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giovedì 16 agosto 2012

IL CINISMO MIOPE DEGLI USA VERSO IL MONDO ISLAMICO, di Pier Francesco Zarcone


Il quadro propagandistico fornito dall’imperialismo Usa
Una certa attenzione va dedicata all’analisi della politica verso il mondo islamico, adottata dagli Stati Uniti e dai loro alleati più succubi, nonché della loro propaganda riprodotta e diffusa dalla quasi totalità degli organi di (dis)informazione.
A suo tempo, fra dichiarazioni della Casa Bianca, saggistica e luoghi comuni sullo scontro di civiltà, pamphlet alla Oriana Fallaci, tuttologi all’offensiva ecc., era parso di capire che a cavallo fra i secoli XX e XXI il posto lasciato vacante dal’Unione Sovietica e dal suo pseudocomunismo come “nemico totale” fosse stato occupato a pieno titolo dall’Islam più estremista, ottuso e sanguinario, attore e fomentatore di terrorismo indiscriminato, arcinemico del concetto medesimo di “diritti umani”, retrograda belva assetata di sangue. Gli autoproclamatisi “padroni del mondo” non facevano altro che ricordarcelo, spesso sfiorando nei propri servitori zelanti il ridicolo propagandistico. Chi non ricorda la campagna di menzogne e depistaggi costruita intorno al nome del defunto Usāma bin Lādin, costantemente accompagnato dall’appellativo di “sceicco del terrore”?
Ovviamente c’era un fondamento per la campagna ideologica contro l’integralismo islamico, ma resta il fatto che, per combattere il suo asserito principale focolaio – l’Afghanistan – siamo stati (dis)informati sulla necessità di occupare quel paese, rovesciare i Talibani che opprimevano le donne (mentre i membri dell’Alleanza del Nord erano presentati come dei femministi garantiti!) e che sarebbero stati addirittura alla fonte dell’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers di New York. Ovviamente l’occupazione del territorio afghano veniva presentata come un’operazione di disinfestazione dal virus integralista.
Comunque sia, il quadro era chiaro, come pure per chiunque si interessi alle questioni islamiche era chiaro il ruolo di cellule cancerose allo stato libero svolto alla fine del secolo scorso in Algeria dagli integralisti reduci dalla lotta contro i Sovietici in Afghanistan. Una persona dotata di logica avrebbe potuto pensare che fosse frutto di momentanea avventatezza tattica l’appoggio (notevole in armi e addestramento) dato loro dagli Usa per contenere l’espansionismo sovietico in Asia, e per rifarsi dalla sconfitta.
Se ci si guarda intorno, invece, il quadro dianzi delineato non trova corrispondenza alcuna con la realtà. La prima perplessità – ed è di fondo – nasce dal fatto che chiunque abbia minimamente studiato l’Islam e la storia dei paesi islamici sa benissimo dell’esistenza endogena (come del resto nelle altre due religioni dette “abramiche, o abramite”: Ebraismo e Cristianesimo) di un potenziale e devastante radicalismo religioso; conosce pure quanto grande sia stata la responsabilità storica di tale radicalismo nell’aver causato il blocco culturale dei paesi musulmani, che solo dopo l’occupazione napoleonica dell’Egitto incontreranno direttamente (e traumaticamente) la modernità dell’Europa occidentale; gli è perfettamente noto come dopo la Prima guerra mondiale i progetti e i tentativi autoctoni – cioè non imposti dall’imperialismo europeo - per far superare a quei Paesi il gap in cui si erano trovati da secoli sono stati tutti improntati alla lotta contro il radicalismo religioso e alla formazione di uno Stato laico, da cui sarebbe dovuto derivare anche una certa (spesso cauta) laicizzazione delle società; e infine non gli sfugge quanto elevato sia il grado di fanatismo esistente in dette società, contenibile solo attraverso il consolidamento dello Stato laico le cui realizzazioni sono state però di portata tale da fare aumentare il complesso di inferiorità oggettivamente indotto dall’incontro diretto con l’Occidente. Ed è proprio questo complessi d’inferiorità che i gruppi religiosi intendono sublimare affermando nella loro propaganda la superiorità dell’Islam e l’autosufficienza del Corano, considerato uno strumento valido ancor oggi per riuscire a gestire le complesse problematiche della contemporaneità.
