GESÙ NELL’ISLAM
Questa volta non trattiamo, in termini di
rivisitazione critica, aspetti dei Cristianesimi, bensì quell’argomento assai
poco conosciuto in Occidente fra i non-specialisti che è il ruolo di Gesù nella
religione islamica. Lo stereotipo corrente lo ha occultato, e non sarà male
contribuire alla sua confutazione. D’altro canto si tratta pur sempre di una
religione semita che ha palesemente alle spalle sia l’Ebraismo sia il
Cristianesimo.
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Minareto di Gesù della moschea Omayade di Damasco |
Nel Corano a Gesù (Īsā ibn Maryam; Gesù figlio di Maria) viene attribuito un ruolo
di assoluta rilevanza: egli non è un semplice profeta (nabī), bensì un inviato di Dio (rasūl Allāh),
l’ultimo prima di Muhāmmad, e faceva parte della sua missione per l’appunto
preannunciarne la venuta. La menzione di Gesù da parte dei musulmani è sempre
accompagnata dall’espressione “Su di lui la pace [di Allāh]” (alayhi as-salām),
affine a quella usata per il profeta Mohammed (salla Allahu ‘alayhi
wa-sallama: “Dio lo benedica e lo salvi”). Egli è parola di Dio (kalima min Allāh)
e suo spirito (rūh min Allāh);
Messia (al-masīh) e servo di Dio (‘abd Allāh). Ma, per quanto esaltato,
viene considerato soltanto un essere umano, quand’anche vicino a Dio, e
«eminente in questo mondo e nell'altro e uno dei più vicini a Dio (Sura
3, 45). (...) Rifiutano la fede a Dio quelli che dicono: “il Cristo, figlio di
Maria, è Dio”. Rispondi loro: “Chi potrebbe impedirlo a Dio, se Egli volesse
annientare il Cristo figlio di Maria, e sua madre e tutti coloro che sono sulla
terra?”» (Sura 5, 17)
Secondo una tradizione messianica sunnita Gesù
tornerà sulla Terra alla fine dei tempi, annunciando lo yawm al-dīn,
ovvero il Giorno del Giudizio ultimo, e si crede che egli apparirà dove oggi sorge
il “minareto di Gesù” (manār ‘Īsā), che fa parte della moschea degli Omayyadi di Damasco.
Dicevamo che per il Corano Gesù non è né
figlio di Dio né a Dio assimilabile. E questo viene formulato a chiare lettere:
«Rifiutano la fede a Dio quelli che
dicono: “il Cristo, figlio di Maria, è Dio”. Rispondi loro: “Chi potrebbe
impedirlo a Dio, se Egli volesse, di annientare il Cristo figlio di Maria, e
sua madre e tutti coloro che sono sulla terra?» (5, 17).
Pur tuttavia il Corano ripropone la sua
nascita miracolosa da una vergine:
«E quando gli angeli dissero a Maria: “O Maria! In verità Dio t'ha
prescelta e t'ha purificata e t'ha eletta su tutte le donne del creato... O
Maria, Iddio t'annunzia la buona novella di una Parola che viene da Lui, e il
cui nome sarà il Cristo, Gesù, figlio di Maria, eminente in questo mondo e
nell'altro e uno dei più vicini a Dio”... O mio Signore! rispose Maria, “Come
avrò mai un figlio se non m'ha toccata alcun uomo?", rispose l'angelo:
“Eppure Dio crea ciò che Egli vuole: allorché ha deciso una cosa non ha che da
dire: Sia! ed essa è”» (4, 157-58).
