coalizione.
|
Nel saggio del politologo
greco Xristoforos Vernardakis (3) da
cui è ripresa la tabella si cita uno studio secondo il quale le quote del
finanziamento statale negli anni 1985-92 erano il 45% per Pasok e ND, il 12,6%
per il Kke e per il Synaspismós, al tempo cartello
elettorale e ora il partito maggiore della coalizione
Syriza, il 35%
nel 1986-92. È da notarsi che durante gli anni Novanta il peso del
finanziamento statale per i due partiti di governo raddoppiò: in questo caso esprimeva l’assoluta prevalenza della funzione di governo su quella
rappresentativa, la centralizzazione del potere di partito nella cerchia più
ristretta della sua direzione e nei membri con incarichi istituzionali,
l’obsolescenza della militanza di base. Per il Kke e il Synaspismós non si può parlare di statizzazione in senso
politico, ma il peso schiacciante del finanziamento pubblico e dei prestiti
delle banche private e l’irrilevanza dei contributi dei militanti sono fattori
che promuovono la professionalizzazione della politica e il potere dell’apparato, vincolando anche la strategia politica
al successo istituzionale. Come fattore casuale nella definizione
dell’orientamento politico e indice della burocratizzazione dei partiti il
rilievo del finanziamento pubblico non può essere trascurato, anche se non può
essere applicato meccanicamente (4).
|
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Il
relativo sottosviluppo del capitalismo greco
Nella crisi strisciante della rappresentanza politica si
esprimevano le contraddizioni sociali accumulate dopo la caduta della
dittatura. Meglio, penso possa dirsi che si esprimeva la disillusione per la
non-risoluzione delle contraddizioni di fondo della società greca, trasformate
e complicate da una modernizzazione reale ma che riproduceva il relativo
sottosviluppo del capitalismo greco nel contesto europeo. Ne elenco alcuni
aspetti.
Ancora negli ultimi anni
Cinquanta del XX° secolo l’80% delle esportazioni della Grecia era costituita
da prodotti alimentari: un chiaro indice del relativo sottosviluppo del
capitalismo. L’economia greca era caratterizzata dalla forte concentrazione del
capitale finanziario in due banche, una statale l’altra privata, e dal rilievo
del capitale investito nella marina mercantile. La forza lavoro liberata dallo
spopolamento delle campagne aveva come prospettiva l’emigrazione, la marineria,
il piccolo commercio, l’artigianato, l’edilizia oppure imprese manifatturiere
microscopiche. I ricchissimi armatori da una parte e i milioni di emigrati
all’estero che costituiscono l’ampia diaspora greca sono emblemi
rappresentativi della dialettica di modernità e sottosviluppo della società
greca.
Negli anni Sessanta
l’investimento diretto estero promosse l’industrializzazione, estendendola alla
metallurgia, alla chimica, alla produzione di beni capitale e di beni di
consumo durevoli. Si accentuavano però i dualismi della struttura economica e
sociale: impianti industriali moderni coesistevano con l’eccezionale
frammentazione del settore in piccole e piccolissime imprese tecnologicamente
arretrate; aumentava la concentrazione del capitale; l’agricoltura rimaneva
arretrata; le condizioni di vita miglioravano, ma nello stesso aumentava
l’ineguaglianza sia tra i salariati sia tra le categorie della piccola
borghesia vecchia e nuova. Persistevano o si aggravavano gli squilibri
territoriali, di cui una manifestazione è la forte concentrazione della
popolazione, circa 1/3 del totale, e dell’industria, nell’area metropolitana
Atene e del Pireo: un fenomeno di cui tener conto per intendere gli scioperi e
le manifestazioni ateniesi di questi ultimi anni.
A metà degli anni
Settanta, Mouzelis (5) scriveva che, pur differenziandosi dai paesi periferici
quanto a condizioni di vita, l’economia greca mostrava una limitata
complementarietà tra i settori capitalistici e quelli non-capitalistici, e tra
settori capitalistici avanzati e arretrati; notava anche la difficoltà,
conseguenti dalla struttura sociale, di organizzare i partiti in modo diverso
da quello clientelare e fortemente personalistico. Nonostante il forte consenso
nei ceti popolari, i governi del Pasok hanno confermato questa tesi:
l’aggiornamento consiste nell’affiancarsi delle reti clientelari tradizionali a
quelle create dal più moderno intervento pubblico (e le famiglie Karamanlis e
Papandreou sono state per decenni una costante del panorama politico
nazionale).
