Un testimone molto “coinvolto”
Siamo a pochi passi da dove
la vicenda è cominciata: a Treviso, al cinema Corso che è vicino alla galleria del libraio,
il magazzino dov’erano custoditi armi e documenti, e alla trattoria dove Guido
Lorenzon(*)
andava a mangiare con Giovanni Ventura, per discutere di Evola, di Pound e di
Celine, di timer per esplosivi e bombe sui treni. Dentro al cinema si proietta Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Guido Lorenzon, “il
testimone” della pista veneta (interpretato nel film da Andrea Pietro Anselmi)
è teso - come sempre quando si parla di piazza Fontana e della strage. Lui non
avrebbe voluto esserci ma si è arreso all’insistenza di amici.
L’inizio è una delusione…
per questa sua interpretazione dei fatti che è un discutibile cliché del Veneto
pavido e ignorante; che falsa l’avvenuto in tante sue parti specie quando mette
in mostra lo scontro tra “Lui”, Freda, Ventura. Lui (Il professore), reo di
aver tradito la loro fiducia denunciandoli alle guardie…Falso! Che trasforma
Giovanni Ventura (interpretato da Denis
Fasolo), in un capellone impulsivo e spavaldo, che parla veneto come appena
uscito da una balera… “Ma Ventura non era così, parlava lentamente e in italiano;
era calmo e glaciale”, riferisce lo stesso Lorenzon.
Il film racconta di
una pista anarchica (assurda quanto grottesca) e dipinge gli anarchici come
perditempo (a parte Pinelli), fa passare come volontario il volo dalla finestra
dal quarto piano della questura di Pinelli, falsa clamorosamente i fatti con le
due bombe (?) coinvolgendo lo spettatore sprovveduto e “ignorante” nel dubbio
atroce sulla vera esistenza di una pista anarchica (sconfessato fin dal primo
inizio dalla controinformazione militante e poi dagli stessi giornali borghesi.
Insiste sul complotto atlantico (Cia) - tra camarille di fascisti veri e falsi,
“prìncipi” (Valerio Borghese) e cortigiani, nonché ambigue figure che girano
nelle sedi degli apparati dello Stato come in quelle anarchiche. Il film ci fa vedere a quali livelli di
indecenza erano i vertici dello Stato, mostra il penoso teatrino di un governo
allo sbando e un apparato poliziesco che lo comanda, sprezzante e imbelle. Il
film ci regala sprazzi di verità mettendo in evidenza la figura di Giancarlo
Stitz, giudice istruttore a Treviso, che non si arrende all’archiviazione del
fascicolo e, per primo, fa arrestare Giovanni Ventura e Franco Freda, dando il
via alla “pista” di Treviso, ma non va oltre. Unica concessione vera del film è
il suo inizio: Prato della Valle, Padova, sullo sfondo Veneto e Franco Freda
che ordina i cinquanta timer usati per la bomba.
Più inutile che
dannoso allora? Secondo Lorenzon, che di quella drammatica vicenda è
protagonista (vedere la scheda), il film è “dannoso” perché non ricostruisce la
verità, ma insiste sulla pista anarchica, sulla presenza di due bombe nella
banca: una che doveva scoppiare senza far male e l’altra che doveva uccidere.
“Pur avendo tutti i riscontri giudiziari, perché il film non dice che la bomba
è nata nel Veneto e portata dal Veneto a Milano e che la sorgente della
strategia della tensione è trevigiana, come le indagini dei magistrati Calogero
e Stitz confermano?”.
“La verità per
quanto incompleta sta scritta negli atti giudiziari ed è quella che va
raccontata alle giovani generazioni. Freda e Ventura sono stati protetti dai
depistaggi, ma alla fine la Cassazione ha chiuso dicendo che sono i
responsabili della strage.”
