Enzo Valls (Argentina)
“Noi vogliamo un tempo in cui le vittime siano onorate, e non i
vincitori”.
Don Andrea Gallo, un prete angelicamente anarchico
I. Celerino figlio di puttana...
Il cinema
italiano è sorretto da pochi, pochissimi talenti autentici e da molti,
moltissimi imbecilli che nemmeno sanno che il cinema è (può essere) uno
strumento di poesia che dice la verità 24 volte al secondo (come Orson Welles,
Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Jean Vigo o
Luis Buñuel, hanno mostrato). A vedere il film ACAB - All Cops Are
Bastards
(2012), si comprende che il regista, Sergio Sollima, non è un talento.
Del resto, basta riuscire a sopportare la visione della serie televisiva, Romanzo
criminale (2008), che gli ha aperto il successo di pubblico e di critica,
si intuiva il senso dello Stato (autoritario) che lo anima.
A leggere con
cura l’ultima fatica di Sollima (Acab, appunto), ci assalgono conati di vomito per tanta scellerata
trasandatezza etica ed estetica... la cattiva eternità del potere non lo
riguarda, lo spirito di gruppo, il cameratismo, il manganello come olio di
ricino della società postmoderna invece lo affascina, lo rende certo che la
ragione del più armato è anche quella del più forte e le periferie delle grandi
città sono il serbatoio di giovani delinquenti che picchiano, rapinano,
uccidono il cittadino comune. Il che è vero in parte... c’è anche l’ondata
generazionale degli indignati che ci ricorda i soprusi, le angherie, le
ingiustizie perpetrate dai governanti conniventi con mafie, ladrerie d’ogni
sorta (compresi gli squallidi di tecnici della sobrietà, del rigore e
dell’impoverimento delle classi più abbienti che si sono instaurati agli
scranni del governo) e Sollima si guarda bene di trattare, nemmeno a margine
della sua storiella filmica.
L’apologia
della Celere è di quelle forti... e pensare di portare la giustizia (personale
e di Stato) nelle strade attraverso la violenza è fuori da qualsiasi ragione...
il patriottismo, del resto, è l’ultimo rifugio delle canaglie che con la divisa
o senza, fanno professione di pensare che la sola verità è la loro... non hanno
compreso né vogliono comprendere che la forza del diritto sta nell’amore
dell’uomo per l’uomo e non nel diritto della forza... godere della vita piena,
della fraternità e dell’accoglienza del diverso da sé, non significa proibire,
bastonare, umiliare... le soluzioni del disagio sociale non stanno nel divieto,
semmai nel deridere e abbattere le fonti dell’emarginazione sociale che sono in
parlamento (nei partiti) e nel loro braccio armato: le forze dell’ordine
costituito. Dove c’è libertà c’è amore e lì c’è l’uomo libertario che rifiuta
tutti i conformismi e i manicheismi politici, denuda la menzogna e lavora
(anche clandestinamente) alla caduta del Palazzo.
ACAB inizia con una voce
fuori campo che canta: “Celerino figlio di puttana... Celerino figlio di
puttana”... è quella di un motociclista che poi scopriamo essere un poliziotto
della squadra speciale di Roma. Sollima mostra subito di che pasta sono fatti i
suoi “eroi”... il poliziotto insegue il rumeno
che lo aveva investito con una auto (forse rubata) nel fondo della
periferia e lo ammanetta. L’efficienza, il fascino del gruppo, la “serietà”
della divisa sono stampati su quei volti
un po’ fasulli, un po’ bastardi che hanno trovato nella caserma, più ancora nel
diritto del bastone (o della pistola), un posto dove scaricare le loro ansie,
le loro paure, la loro inadeguatezza a vivere una vita davvero piena.