Questo elementare bagaglio teorico sembrerebbe essere, però, non alla portata dei vari esperti e analisti al servizio degli organismi governativi di Washington e delle Agenzie di intelligence. Clome la storia di questi anni ha dimostrato e come ora vedremo.

Gli errori di un passato non lontano
Nello sviluppo della politica statunitense verso il mondo islamico sono individuabili due punti di forza, scaglionati nel tempo: la concorrenza economico-politica nei confronti della Gran Bretagna – installatasi egemone nel mondo arabo ex ottomano dopo la Grande guerra – e l’approccio miope ai problemi della Guerra fredda ossessionato dalla paura dell’espansionismo del blocco sovietico. 
Nel primo conflitto mondiale nel Vicino Oriente, la Gran Bretagna aveva giocato in funzione anti-ottomana la carta della rivolta araba sotto la guida (nominale) della casa degli ibn Hashim (gli Hascemiti, per la stampa italica), discendente dal profeta Muhāmmad, titolare dello Sceriffato della Mecca e della custodia dei Luoghi Santi islamici, promettendo loro mari e monti (poi ovviamente rimasti sulla carta). Il grande nemico degli Hascemiti non era tanto il Sultano di Costantinopoli, quanto la casa araba dei Saud che nel secolo XVIII aveva aderito alla concezione integralista detta Wahabita dal nome del suo fondatore. Era stata sconfitta dall’esercito ottomano ma non distrutta, di guisa che covava la rivincita. La Gran Bretagna, seppure come sempre ambigua, in realtà non appoggiava i Saud.
Costoro, approfittando di una serie di situazioni favorevoli riuscirono a sconfiggere gli Hascemiti nella penisola araba, impadronirsi della Mecca e di Medina distruggendo santuari e tombe di santi musulmani, costituendo il regno dell’Arabia Saudita. Era nato il primo Stato integralista islamico del mondo, che poi con lo sfruttamento del petrolio avrebbe avuto a disposizione mezzi economici immensi per favorire – nei territori tradizionalmente islamici e in quelli della diaspora musulmana – il suo credo religioso estremista. La Gran Bretagna, alle prese con altri problemi, non intervenne per una restaurazione hascemita, ma sistemò due rampolli dell’esautorato Sceriffo della Mecca Hussain in modo da poter fungere (fra l’altro) da contenimento delle ambizioni saudite verso nord: ‘Adballāh ebbe l’emirato della Transgiordania, e Faisal la corona dell’Iraq (entrambe formazioni statali costituite dai Britannici e con i confini da loro tracciati a tavolino sulla carta geografica). Gli Stati Uniti, dopo aver sentito odore di petrolio, si schierarono invece con i vincitori sauditi. Un’alleanza contro natura che non sarà più spezzata fino a oggi.
Nel periodo della Guerra Fredda si vide ben presto quanto opportunistico fosse l’anticolonialismo proclamato dagli Usa, e come in realtà fosse diretto solo verso le colonie britanniche, francesi e portoghesi. Infatti il secondo dopoguerra era stato nel mondo islamico il maggior periodo di formazione di Stati - in teoria, se non laici almeno laicizzanti e protesi verso la modernizzazione. Ovviamente le loro classi dirigenti avevano atteggiamenti nazionalisti, senza molto gradimento per l’assunzione del ruolo di servi sciocchi del capitale statunitense. Di fronte alle reazioni e agli ostruzionismi di Washington si volsero ovviamente verso l’Urss, che però era una superpotenza militare più che economica. L’Occidente, e in primis gli Usa, fecero di tutto per mettere in difficoltà i nuovi governi riottosi del mondo islamico, fino al loro “avvitarsi” su se stessi anche per le contraddizioni interne non risolte; in ciò avvalendosi del contributo rilevante dell’entità sionista israeliana E si arrivò al punto di favorire l’ascesa al potere di turpi figuri integralisti come il pakistano Zia ul-Haq, cui si deve l’apertura del Pakistan al radicalismo religioso e alle sue organizzazioni.