Durante e dopo la
dittatura dei colonnelli la modernizzazione è continuata ma senza eliminare gli
squilibri.
Nonostante le pretese di modernizzazione del
social-liberismo e la crescita economica, all’inizio del XXI secolo i tassi di
partecipazione femminili e giovanili al mercato del lavoro erano molto bassi:
tra i paesi dell’Ocse quest’ultimo era inferiore solo a quello dell’Ungheria e
della Corea del Sud; elevata era la quota dei giovani né al lavoro né
nell’istruzione e a rischio di emarginazione sociale.
La quota del lavoro autonomo nel 2003 era poco inferiore
era al 39% (35% nel 2010), la più alta tra i paesi a capitalismo avanzato, e
ampio il lavoro stagionale (specialmente diffuso tra i giovani nei settori del
turismo, costruzioni e agricoltura), estendendo la povertà ben oltre il
salariato e la disoccupazione; anche l’incidenza dell’economia informale (la paraoikonomia) sul prodotto interno, valutata intorno al 30%, era
elevatissima e superiore anche a quella dell’Italia.
Ancora nel 2007 il 92% delle imprese greche aveva meno di
10 dipendenti, con una media per le imprese nel settore non-finanziario di 1,7
contro una media europea di 5,2: in assoluto la più bassa, seguita dal
Portogallo e dall’Italia (Oecd Survey 2011, pp.
41-2); il 90% delle
imprese nel
settore manifatturiero rientrava nella classe 0-4 addetti e complessivamente il
94% nelle classi dimensionali fino a 9 dipendenti. In sostanza le stesse
proporzioni di trent’anni prima.
Tra la metà degli anni Novanta e il 2006 la quota dei
generi alimentari e «altri» nelle esportazioni industriali si ridimensionò
dall’80% al 64%: comunque altissima, segno della scarsa competitività nei
settori ad alta e media tecnologia. Mentre la quota delle esportazioni sul Pil
rimane la più bassa in Europa (1/3 della media), a causa della crescita delle
importazioni è aumentata l’esposizione del paese al commercio internazionale.
L’adesione della Grecia all’eurosistema ha ulteriormente ridotto la
competitività delle esportazioni, ma il ritorno alla dracma non risolverebbe affatto
il problema della collocazione del paese nella divisione internazionale del
lavoro. Il carattere fortemente commerciale del capitalismo greco è confermato
dal margine di profitto sul prodotto del settore, quasi il doppio della media
europea, seguito da vicino solo da quello della Polonia.
L’entrata della Grecia nella Cee (1981) e nell’eurozona
(2001) comportò alcuni vantaggi per l’economia greca, stante la direzione
prevalente degli scambi commerciali, la possibilità di valersi dei fondi
strutturali e di coesione europei (nel 2000-2006 equivalenti quasi al 3% del
Pil per Grecia e Portogallo, all’1,3% per la Spagna), una maggiore integrazione
finanziaria.
È però chiaro che la convergenza reale non si è
realizzata e che, già prima dei famigerati Memorandum, le «riforme» secondo le
direttive europee e l’orientamento delle agenzie internazionali creavano
tensioni sociali e politiche.
Lotta sociale e fasi della crisi economica e politica
Relativamente ad altri
paesi europei, il livello di conflittualità sociale in Grecia era già elevato
sotto il governo di Kostas Karamanlis, presidente di ND e primo ministro tra il marzo 2004 e il settembre
2009: lo testimoniano diversi scioperi generali, benché di ampiezza ineguale,
in particolare contro la riforma delle pensioni e le privatizzazioni del
settore pubblico, e nel 2006-2007 una grande lotta di studenti e docenti contro
la riforma dell’Università, proposta dalla destra ma appoggiata anche dal
Pasok, durante la quale vennero occupati i ¾ dei dipartimenti. A questa lotta
si deve attribuire molta importanza come impulso alla mobilitazione e
politicizzazione della gioventù, alla sperimentazione della democrazia diretta
nelle assemblee.