I celerini di
Sollima sono “fratelli” e asceti della religione del manganello e dei gas lacrimogeni...
se la prendono con i migranti, i rom, gli sfrattati, i senza tetto, i centri di
accoglienza... fedeli “cani da guardia” di ogni potere, stupidi fino alla
patologia di credersi moderni cavalieri del regno autoritario a venire, sono i
servitori sciocchi della politica dominante e a forza di prendere sputi, uova
marce e qualche schiaffo di ritorno... restano infangati nel loro sporco lavoro
in attesa che sia data loro la sorte che meritano... quella del cardellino che
cantava come un re in una gabbia dorata e un giorno un gatto randagio (che non
conosceva né re né corte) se lo mangiò e sputò le penne in faccia al buffone
che ne cantava le lodi... l’utopia fornisce il metodo, non le conclusioni.
La violenza
legalizzata del celerini di Acab si esibisce negli stadi, contro i clandestini, le puttane, i
delinquenti di piccolo cabotaggio... quando occorre, come nel G8 di Genova, si
adopera in torture o ammazzamenti protetti... ogni tanto qualcuno prende una coltellata
o resta riverso sull’asfalto, con la divisa sporca di sangue... i camerati
piangono davanti al telegiornale che ne dà notizia e comprendono che tutta
l’infelicità della polizia d’assalto viene dal fatto che non sanno restare seduti,
soli, in una stanza, senza violentare qualcuno... a cosa serve la polizia (di
ogni Stato) davanti al cadavere di un uomo, una donna o di un bambino?... a
niente! La critica della ragione si fa con l’uso della ragione, la critica
della verità si effettua in nome della concezione libertaria della verità... la
fenomenologia del supplizio non paga... la storia dei popoli in rivolta la
sconfessata sempre e lo farà ancora... la bellezza non s’incatena, e nemmeno la
giustizia... i ragazzi della Resistenza e i dannati della terra hanno preso le
armi per difendere la giustizia e la bellezza... quando i popoli si
accorgeranno del loro bisogno di bellezza e di giustizia, scoppieranno
rivoluzioni nelle strade del mondo.
Il pane di
tutti e per tutti è possibile solo dopo il crollo dell’idiozia e della violenza
statuale (non ci sono governi buoni e tutte le servitù sono volontarie)... il
bello, il giusto, il vero sono possibili quando la civiltà della barbarie è
sostituita con la società di liberi e uguali, fare buon uso dell’indignazione
significa mostrare che nessuno si libera da solo, ma ci si libera tutti
insieme... lo sdegno di fronte all’ingiustizia impunita è un primo passo,
quello successivo, la conquista dell’equità, della reciprocità e
dell’eguaglianza.
II. ACAB - All Cops Are Bastards
I celerini di
Acab si chiamano Cobra, Negro, Mazinga... ripuliscono gli stadi
dagli ultras, beceri e invasati quanto loro, danno lezioni di ecologia ai
fuoriusciti da paesi affogati nella miseria o nella guerra, mettono sulla strada
vecchi e bambini sfrattati da padroni sprezzanti (che affittano poi le case a
grappoli di migranti con affitti maggiorati)... si battono nelle strade con
scudi, manganelli, gas e insieme ai gruppi di estrema destra esercitano una
pulizia etnica davvero con sagacia e determinazione... quando sfasciano i campi
rom poi sono maestri in tutto... specie se si tratta di famiglie che sono lì,
nel fango, da una vita. È la medesima celere che si è fatta “onore” nella
scuola Diaz di Genova nel 2001... solerti difensori della tortura, del
pestaggio, del delirio di onnipotenza (c’eravamo e abbiamo documentato ciò che
diciamo)... un giovane arruolato, senza lavoro e senza futuro, li denuncerà ai
magistrati e (questo il film non lo dice) tornerà nel quartiere povero dal
quale cercava di uscire.