A parte il caso dell’appoggio ai ribelli afghani è da rimarcare il fatto che dopo la Seconda guerra del Golfo gli Stati Uniti hanno provveduto a smantellare con zelo degno di miglior causa lo Stato iracheno che – tiranno Saddam a parte – costituiva insieme alla Siria un baluardo contro l’integralismo nel mondo arabo: patente riconosciutagli durante la guerra di aggressione all’Iran, fatta “su procura” statunitense.

L’oggi è peggio di ieri
La situazione attuale si rivela ancora meno comprensibile a causa della visibilità di un impegno contro il radicalismo islamico assolutamente parziale, cioè solo contro certi radicalismi, ma non contro tutti, anzi… Al riguardo sono importanti due fattori: il persistere dei cordiali rapporti commerciali e politici fra Stati Uniti e Arabia Saudita (un vero e proprio amico-nemico), e l’utilizzazione continua – diretta o indiretta – di elementi islamici radicali contro regimi non necessariamente amici, ma nemmeno nemici tout court, e in più non integralisti, come Libia e Siria. Qui – come più volte ripetuto – il contrasto democrazia/tirannide non c’entra per niente; semmai sono in campo due tipi di tirannidi, entrambe sanguinarie di cui una è di matrice religiosa. Lo stesso discorso va fatto, e lo facciamo nell’ultimo paragrafo, anche per le monarchie reazionarie del Golfo Persico. Conciamo col primo fattore.
Il paradosso è che per quanto la propaganda di Washington continui a usare il luogo comune dell’Arabia Saudita come paese islamico “moderato”, la stampa e la saggistica statunitensi sono piene di lavori sul vero volto del regime di quel Paese. Per esempio da essi si ricava il dato statistico per cui – con le truppe Usa impegnate nell’Iraq a combattere la sovversione sunnita – l’Arabia Saudita è stata il paese da cui è partito per la Mesopotamia il maggior numero di jihadisti; come pure che la caduta di Tripoli si deve ai miliziani di ‘Abd al-Hakim Belhaj, veterano dell’Afghanistan e dell’Iraq e integralista puro.
Non è difficile comprendere l’importanza degli Usa per l’Arabia Saudita, uno dei principali fornitori di petrolio e gradito cliente del complesso industriale-militare statunitense per le vendite di armamenti, come pure l’aiuto saudita agli Usa nel contrastare nasserismo e socialismo arabo. Meno facile è la comprensione del fatto che Washington non metta in atto verso Riyadh mezzi di pressione forti, anche ricattatori, perché cessi di operare questa fonte mondiale di contagio estremista islamico. Ricordiamo che da questo Paese viene ormai finanziata una vasta rete di moschee e scuole coraniche dall’Asia meridionale ai Balcani, dall’Africa alla Penisola Arabica e agli Usa stessi (la propaganda wahabita viene diffusa in decine di moschee di Los Angeles, New York, Oakland, Chicago, Houston e Washington); e che al mondo solo Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e riconoscevano il governo talibano di Kabul. Si potrebbe arrivare alla rottura, certo, ma non essendo quello saudita un regime dai solidi piedistalli, non si dica che la Cia non avrebbe i mezzi per uno dei suoi soliti lavoretti sporchi e rovesciare l’attuale regime, o approfittare dell’attuale crisi interna saudita (di cui non si parla) dovuta allo stato di agitazione della minoranza sciita per lo più stanziata, come abbiamo più volte ricordato, in zone ricche di petrolio.