Un non-musulmano potrebbe obiettare che,
affermandosi la concezione di Gesù per intervento dello Spirito di Dio,
dovrebbe trovare spazio nell’Islam, almeno sul piano formale, un concetto
similare a quello di “Figlio di Dio”. In astratto e potenzialmente è vero, ma
questo passo ulteriore la teologia islamica non l’ha mai fatto. Anzi, l’Islam
ha nettamente separato la concezione da parte di Maria per intervento divino da
una possibile divinizzazione di suo figlio. Il Corano, ferma restando l’esaltazione
della grandezza di Gesù - a differenza di Muhāmmad, infatti, egli col permesso
di Dio ha compiuto miracoli (Sura 5, 110) – nel quadro del rigido monoteismo ha
anche effettuato una chiara e formale presa di distanza dal trinitarismo
cristiano:
«O Gente del Libro! non siate stravaganti nella vostra religione e non
dite di Dio altro che la verità! Che il Cristo Gesù figlio di Maria non è che
il Messaggero di Dio, il suo Verbo che egli depose in Maria, uno Spirito da lui
esalato. Credete dunque in Dio e nei suoi messaggeri e non dite: Tre! Basta! E
sarà meglio per voi! perché Dio è un Dio solo, troppo glorioso e alto per avere
un figlio! A lui appartiene tutto quel ch'è nei cieli e quel ch'è sulla terra,
Lui solo basta a proteggerci!» (Sura 4, 171).
Il sacro testo islamico presenta una
cristologia adozionista forse non casuale (osservazione che nessun fedele
musulmano farebbe, ma che viene spontanea a ogni studioso di religioni che non
creda nella rivelazione coranica). Pochi sanno che il primo a incoraggiare
Muhāmmad circa la veridicità delle rivelazioni da lui ricevute fu il
cognatoWaraqa ibn Naufal, che era un cristiano non ellenista (infatti leggeva
le Scritture in aramaico), probabilmente un giudeo-cristiano. D’altro canto
sono in pochissimi a focalizzare il fatto che quando Muhāmmad iniziò la sua
predicazione, nella penisola araba c’erano stati ben sei secoli (600 anni!) di
presenza di un Cristianesimo arabo – inizialmente giudeo-cristiano a cui si
aggiunsero poi influenze ariane, nonché nestoriane e anticalcedoniane.
Molte tribù beduine avevano abbracciato il
Cristianesimo, fermo restando che sul livello qualitativo di questa adesione –
oltre a non saperne quasi nulla – si possono nutrire dubbi a motivo della
travolgente vittoria islamica nella Penisola araba, quand’anche conseguita con
le armi. I principali centri di irradiazione del cristianesimo in Arabia furono
l’Abissinia, lo Yemen e la Siria. Verso il 570 il generale cristiano Abraha,
muovendo dallo Yemen e cercando di conquistare la Mecca, aveva invaso l’Higiaz,
regione in cui già esistevano almeno due tribù cristiane (i Giudàm e gli
Udhra). Anche alla Mecca vi erano dei cristiani,
e alcuni appartenevano alla principale tribù cittadina, quella dei Quraish
(cioè la stessa del profeta Muhāmmad).
Molto attivi nel proselitismo erano gli
anticalcedoniani, che avevano fondato varie chiese e, lungo le strade percorse
da pellegrini, anche monasteri. Lo stesso dicasi per i Nestoriani, che avevano
anche istituito delle scuole in molte città arabe. Naturalmente tutte queste
divisioni e rivalità non giovavano affatto all’ulteriore estensione ed al
radicamento del Cristianesimo tra le popolazioni locali. Tuttavia
particolarmente i Nestoriani ottennero buoni successi temporanei, grazie al
prestigio conseguito dal loro monastero di Hira (costruito nel V secolo), tanto
che durante la gioventù di Muhāmmad proprio il re di Hira, Numán, si convertì
al Cristianesimo nestoriano.
Ci si può chiedere come mai – nonostante una
tale consolidata presenza – la crisi spirituale in cui versava la penisola
araba quando Muhāmmad iniziò la sua predicazione non avesse trovato sbocco nel
Cristianesimo. Probabilmente ciò non è avvenuto per almeno due ragioni: a)
l’eccessiva identificazione esistente in quel tempo fra il Cristianesimo e
l’Impero bizantino; e quindi, in ragione dei legami istituzionali fra Chiesa e
Impero, con la non astratta conseguenza di finire in vincoli di dipendenza
politico/spirituali da Costantinopoli in caso di conversioni di massa al
Cristianesimo; b) l’eccessiva complicazione teologica provocata dal livello a
cui erano giunte le controversie cristologiche; avendo presente il grado di
incomprensione a cui si era giunti fra teologi alessandrini, antiocheni e
costantinopolitani, è facile immaginare la difficoltà richiesta dal cercare di
fare capire a interlocutori di lingua araba di che si stesse trattando e quale
profitto ne avrebbero potuto ricavare aderendo al Cristianesimo.