Sollima parte
da un buona inchiesta del giornalista di “la Repubblica” Carlo Bonini (poi
finita in un libro un po’ banale, ambiguo, fertilizzato tra il fascino del
crimine spicciolo e le fatiche della polizia a contenere la marea montante
dell’eversione politica, alla De Cataldo, per intenderci). La regia molto
televisiva (inquadrature scorciate, movimenti di macchina gratuiti, tagli
dell’inquadratura ravvicinati) di Sollima accompagna l’intero film strizzando
l’occhio ai videoclip e sono molti i riverberi linguistici predisposti al
prossimo passaggio televisivo. La sceneggiatura di Barbara Petronio, Leonardo
Valenti e Sollima è una sequela di luoghi comuni, estetizzati, disseminati
secondo la manualistica tarantiniana (grezza e sempre sopravalutata), in
momenti di “alta tensione” ad altri più distesi, che descrivono la quotidianità
dei protagonisti. La fotografia di Paolo Carnera lavora sull’oscurità, mai
riesce a comunicare la tragicità del vero (specie in esterni). Gli attori Pier
Francesco Favino, Filippo Negro, Marco Giallini... sembrano davvero credere a
ciò che fanno, poco o niente... si agitano (specie Favino, ma anche gli altri
non scherzano) e riempiono lo schermo di mossette, faccette, atteggiamenti da
duri che sovente cadono nel ridicolo... forse è solo Domenico Diele (Adriano),
la recluta che si chiama fuori, riesce a sostenere il ruolo (un po’ di
contorno) che gli viene affidato... la moglie di Mazinga, Roberta Spagnuolo, fa
la poliziotta da ufficio e la moglie inesistente con diligenza, quasi si
trovasse lì per caso o a interpretare una soap-opera. Un film da dimenticare.
Meglio una bevuta in osteria con gli amici.
Acab
cerca di raccontare anche il privato dei celerini... Cobra vive solo,
attorniato dai manifesti del Duce, incazzato col mondo e smanioso di fare
giustizia con le proprie mani. Negro si separa dalla moglie cubana (una puttana
da quattro soldi, dice Cobra) che gli impedisce di vedere la bambina e impreca
contro il palazzo del governo (rischia la radiazione dal corpo per malattia
mentale). Mazinga ha un figlio fascista, la moglie poliziotta tutta ufficio e
casa. Il giovane celerino (Adriano) è devoto alla mamma che vogliono sfrattare
e se la prende con il politico che gli promette la casa in cambio del voto. La
notte i tre “moschettieri” della celere vestono i panni dei vendicatori e fanno
giustizia nelle strade di Roma a colpi spranghe. Adriano non ci sta e li fa
incriminare. Il processo non si vede, finirà come sempre con un’assoluzione. La
santa madre patria prima di tutto... il resto è solo ferocia contro gli ultimi
della società. Il film si chiude con i fratelli-celerini che stanno per
intraprendere un nuovo scontro con i ribelli nella notte buia. Chissà, forse,
sarà la volta buona che avranno quanto hanno seminato.
In Acab si
sostiene che chi minaccia l’ordine e la nazione, anche solo con la sua presenza
di “quasi adatto”, è il nemico. La divisa, la visiera e il manganello sono
l’aspersorio dei novelle inquisizioni e la prepotenza e la sopraffazione diventano
la regola. È l’abituale visione della realtà che le serie poliziesche di
Mediaset e Rai dispensano in prima serata per l’addomesticamento
dell’immaginale collettivo... la criminalità è sempre straniera (al regista non
passa per la testa nemmeno di accennare che molti di quelli che stanno in
parlamento dovrebbero invece essere sistemati a San Vittore o a Rebibbia) e
dove l’autorità non arriva a gestire l’ordine pubblico, giungono i combattenti
fedeli della Celere e fanno piazza pulita dei senzapatria. La
mitologia sui poliziotti malpagati, mal equipaggiati, male addestrati che
agiscono comunque per difendere i valori democratici dello Stato è compiuta. Il
fatto è che lo schiavo, l’esule, lo straniero, lo sbandato, il fuoriuscito, il
diverso, il meticcio... sono testimoni diretti di una società consumerista,
guerrafondaia, ingiusta che arricchisce i più ricchi e impoverisce i più
poveri, gli esclusi dal banchetto delle iene. Una società a misura d’uomo non
deve produrre sfruttati né programmare sfruttatori. Illegale è la miseria e
solo una ridistribuzione delle ricchezze del pianeta può dare vita a una
democrazia partecipata o ugualitaria, dove la sovranità dei cittadini è la sola
garanzia per giungere al bene comune. E nel tempo dell’inganno universale, dire
la verità è un atto rivoluzionario.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 8 volte febbraio 2012.
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