Poiché questo non accade, diventa legittimo interrogarsi su un punto politicamente scorrettissimo: esiste davvero incompatibilità fra politica imperialista statunitense e radicalismo islamico? Sembra più argomentabile sostenere – alla stregua della miope politica estera Usa, del tutto incurante degli scenari futuri che va a costituire, ma attentissima agli interessi economico-politici del momento – che l’incompatibilità non vi sia, esistendo certe condizioni. Avendo ormai chiaro il fatto che, propaganda a parte, a Washington e dintorni il grado di interesse per la difesa dei diritti umani e democratici è pressoché a livello zero, a meno che non siano di pretesto per interventi (diretti o indiretti) nell’immediato interesse statunitense, possiamo dire che la politica Usa e il radicalismo islamico sunnita sono compatibili nei limiti in cui da quest’ultimo versante vi sia disponibilità ad alleanze tattiche convenienti a entrambi. Come è nel caso del libico Belhaj e come è stato alla base dell’attacco Usa all’Afghanistan dei Talibani. Ci ricordiamo o no che se i dirigenti di quei rozzi barbuti col turbante non avessero frapposto ostacoli ai desiderata statunitensi per un oleodotto asiatico voluto dal capitale Usa probabilmente non vi sarebbe stato nessun attacco?
Nell’ottica di una grande potenza imperialistica è indubbio dove starà il maggior peso se si mettono su un piatto dell’ideale bilancia della dea Giustizia la possibilità reiterare lucrosi affari (come l’acquisto, nel 2010, di ben 60 miliardi di dollari in armamenti fatto dall’Arabia Saudita) e sull’altro piatto l’essere il Regno saudita l’antitesi di qualsiasi base elementare di democrazia - mancanza di elezioni politiche, celebrazione di elezioni amministrative dopo il 2005 solo nel 2012, divieto di formare partiti politici e di fare dimostrazioni pubbliche (con punizioni che vanno da 40 anni di prigione alla pena di morte), sottomissione totale delle donne (anche se sembra che dal 2013 potranno votare alle municipali), sfruttamento bestiale dei lavoratori immigrati (sono l’80’% della forza lavoro totale), media ferreamente controllati, divieto di praticare altre religioni (si vuole imporre anche ai residenti stranieri non-musulmani l’obbligo del digiuno durante il Ramadan), paghe non superiori a 400 dollari al mese, il 60% della popolazione in povertà e travagliata dalla disoccupazione, un sistema giudiziario senza avvocati ecc.
Si deve quindi prendere atto del disinteresse del brain-trust Usa per il contagio in tal modo prodotto nei Paesi islamici, delle sofferenze che ne derivano, delle vite rubate. Business is business e pecunia on olet; il resto alla malora.
La propaganda e gli indirizzi di vita per Musulmani duri e puri, diffusi (anche negli Usa) dalle moschee e scuole musulmane finanziate dall’Arabia Saudita, sono terribili sul piano dei contenuti. Alcune “perle” per intenderci bene. Il meno è il divieto di salutare un Cristiano o un Ebreo per primi, giacché abbiamo la pesante equiparazione fra bere alcool, commettere omicidio o fornicare ed augurare buone festa a un infedele! Da qui il consiglio di non diventare mai amico di uno di costoro, a meno che non si punti alla sua conversione. Lavorare per un  infedele è cosa da non  fare mai, né vestirsi come lui. Se si ha del personale domestico non-musulmano, esso va odiato per la grazia di Allah. Imitare il buon Samaritano deve essere evitato, poiché l’infedele in ogni caso non va aiutato. Il musulmano tollerante verso gli infedeli è assimilato all’apostata, e quindi può essere ucciso tranquillamente. Inoltre dovunque è opportuno lottare per creare uno Stato islamico; anche negli Usa.
Farneticazioni, certo, ma che esigono il loro tributo di sangue, e la storia ha sempre dimostrato a cosa porti la mancanza di limiti etici nei comportamenti umani, sol che essa venga richiesta, giustificata, sancita e assolta da un placet attribuito a Dio. Dostoevskij, formatosi nel secolo XIX, sottolineò che se Dio non esistesse tutto sarebbe permesso; ma non avendo utilizzato per il suo problema la lezione globale della storia passata, e non potendo conoscere alcunché delle tragedie del secolo successivo, gli sfuggì che laddove si crede (e si induce a credere) che sia lecito davanti a Dio compiere ignominie di ogni sorta a danno dei propri simili, allora la cattiveria umana si scatena, si esalta, si ritiene onnipotente e si chiude in se stessa. Quindi aveva ragione Goya ammonendo che è il sonno della Ragione a scatenare incubi e mostri.   