Cronologicamente il
grande sciopero generale del 10 dicembre 2008 era dunque l’ultimo di una serie,
ma con due elementi qualitativamente nuovi. Esso accadeva poco dopo l’inizio
della grande recessione internazionale e mentre si salvavano le banche private
con denaro pubblico: in un contesto, dunque, nel quale la retorica neoliberista
si contraddiceva e arretrava sulla difensiva; il secondo elemento
caratterizzante è che lo sciopero avveniva due giorni dopo l’omicidio del
giovanissimo Alexandros
Grigoropoulos da parte della polizia: fatto, questo, che determinò una
straordinaria ondata di manifestazioni e scontri intorno ai posti di polizia da
parte di decine di migliaia di studenti, cosa ben diversa dagli attentati. Un
chiaro segno di radicalizzazione politica che riscuoteva ampie simpatie.
L’incapacità di gestire la crescita qualitativa del
conflitto sociale e della radicalizzazione politica da parte della destra di Nea Dimokratia portò alle elezioni
anticipate del 4 ottobre 2009 e alla vittoria del Pasok, che ottenne 3 milioni
di voti, 300 mila in più sulle politiche del 2007, pari al 44% dei votanti o al
32% sull’intero corpo elettorale, da confrontare con i 700 mila voti persi da Nea Dimokratia, circa ¼ di quelli ottenuti nel 2007.
Evidentemente fu il Pasok a capitalizzare in termini
elettorali la protesta delle piazze, ottenendo uno dei suoi migliori risultati
elettorali dalla caduta dei colonnelli nel 1974. Ed è altrettanto evidente che
il Pasok fu votato perché fronteggiasse quella che già era una crisi gravissima
in modo da ridurne i danni per i lavoratori: e questo è quanto passava
attraverso la propaganda del partito. Tuttavia, se nel 2008 la caduta del
prodotto interno della Grecia (a prezzi costanti) aveva avuto portata simile a
quella del Portogallo e della Spagna, a loro volta decisamente inferiori al
crollo dell’economia irlandese, e se nel 2009 la caduta era stata inferiore
alla metà della media dell’eurozona, nel corso del 2010 si verificò il
tracollo, mentre il tasso di disoccupazione raddoppiava dal 7,7% del 2008 al
14%, continuando a crescere fino al 21,7% dell’aprile 2012.
La politica del governo di Giorgios Papandreou aveva
preso tutt’altra direzione da quella auspicata dai cittadini. Appena eletto, il Primo ministro greco
rivelò che il deficit pubblico per il 2009 sarebbe stato il doppio di quanto
inizialmente previsto e nei primi di novembre 2009 annunciò tagli al bilancio
pubblico; a metà dicembre l’agenzia di rating Standard & Poor declassò il
debito pubblico del governo greco a BBB+. Nei tre mesi seguenti si susseguirono
nuovi piani draconiani per ridurre il deficit pubblico al 3% del Pil,
implicanti una sottrazione di circa 9 punti di percentuale sulla domanda
aggregata. Il governo affermava di non volere aiuti esterni: il terzo e più
pesante pacchetto venne approvato dal parlamento il 3 marzo, centrato su un
forte aumento regressivo della tassazione indiretta, il congelamento delle
pensioni pubbliche, il ridimensionamento dell’occupazione statale e un taglio
degli stipendi dei dipendenti pubblici equivalente a più di un mese di paga. Il 10 marzo Romano Prodi, ex presidente della
Commissione europea affermò che «i problemi della Grecia sono completamente
superati. Non vedo altri casi in Europa», giusto per essere smentito otto
giorni dopo da una richiesta di aiuti da parte di Papandreou, a fronte di costi
crescenti di finanziamento e della prospettiva di non poter pagare gli
interessi sul debito in scadenza, richiesta demagogicamente osteggiata da Nd.
Tra marzo e maggio 2010 le curve dei credit default swap (i prodotti derivati
che indicano la possibilità di inadempienza dei crediti) sul debito dei paesi
europei più indebitati crebbero molto e velocemente, ma quelli della Grecia
raggiunsero livelli mastodontici; nello stesso tempo si delineava una crisi del
mercato interbancario europeo, particolarmente grave per i crediti in dollari,
moneta-chiave internazionale più sicura dell’euro.