Un’infamia legata alla morte di Pinelli e poi di
Calabresi (“coda” al film di Giordana)
Il 15 dicembre 1969
il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli (Pino) “vola” dalla finestra
dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, dal quarto piano della Questura
di Milano. Marcello Guida - questore di Milano - dichiara ai giornalisti che
Pinelli messo di fronte alle “prove inoppugnabili” della sua complicità
nell’attentato eseguito da Valpreda, si sarebbe suicidato, gettandosi dalla
finestra. Questa versione viene poi smentita con un’altra più incredibile: in
una pausa dell’interrogatorio, Pinelli si sarebbe avvicinato alla finestra per
fumare una sigaretta e, colto da un malore, sarebbe precipitato... Secondo
l’opinione comune il compito principale della polizia consiste nell’individuare
i colpevoli e non di crearli. Ma il fatto che Pinelli sia stato ucciso mentre
lo interrogavano potrebbe suscitare il sospetto che la polizia non cercasse il
vero colpevole, ma voleva crearlo, estorcendo con la forza la sua confessione,
secondo la pratica delle polizie degli Stati totalitari.
Infatti il compito
principale delle forze dell’ordine di uno Stato totalitario (o di una
dittatura) sta nel creare colpevoli considerando tutti i cittadini potenziali
colpevoli, annullando così la differenza tra “avrebbe potuto farlo” e “lo ha
fatto effettivamente” che permette allo Stato di scegliere liberamente, secondo
le necessità del momento, “colpevoli”, “nemici del popolo” ecc.
La coincidenza con
gli altri attentati (quattro) in due diverse città (Roma e Milano) che
colpiscono luoghi “simbolici” dimostra l’efficacia di un’organizzazione munita
di informazioni e mezzi tecnici che solo attrezzate organizzazioni criminali o
servizi segreti dello Stato possono avere, non certo gli anarchici.
Accertato che la
strage del 12 dicembre è di Stato, si è fatta strada - a sinistra - l’idea,
quasi una convinzione ideologica (molto presente nel film), che gli attentati e
gli attentatori avessero l’obbiettivo di spingere il Paese a destra per il
semplice fatto che i servizi dell’ordine sono per definizione di destra, il che
non corrisponde sempre alla realtà. I servizi segreti sono pagati dallo Stato
che rappresenta per loro la raison d’être
e la fonte di vita; perciò dovrebbero essere i primi interessati a conservare
lo status quo o sistema politico costituito (sia esso rosa o nero, democratico
o dittatoriale).
Quali mezzi hanno
usato le forze dell’ordine per raggiungere questo scopo, comune a tutte le
polizie? Sedici anni dopo la strage di Piazza Fontana, Adriano Sofri, Ovidio
Bompressi e Giorgio Pietrostefani vengono accusati dell’omicdio del commisario
Calabresi (1972) sulla base delle “confessioni” di un ex compagno (Marino) che
avrebbe partecipato all’attentato. L’analisi sia logica che contestuale dei
fatti (che nessuno - nonostante i 7 processi - si è preoccupato di fare), non
lascia alcun dubbio che le accuse contro Sofri e compagni siano state
confezionate dalla polizia (in particolare dai carabinieri) e recitate, sotto
minaccia, al momento giusto, da un provocatore scelto tra gli ex compagni.
Il momento (1988)
in cui Sofri viene accusato dell’omicidio del commissario Calabresi è altamente
significativo. Gli eventi che sconvolsero il mondo filosovietico potevano
sconvolgere (come in realtà è accaduto) il sistema politico esistente. La
preoccupazione maggiore, come si può facilmente supporre, era nei confronti del
Partito comunista italiano. E così, con piena approvazione di tutti partiti
ufficiali, viene tirato fuori dalle casse del Ministero dell’Interno un piano
adatto all’occasione: un processo politico contro antichi nemici che sarebbero
potuti risorgere, minacciando il sistema costituito. Il “caso Sofri”, in quanto
caso non-isolato, ma anello nella catena degli eventi che lo hanno creato,
permette di intravedere la natura del sistema (e i suoi mezzi di autoconservazione).
Calabresi non
accetta di essere accusato dell’omicidio di Pinelli, non sopporta di essere
linciato dal quotidiano Lotta continua
e lo querela nonostante l’indagine fosse archiviata e Calabresi e i suoi
collaboratori fossero – formalmente - fuori sospetto. Perché lo fa? Si offende?
Segue i suggerimenti dei suoi superiori???
I sospetti non sono prove e la polizia è sempre circondata da sospetti
di ogni genere… si può dire che il “sospetto” è l’elemento naturale della
polizia, come l’acqua per il pesce, l’aria per l’uccello ecc.