Continua l’utilizzazione imperialistica degli estremisti sunniti    
Mentre vanno in rete queste considerazioni continua l’afflusso di jihadisti verso la Siria, continua il loro addestramento statunitense, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo, continuano a fornire soldi e armamenti, entrambe le parti in causa compiono massacri, in genere tutti attribuiti all’esercito di al-Assad, anche quando ne siano stati autori i ribelli.
In ordine a questo massiccio afflusso in genere non vengono posti soverchi problemi. Al massimo si si paventa (ma non da tutti), in caso di una loro vittoria, una radicale trasformazione coatta della Siria, di cui il fenomeno meno importante (comunque sintomatico) riguarderebbe la moda con il passaggio dalle magliette, dai jeans ecc. alle barbe (per i più Salafiti senza i baffi), alle tuniche e alla copertura più o meno integrale per le donne, come sta accadendo in Tunisia, Egitto e Libia. Non si pensa molto, invece, su quel che accadrebbe nei paesi circostanti in caso di sconfitta dei ribelli: sparpagliamento di cellule cancerose islamiche radicali, e destabilizzazione sicuramente di Giordania e Libano. E la Turchia?
Al riguardo si può dedicare un commento a parte. Innanzi tutto i jihadisti sono per lo più di lingua araba, e questo potrebbe ridurne l’efficacia propagandistica. Tuttavia si deve tenere conto dell’esistenza dei loro sostenitori anatolici, cioè turchi. Una saldatura fra il contagioso esempio degli Internazionali di Allah e l’esistente radicalismo islamico turco potrebbe attivare germi di destabilizzazione anche in Turchia. Allora si vedrebbe (cosa peraltro non auspicabile perché pericolosa) fino a che punto sia “moderato” il partito di Erdoğan e fino a che punto l’esercito turco abbia ancora la mano pesante a difesa della laicità della Repubblica, ma col rischio di una guerra civile senz’altro sanguinosa seppure possa essere di breve durata.

Per inciso, l’Arabia Saudita va a tutto campo, ma …
Anche l’Arabia Saudita, tuttavia, ha i suoi problemi, e con le sue numericamente scarse forze armate potrebbe trovarsi fra non molto in una situazione di tipo siriano. Si ha notizia  che un reparto di polizia saudita è recentemente caduto in un’imboscata di ribelli sciiti presso il villaggio di Tarut, subendo un morto e un ferito; e che a Qatif, nel corso di una manifestazione è rimasto ucciso un militare. È forse il segnale che fra gli Sciiti di quel paese - stanchi di essere vessati, discriminati e repressi, e sicuramente non scoraggiati da Teheran – si sta iniziando la lotta armata. Staremo a vedere. Al momento possiamo facilmente dire che il verificarsi di una tale situazione, oltre a destabilizzare profondamente la monarchia, causerebbe una notevole crisi petrolifera, in ordine sia all’aspetto materiale degli approvvigionamenti (le riserve saudite sono valutate essere il 19,1% di quelle mondiali) sia della lievitazione dei prezzi del greggio, tanto più che gli Usa e i loro alleati non acquistano petrolio iraniano. L’esplodere di una guerriglia sciita potrebbe mettere in ginocchio l’economia del Paese se gli adepti non-combattenti attuassero iniziative di sabotaggio facilitate dallo stato di vetustà degli impianti, che ovviamente sarebbe difficile sostituire con nuovi in un teatro di guerra civile.