Le misure messe in atto
dal governo Papandreou
erano ancor più gravi di quelle del governo di destra. La risposta furono gli
scioperi generali del 24 febbraio e dell’11 marzo 2010 e il grande sciopero
generale del 5 maggio 2010, durante il dibattito parlamentare
sul Memorandum sottoscritto dal governo greco con la troika costituita da
Unione europea, Fmi e Banca centrale europea. A giudicare dall’andamento dei
differenziali dei Cds le misure delle autorità bancarie europee e gli accordi
di «salvataggio» per la Grecia, l’Irlanda (novembre 2010) e il Portogallo
(maggio 2011) hanno avuto effetti solo temporanei: a metà giugno 2011 il rating
del debito pubblico greco scese al livello della spazzatura mondiale (CCC, pari
solo a quello del Belize), un mese dopo seguito dal declassamento dei ratings
di Irlanda e Portogallo.
A metà novembre 2010 si
tennero le elezioni comunali e regionali, trasformate di fatto in un referendum
sul governo del Pasok e la sua politica. Nonostante l’intensa pressione
propagandistica dei mass media a favore del governo, furono un’anticipazione
delle successive politiche: non solo Pasok (-10 punti sul 2009) e ND persero
voti, ma l’astensione complessiva toccò il 45% degli elettori, a cui si deve
aggiungere un altro 10% di schede bianche e nulle. Nei distretti di Atene
l’astensione superò mediamente il 60%, con un’elevata percentuale di schede non
valide. A causa della forte astensione il voto per le formazioni di sinistra
rispetto al 2009 crebbe ma relativamente poco, a livelli non diversi da quelli
toccati in precedenti occasioni. Il fatto politicamente interessante è che
nella regione dell’Attica Syriza, ovvero il Synaspismós,
sostenne un parlamentare dissidente del Pasok, ottenendo il 6,2% dei voti, e
che nello stesso tempo contro questa scelta era candidato Alekos Alavanos, l’ex presidente del Synaspismós e rappresentante di fatto di
Syriza in parlamento, appoggiato dalle formazioni di sinistra del
cartello elettorale.
Un aspetto
qualitativamente nuovo dell’ondata di mobilitazioni tra il 25 maggio e la metà
di luglio 2011 fu l’occupazione delle piazze delle principali città greche e la
loro trasformazione in assemblee da parte di centinaia di migliaia di persone,
innanzitutto di piazza Syntagma, su cui si apre il parlamento; alla fine di
giugno venne proclamato uno sciopero generale di due giorni, durante il quale
ebbero luogo violenti scontri di piazza.
All’ennesimo annuncio di
nuove misure d’austerità il 6 settembre seguirono scioperi di categoria (come
quelli che portarono al blocco dei traghetti per le isole e delle forniture di
carburante) e lo sciopero generale del 5 ottobre; momenti culminanti di questa
fase della lotta furono però lo sciopero generale di 48 ore del 19-20 ottobre
2011 e la contestazione del Presidente della repubblica durante le celebrazioni
della festa nazionale il 28. Dopo due anni di depressione e austerità sembrava
che il governo Papandreou
fosse tornato, ma in peggio, al punto del governo Karamanlis.
È questo che spiega la
demagogica trovata del Premier greco di tenere un referendum sull’accordo di
«salvataggio». Formulata alla fine di ottobre, la trovata venne rimangiata a
causa dell’opposizione interna al governo e della dura reazione della
cancelliera tedesca e del presidente francese alla riunione del G20 il 3-4
novembre. Papandreou si dimise pochi giorni dopo, una delle «vittime» mietute
dalla crisi economica all’interno delle caste politiche europee: a febbraio il
Fianna Fail aveva perso le elezioni anticipate in Irlanda; a marzo si era
dimesso il Primo ministro portoghese socialista Socrates; a luglio Zapatero
aveva indetto le elezioni in Spagna, che avrebbe perso a novembre; il 16
novembre sarebbe toccato a Berlusconi cedere il posto al governo «tecnico» e
bipartitico presieduto da Mario Monti; nell’aprile 2012 cadde il governo di
Mark Rutte nei Paesi Bassi.