Forse (e il film lo
evidenzia) il Commissario sente il bisogno di difendere il suo buon nome che
dopo tanti anni di servizio fedele non è abbastanza difeso dai suoi superiori e
dallo Stato. Sbaglia valutazione sia nel credere nell’appoggio della
magistratura e ancor di più nell’appoggio dello “Stato”. La querela non fa
altro che ritorcersi contro di lui, riaprendo l’indagine sulla morte di Pinelli
(riesumazione del cadavere). Il processo dà ragione a Lotta continua che nella
battente denuncia sul giornale voleva (solo) portare alla luce la verità,
denunciando Calabresi e la Polizia per i suoi metodi illegali. Di fatto, la
riapertura delle indagini sulla morte di Pinelli portò Calabresi alla sua
tragica fine. Perché? Perché nell’autunno del 1971, in seguito alla
denuncia della vedova di Pinelli, Calabresi e i suoi collaboratori vennero
accusati di omicidio e quindi le indagini in corso avrebbero potuto portare a
svolte impreviste ed estremamente sgradevoli per il sistema.
Un’altra infamia legata alla morte Franco Serantini
In seguito si è
aggiunta un’altra circostanza: la morte in carcere a Pisa dell’anarchico Franco
Serantini, arrestato e picchiato dalla polizia fino alla morte. Si racconta che
un medico abbia fatto segretamente l’autopsia al corpo di Serantini,
constatando la morte causata da gravissime lesioni al cranio. Questo crimine
suscitò una grande reazione nella pubblica opinione: una grande manifestazione
promossa e sostenuta da Lotta continua coinvolse tutta la città.
In quell’occasione,
Marino, l’accusatore di Sofri, riferisce di una sua immaginaria conversazione
con Sofri e Pietrostefani: “essi mi confermarono che la decisione proveniva
dall’esecutivo politico, dicendomi che i tempi erano maturi anche per l’effetto
dell’assassinio di Serantini”. Secondo la versione di Marino, la decisione di
uccidere Calabresi sarebbe stata presa precedentemente alla morte di Serantini,
e quindi Calabresi sarebbe stato ucciso in ogni caso. Quando e perchè si è
atteso un così lungo periodo? (due anni e mezzo)
L’accusatoria di
Calabresi fu violenta ma lunghissima. Questo rende improbabile la progettazione
dell’omicidio di Calabresi da parte di Lotta continua che aveva come unico
scopo quello di portare allo scoperto le responsabilità di Calabresi e dello
Stato. A Lotta continua Calabresi serviva vivo e non morto (come Aldo Moro
prigioniero delle Brigate Rosse, sacrificato da tutta la classe politica perché
diventato scomodo avversario e “nemico” dello stesso sistema che lui aveva
contribuito a creare). Cosa sarebbe successo se Calabresi non fosse stato
ucciso? Supponendo che l’esame del cadavere di Pinelli avesse confermato i
sospetti secondo cui Pinelli era volato dall’ufficio di Calabresi già morto,
non per malore attivo ma per lesioni; in questo caso Calabresi avrebbe dovuto
giustificare le sue azioni davanti ai giudici in un processo pubblico, avrebbe
dovuto dire tanti perché e da chi prendeva ordini per ottenere ad ogni costo la
“confessione” di un qualsiasi anarchico, con ogni mezzo a sua disposizione.
C’erano forse prove a carico di Pinelli? Nessuna! Solo l’essere ideologicamente
avversario politico del sistema. E se non c’erano, perchè proprio un anarchico?
Cosa avrebbe risposto il Commissario, preso alle strette, non si può sapere.
Sicuramente Calabresi era diventato un personaggio troppo scomodo, troppo
pericoloso per lo Stato e i suoi servizi segreti: quindi andava eliminato (come
Moro).
Morto Calabresi -
vittima del sistema che ha fedelmente servito e difeso - infatti si chiudono le
indagini su Pinelli, su Serantini e soprattutto si avvolgono di nebbie
impenetrabili gli attentati del 12 dicembre. Certo, rimangono i sospetti ma
questi non preoccupano nessuno: i sospetti non sono prove e la polizia vive
sempre nel sospetto.