Quando si usano due pesi e due misure è meglio tacere
La Siria laica era nell’elenco Usa degli “Stati canaglia”; il regime è obiettivamente dittatoriale (ma non è sunnita) e violentemente repressore, quindi viva i ribelli (Sunniti) e al loro fianco si pongono indignandosi Stati Uniti, governi alleati e anime belle occidentali. Tuttavia non si parla molto e non ci si indigna per quanto accade nell’Emirato del Bahrain, dove la popolazione – nella stragrande maggioranza sciita – lotta per i diritti democratici contro l’ultrareazionario Emiro al-Khalifa, sunnita e integralista, ed è repressa con brutalità (non inferiore a quella di Assad) però con l’aiuto militare dell’Arabia Saudita che si avvale anche di feroci mercenari pachistani fatti venire per la bisogna. È interessante rilevare che non se ne parla più di tanto, non ci si indigna e non ci si mobilita. E gli Stati Uniti tacciono. Ma si sa: per la loro propagandasciita è uguale a Iran e terrorismo è uguale a Sciismo anche se praticato dai Sunniti.
Si tratta di un’incredibile contraddizione nella politica Usa, di un punto debole di cui sarebbe un vero peccato non approfittare.  Ed ecco che la Russia – appoggiata dalla Cina - ha colto di sorpresa tutti presentando al Consiglio di Sicurezza dell'Onu la richiesta di valutare gli ultimi diciotto mesi nel Bahrain. Nel cinismo della politica internazionale poco conta che dal canto suo la stessa Russia non abbia le mani pulite in ordine alla Cecenia (ne riparliamo al prossimo paragrafo). Ma tant’è. L’importante è che l’iniziativa abbia seguito e metta in difficoltà la politica degli Stati Uniti in quell’area.
L’iniziativa non ha riscosso molta pubblicità sulla stampa internazionale, ma in questo vi è una perversa coerenza: si è notato che tutti i più importanti reportages (dis)informativi sulla Libia e sulla Siria sono stati e sono fatti da inviati operanti nelle zone in mano ai ribelli? Manca la voce delle controparti: è come un processo mediatico in cui si ode solo la voce dell’accusa.      

Negli Usa qualcuno si sta accorgendo di cosa potrebbe capitare, ma non basterà
Certo non tutti negli Stati Uniti leggono il New York Times, ma è significativo che questa importante testata, dopo essersi per lungo tempo distinta tra i fautori di una democratica crociata contro al-Assad, da un po’ di tempo sta cambiando registro. Ci si è accorti che massacri imputati all’Esercito regolare siriano sono stati invece compiuti dai ribelli, a danno di minoranze religiose. E adesso si vengono a conoscere particolari tanto tragici quanto illuminanti: che ben 80.000 Cristiani sono stati costretti a fuggire da Homs; che ci sono Sunniti – originariamente sostenitori della rivolta – i quali adesso vedono nel regime (autoritario e corrotto per quanto sia) il baluardo della pacifica convivenza religiosa ed etnica; che già a giugno del 2011 l’ambasciatore Usa in Siria, Robert Stephen Ford, aveva  allertato circa la presenza di elementi del franchising di al-Qaida tra i ribelli e circa il forte rischio, andando a rimorchio dell’Arabia Saudita, di destabilizzazione nell’area e di crisi umanitaria, invece dell’auspicato (da Washington) sostegno a Israele e indebolimento dell’Iran; che fra i Siriani laici o delle minoranze religiose l’antiamericanismo monta sempre di più.
Tuttavia non risulta che né la sig.ra Clinton né il resto dell’Amministrazione se ne preoccupino più di tanto. Le conseguenze si vedranno, e c’è da temere che si vedano troppo.

Sulla politica statunitense, oggi assai fiacca, si profila l’ombra di concreti interessi altrui
Qualcuno ha osservato che il conflitto in Siria è considerabile una guerra per procura, i cui interessati dietro le quinte sono il duetto Arabia Saudita/Qatar e l’Iran tirato in mezzo in quanto massimo alleato del regime siriano. In fondo è la reazione sunnita al decennio precedente caratterizzato dalla volontà di riscossa degli Sciiti.