Si può dire che il tentativo di Papandreou di deviare la
mobilitazione contro l’austerità in un canale istituzionale fosse l’ultima eco
del populismo paterno; e poiché a proposito della crisi greca a volte si
utilizza la nozione di bonapartismo, si deve dire che quello è stato
l’unico e debole gesto con qualche aroma bonapartistico. Ma, a prescindere da
ulteriori considerazioni, veniva da un uomo interno alla casta e già troppo
screditato per poter figurare come soggetto al di sopra delle parti «salvatore
della patria». Prontamente e ingenuamente ripresa da parte della sinistra
italiana carente d’idee, la proposta era comunque troppo pericolosa: governi e
mercati hanno bisogno di certezza e di decisioni rapide.
Dalla doppia sconfitta
politica di Papandreou, da parte della tenace resistenza popolare all’austerità
e per la perdita di credibilità rispetto a governi esteri e capitale
internazionale, scaturì il governo di coalizione tra Pasok e Nea Dimokratia presieduto da Lucas Papademos, ex
presidente della Banca centrale greca e vice presidente della Ecb, complice
nelle manipolazioni che consentirono ai governi del Pasok presieduti dal
corrotto Costas Simitis (1996-2004) di aver raggiunto i parametri finanziari
per l’entrata nell’eurosistema.
Neanche il governo di coalizione ebbe
pace: il 12 febbraio nuovo sciopero generale, con centinaia di migliaia di
persone in piazza Syntagma e violenti scontri. Nel palazzo del Parlamento
venivano approvati licenziamenti nel settore pubblico, la riduzione del salario
minimo e delle pensioni; più di 40 deputati vennero espulsi dai gruppi
parlamentari del Pasok e di ND per non aver votato le misure proposte dal
governo.
Nella primavera del 2010
prendeva corpo la seconda fase della Grande recessione, apparentemente centrata
sulla questione del debito pubblico degli Stati europei, fortemente cresciuto
nel biennio precedente.
Diverse sono le finalità
dell’intervento statale nelle due fasi: nel 2007-2009 si trattava di sbloccare
i mercati finanziari riattivando il credito, salvare le banche «intossicate»
dal precedente boom speculativo, impedire la deflazione da debiti e fermare una
spirale depressiva. Nella seconda fase Banca centrale europea, Unione europea,
Fondo monetario internazionale, e anche la Federal Reserve statunitense con le
sue aperture di credito, sono intervenuti pesantemente ma con l’obiettivo di
fermare la crisi delle banche «intossicate» questa volta dai titoli di Stati
con elevato debito pubblico, che nel frattempo avevano acquistato servendosi
con profitto delle iniezioni di liquidità, e di salvare l’unione monetaria
europea, che potrebbe essere travolta dal nesso tra debito pubblico e crisi
bancaria. Fatto è che mentre il debito pubblico cresceva proprio a causa delle
operazioni precedenti e delle minori entrate a causa della recessione, nello
stesso tempo il debito privato in percentuale del Pil in Europa (ma non negli
Stati Uniti) continuava ad aumentare: per il 2009 di 7 punti in Francia e in
Germania, di 17 punti in Spagna (nel 2007 al 317% del Pil, contro il 40% del
debito pubblico); in Grecia il debito privato lordo era nel 2009 il 173% del
Pil, quello pubblico il 115%, ma il 145% nel 2010; in Irlanda il debito totale
era all’806%, di cui il 607% imputabile al debito del settore finanziario,
interamente assorbito dallo Stato (6) .
In termini più generali,
nella crisi del debito sovrano si esprimono gli squilibri strutturali interni
all’eurozona e alla sua architettura istituzionale; ma essa è anche il modo
attraverso il quale le classi dominanti europee fanno pagare la loro crisi
economica ai lavoratori.
Nella seconda fase della
Grande recessione le misure di politica economica hanno agito non per moderare
la crisi ma invece come impulso all’ulteriore contrazione dell’occupazione e
dell’investimento, nel caso della Grecia portandola in una situazione di
depressione.
Non è affatto detto che
gli obiettivi di salvare l’euro come moneta internazionale (ora più che mai
meno solida del re dollaro) e di far ulteriormente arretrare i diritti sociali
risultino coerenti.