Dalla strage di
piazza Fontana a oggi nessun ragionevole dubbio si è insinuato nella “ragion di
stato”. Nessuna prova a carico di ministri, capi di governo che si sono
succeduti. Le responsabilità politiche hanno trovato giustificazioni politiche
fino allo sconcerto. Gli scopi oltre che politici erano storici. Riscrivere la
recente storia italiana presentando la classe politica al potere come
salvatrice della patria e i suoi oppositori come la causa principale dei mali.
Questo fu ed è il
“paradosso italiano”: lo Stato “borghese” ristabilì il dominio dei suoi nemici,
innescando il terrorismo per mezzo del quale esso riuscì a eliminare dalla
scena politica i gruppi della sinistra alternativa ma nello stesso tempo la
legittimità della lotta politica e tutto ciò che costituisce l’essenza della
libertà (essere avversario politico, essere ribelle…). E questa è l’essenza del
processo contro Sofri, Bompressi e Pietrostefani: essi sono colpevoli perché
erano avversari del regime. Essere avversario politico è dunque un reato e in
parte questo disegno è riuscito. La responsabilità morale della sinistra
alternativa (di cui Lotta continua è stata la sua maggiore componente) con il
terrorismo è diventata una specie di
rosario recitato con entusiasmo dai giornali e dalla gente comune e il
processo Sofri lo conferma.
In un certo senso
con “ragione”. A causa loro per autoconservarsi lo Stato ha dovuto usare metodi
forti come il terrorismo pianificato, con l’uccisione di centinaia e centinaia
di malcapitati cittadini.
I processi in corso
possono solo contribuire a perpetuare l’illusione che il giusto e il vero sia
quello che certifica lo Stato.
(Questo articolo
era già scritto quando è arrivata la notizia che anche il processo sulla strage
di Brescia del 16974 si è concluso senza l’individuazione di colpevoli,
mandanti o responsabili.)
Antonio Marchi
(utopista rosso ex
militante di Lotta continua)
(*) Guido Lorenzon è nato a
Maserada sul Piave nel 1941. Conosce e frequenta Giovanni Ventura nel corso
delle sessioni estive di Borca di Cadore del Collegio Pio X di Treviso.
Un’amicizia coltivata più tardi nella galleria del libraio che Ventura gestiva
in corso del Popolo a Treviso, diventata crocevia di molte relazioni
dell’estrema destra mestrina e padovana. Nell’autunno del 1969 Lorenzon
raccoglie le confidenze di Ventura, in particolare legate a “qualcosa di grosso
che accadrà a Milano” nelle prossime settimane. Dopo lo scoppio della bomba
alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, venerdì 12 dicembre 1969, e soprattutto
dopo aver visto in televisione le immagini del funerale delle vittime, decide
di rivolgersi alla giustizia. La sera stessa del giorno dei funerali incontra a
Vittorio Veneto l’avvocato Alberto Steccanella, al quale descrive le confidenze
di Ventura. Questi informa l’avvocato e parlamentare della D.C. Dino De Poli.
Nel pomeriggio del giorno di S. Stefano nel cimitero di Gaiarine, Guido
Lorenzon incontra il giovane sostituto procuratore di Treviso Pietro Calogero.
Mentre quasi tutta l’Italia si alimenta della pista anarchica seguendo le
verità ufficiali, a Treviso si fa strada a poco a poco la verità. Nel generale
scetticismo delle forze di polizia, tra misteriose fughe di notizie e in un
clima di grande tensione, Calogero e il giudice istruttore di Treviso Giancarlo
Stiz, approfondiscono le dichiarazioni di Lorenzon e ne riscontrano
l’attendibilità. A Treviso davvero Ventura e Freda con la cellula mestrina fa
parte della rete di estrema destra che sa cosa è successo a Milano. Sarà questa
pista a portare i magistrati sulla strada della verità giudiziaria e a distanza
di tempo a liberare dall’infame accusa gli anarchici. Guido Lorenzon ha
raccontato questa esperienza in Teste a
carico (Mondadori 1976), ripubblicato nel 2005 con il titolo Piazza Fontana, la pista di Treviso
(Giano 2005).
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