Per gli Stati Uniti la caduta del regime di Assad non sarebbe solo una soddisfazione morale per il concretizzarsi di un sogno a lungo nutrito, ma anche l’occasione (illusoria?) di avere a Damasco un governo più amichevole e malleabile in favore del capitale yankee. Anche se islamico radicale? Probabilmente sì, anche se il massimo sarebbe di poterlo spacciare passabilmente per democratico-parlamentare. Se poi ciò si trasformasse in “democrazia totalitaria”, peggio per i Siriani, tanto potrebbero sempre manifestare il loro mancato gradimento alle elezioni. Una cosa è certa: fino alle prossime elezioni presidenziali gli Usa non interverranno in Siria: se lo facessero, la sconfitta di Obama sarebbe garantita. Ma probabilmente anche dopo – salvo ribaltamenti della situazione attuale – mancheranno i presupposti per la ripresa di un  attivismo politico statunitense che vada al di là del gioco sporco dei servizi segreti. 
Sul piano della propaganda Assad fin dall’inizio ha messo sul tavolo una carta che in vari organi di informazione internazionale comincia a essere considerata: l’essere la Siria sotto attacco del terrorismo islamico sostenuto dall’esterno. Il fatto che i rivali degli Usa non abbiano ancora fatto valere la contraddizione fra la sua conclamata lotta a tutto campo contro il terrorismo islamico e l’appoggio a esso dato in Siria significa solo che a livello internazionale non è cominciato lo scontro formale sulla questione.
La palese incapacità statunitense ad affrontare efficacemente i problemi politici (a bombardare e/o invadere saremmo buoni tutti) non poteva che attivare gli appetiti e le iniziative delle potenze regionali, per le quali la Siria è solo un’occasione. Poiché dell’Arabia Saudita abbiamo già avuto occasione di parlare, vediamo gli altri soggetti in campo. Nel nostro elenco manca Israele, per il semplice motivo che Assad è un nemico noto e bene o male lo si sa gestire, mentre dopo di lui c’è l’ignoto; e solo in due casi si può ipotizzare l’intervento armato dell’entità sionista: attacchi aerei per evitare che l’armamento chimico-batteriologico siriano cada in mani poco raccomandabili, nonché l’eventuale intervento massiccio di truppe iraniane in Siria.
a) L’Iran
Nell’interesse dell’Iran per la Siria – oltre a quanto già detto nel precedente nostro articolo sulla vicenda - vi è anche il fatto che la caduta di Assad farebbe perdere a Teheran il collegamento territoriale arabo con  l’Hezbollah libanese, e la conferma delle voci sulla presenza di circa 50.000 pasdaran in Siria confermerebbe la convinzione che l’Iran non mollerà tanto facilmente. Teheran dovrà anche tenere conto dei suoi rilevanti problemi geostrategici, da cui discende la necessità di non fare all’Arabia Saudita il regalo di farsi formalmente ingabbiare nella trappola del conflitto tra Sunniti e Sciiti. Per capire bene questa esigenza un passetto indietro nel tempo è indispensabile.
Il carattere islamico della rivoluzione che abbatté lo Shah aumentò di poco il prestigio iraniano a motivo della base ideologica sciita; nel conflitto Iraq-Iran quest’ultimo paese non ebbe appoggi da parte del mondo arabo, eccezione fatta per alcune minoranze sciite, ma non tutte, giacché nell’Iraq – maggioritariamente sciita - era prevalso il nazionalismo arabo; la coalizione arabo-sunnita all’epoca creatasi fu frantumata proprio da Saddam Hussain con l’invasione del Kuwait; di fronte a questa situazione l’Iran mutò politica, e puntando sulla combattiva minoranza sciita libanese ha fatto la scelta di non puntare più sulla sua rivoluzione islamica, bensì di porsi come vero campione della causa araba contro l’entità sionista e gli Usa e come garante degli equilibri del Golfo Persico. La gloria militare conseguita dall’Hezbollah sembrava aver posto una pietra angolare al progetto di Teheran. Con la Seconda guerra del Golfo, invece, tutto è cambiato di nuovo, perché la fine di Saddam è stata vista nel mondo arabo come una rivincita sciita in Mesopotamia, appoggiata, in termini di fatto, da un’anomala convergenza fra Stati Uniti e Iran. Da qui l’importanza e il senso dell’iniziativa iraniana – concretizzatasi lo scorso 9 agosto – per un incontro internazionale sulla Siria (se ne è parlato nell’articolo precedente) a cui hanno partecipato i governi di vari Stati musulmani, ovviamente sunniti. 