(Continua nella seconda parte, che sarà pubblicata in data successiva)
Note
1) Nella prima metà degli
anni Ottanta la spesa pubblica crebbe dal 31% al 43% del Pil, il deficit dal
6,5% all’11,5% del Pil, essenzialmente a causa dei consumi pubblici, mentre in
proporzione l’investimento statale rimaneva stazionario. Nondimeno, la quota
dei salari sul valore aggiunto crebbe fortemente nei dieci anni successivi alla
caduta della dittatura, essenzialmente prima del governo del Pasok, mentre tra
il 1984 e il 1993 cadde a un livello inferiore a quello del 1974, ad eccezione
dell’anno elettorale 1989. Per la politica economica del Pasok, in particolare
negli anni Novanta del XX secolo: «The Greek
experiment with the third way», di Thanos Skouras, in The economics of the Third way. Experiences around the
world, a cura di
Philip Arestis e Malcolm Sawyer, Edward
Elgar, Chelenham (Uk)/Northampton (Usa);
«The political economy of Social democratic
policies: the Pasok experiment in Greece», di Dimitris Papadimitriou, in Social
democracy in neoliberal times. The Left and economic policy since 1980, a cura di Andrew Glyn, Oxford University Press, Oxford
2001.
2) Come nel caso della Francia di Mitterand, l’abbandono del keynesismo
della politica economica greca non è imputabile al vincolo estero: nella
bilancia dei pagamenti il deficit commerciale era compensato dalle rimesse
dall’estero e dai fondi europei (voci che negli anni Ottanta ammontavano all’8%
del Pil) e da altre partite invisibili. Per una prospettiva storica sui governi
del Pasok e la Grecia negli anni Ottanta: Michalis Spourdalakis, «The Greek experience», Socialist Register 1985/1986; James Petras, «The contradictions of
Greek socialism», New
Left Review I/163, 1987.
3) Xristoforos Vernardakis, «From mass parties to cartel
parties: the evolution of the structure of political parties in Greece through
changes in their statutes and systems of financing», Working paper series on
the legal regulation of political parties, n. 27, 2012.
La quota dei
prestiti delle banche private nel finanziamento dei partiti varia molto di anno
in anno: per il Pasok raggiunse il 55% nel 2000 e il 62,7% nel 2007; per ND fu
il 43% nel 2004 e il 42% nel 2007; per il Kke fu mediamente di circa il 30% nel
1997-2002, poi declinando anche a 0; per il Synaspismós i massimi furono nel
2002, con il 26,8% e nel 2005 e 2006 con il 24,5%.
4) Intanto
posso dire che al momento continua ad esistere una differenza qualitativa tra
Syriza e i forchettoni rossi della sinistra italiana. Su questi rimando a I Forchettoni rossi.
La sottocasta della «sinistra radicale», Massari editore, Bolsena 2007, a cura di Roberto Massari e,
sull’istituzionalizzazione e il finanziamento pubblico, al mio saggio nel
volume, «La politica come "professione"».
5) Sull’economia della
Grecia si vedano di Nicos P. Mouzelis, «Capitalism and dictatorship in post-war Greece», New Left Review I/96, marzo-aprile 1976 e Modern Greece. Facets of underdevelopment, Macmillan, London 1978. Per i dati più recenti: Panayiotis P. Athanasoglou-Constantina Backinezos-Evangelia A. Georgiou, «Export performance, competitiveness and commodity composition», Bank of Greece, maggio 2010; Rania Antonopoulos-Dimitri
Papadimitriou-Taun Toay, «Direct job creation for
turbulent times in Greece», Observatory of economic and social developments,
labour institute, Greek General Confederation of Labour, Annandale-on-Hudson,
New York, novembre 2011; Stavros Katsios, «The shadow economy and corruption in Greece»,
South-Eastern Europe Journal of
Economics, 1, 2006; National statistical service of Greece, Statistical
yearbook of Greece, Pireas 2008; OECD Economic Surveys: Greece 2011; Glenda Quintini, Jobs
for youth Greece, Ocse 2010.
6) Dati in Michel Aglietta, «European vortex», New Left Review n. II/ 75, 2012, pp. 17-18; al legame tra debito sovrano
e banche è dedicato International Monetary Fund, Euro
area policies, selected issues, 3 luglio 2012.