b) La Russia
Nello scacchiere siriano è altresì presente la Russia in termini di interesse per il suo ultimo baluardo arabo nel Mediterraneo e di presenza fisica con una base navale. Ma ciò non basta a rendere sensibile il Cremlino e a dare per scontate nuove utilizzazioni del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza: la Siria non è lontana dal Caucaso terra tormentata in cui già opera l’integralismo islamico. Si può giurare che Putin farà il possibile perché non aumentino i presupposti per la destabilizzazione del versante meridionale della Federazione Russa.
In questo settore della politica mediorientale, la Cina appoggia la Russia e con tutta probabilità continuerà a farlo per lo stesso motivo per cui – seppure con finalità diverse – Francia e Gran Bretagna sono all’erta: la collocazione geopolitica della Siria in ordine agli approvvigionamenti energetici. Per gli occidentali questo è il vero problema; il resto sono chiacchiere. Comunque per tutte le entità coinvolte nella vicenda siriana o ad essa interessate si profila all’orizzonte una situazione generica con cui dovranno fare i conti: chiunque vinca nell’attuale guerra civile, poco o niente in Siria sarà come prima, e per una normalizzazione stabile ci vorrà molto tempo ed essa non sarà indolore. E in una transizione non breve e difficile potrà accadere di tutto.
Certo è che nella fase attuale ogni sbaglio – soprattutto statunitense – produrrà effetti difficilmente rimontabili, come qualora venisse accolta la brillante idea di Hillary Clinton per l’introduzione di una no fly zone in Siria. La domanda su chi la farebbe rispettare (cioè su chi abbatterebbe gli aerei siriani che la violassero) deve tener conto del fatto che tale proposta troverebbe al Consiglio di Sicurezza il veto o russo o cinese o di entrambi i Paesi. Si assumerebbero il compito gli Stati Uniti in proprio, magari con l’appoggio di qualche monarchia araba reazionaria e integralista? E l’Iran starebbe quieto? Se invece intervenisse, e dal canto suo Israele volesse fare la zelante affiancando gli Usa? Una sola cosa è certa per concludere: il primo che sbaglia può fare sprofondare il Vicino Oriente (e forse non solo esso) in una guerra di ampio respiro. Ma siamo proprio certi che nessuno la voglia?
c) La Turchia
La svolta turca in politica estera è la vera novità. Ormai la Turchia è soggetto attivo del fronte contrario ad Assad, avendo abbandonato il precedente atteggiamento di acquiescenza verso il regime di Damasco. Questo maggiore attivismo nelle questione del Vicino Oriente prosegue la linea – già notata dagli osservatori politici – di definizione della Turchia come potenza regionale di quell’area, e può essere letto come cambiamento di rotta rispetto al desiderio di entrare nell’Unione Europea, finito in fase di stallo con un’umiliante attesa imposta da alcuni governi dell’Ue. Infatti, l’estrema prudenza turca in politica estera verso il Vicino Oriente, che aveva caratterizzato la fase di proclamato interesse all’ammissione nell’Ue, appare oggi superato dal desiderio di essere parte attiva negli avvenimenti di questo scacchiere. Con l’iniziale posizione da mediatore via via sfumatasi con l’appoggio attivo dato alla rivolta siriana.
Indipendentemente da quali possano essere le considerazioni statunitensi su questa svolta, sta di fatto che la sua efficace prosecuzione potrebbe trovare un pesante ostacolo nell’irrisolta questione della posizione di milioni di Curdi nella repubblica turca. L’arcinemico Pkk è presente anche in Siria, in Anatolia ha ripreso le attività e fruisce di una frontiera turco-irachena praticamente incontrollata, ideale per il transito libero di armi e munizioni. Il problema curdo potrebbe essere il tallone di Achille delle ambizioni di Ankara.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com


RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.