Probabilmente non è sbagliato sostenere che la
motivazione sub a) esercitò un forte ruolo negativo soprattutto nella parte
settentrionale della penisola araba. Per le relazioni abbastanza strette e
frequenti con la vicina Siria gli Arabi erano ben al corrente di quanto
accadeva ai dissidenti religiosi di quel paese a opera delle autorità
bizantine: persecuzioni violente e feroci, espulsione di monaci e civili,
prigioni e torture. E anche verso gli Arabi cristiani non ortodossi
l’atteggiamento di Costantinopoli fu improntato a un’autolesionistica
prepotenza. Esempio tipico fu quanto accadde al capo arabo Harith, di simpatie
– diciamo – “monofisite”, che era stato prezioso alleato dell’Impero d’oriente
contro i Persiani nelle guerre per il controllo della Siria. La sua vicenda
attesta altresì l’entità dei progressi fatti anche in ambito cristiano-arabo
dal monoteismo rigido, e quindi quanto fosse fertile il terreno per la successiva
predicazioni islamica. Nel 536. infatti, Harith si recò a Costantinopoli
sottoponendo all’Imperatore una dichiarazione teologica dottrinariamente
bizzarra, ma proprio per questo interessante. In essa a un certo punto si
diceva che
«La Trinità è una Divinità, una
Natura e una Essenza; quelli che non accetteranno questa dottrina devono essere
colpiti da anatema».
Di fronte alla ripulsa dei teologi bizantini
Harith li tacciò di eresia. La triste sorte di suo figlio Mundhir che, pur
essendo stato un fedele e prezioso alleato di Costantinopoli, vi finì tradotto
in catene scatenando così una rivolta araba contro i Bizantini, fu un ulteriore
scacco per l’Impero romano.
Come ha scritto Adolf Schlatter,
«la Chiesa giudea si estinse solo in
Palestina, ad ovest del Giordano. Comunità cristiane con costumi giudei
continuarono a esistere, invece, nelle regioni orientali: nella Decapoli, nella
Batanea, tra i nabatei, nella periferia del deserto siriano e anche in Arabia,
completamente isolate dal resto del cristianesimo (...). Nessuno dei leader
della Chiesa imperiale poteva immaginare che stava per arrivare il giorno in
cui questo cristianesimo da essi disprezzato avrebbe sconvolto il mondo e
distrutto una gran parte del sistema ecclesiale da essi costruito; quel giorno
arrivò quando Mohammed fece propria l’eredità conservata dai cristiani di
origine ebraica – la loro coscienza di Dio, la loro escatologia che annunciava
il giorno del Giudizio; i loro costumi e le loro leggende – e in qualità di
“Inviato di Dio”, dette vita a un nuovo apostolato».
Circa la morte di Gesù sulla croce, il Corano
contiene una posizione di tipo docetista (cioè fondata sull’apparenza), negando
che sia stato lui a salire sulla croce:
«Hanno detto: Abbiamo ucciso il Cristo, Gesù figlio di Maria, messaggero
di Dio, mentre né lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai
loro occhi simile a Lui ... ma Iddio lo innalzò a sé, e Dio è potente e saggio»
(Sura 4, 157-58).
A prenderne il suo sarebbe stato o Simone il
Cireneo o Giuda Iscariota (!). Comunque nella teologia islamica la questione
non ha dato adito a soverchie problematiche anche per il diverso ruolo che
viene attribuito a Gesù nell’economia globale dell’Islamismo. L’Islam sunnita attende la seconda venuta di
Gesù in una cornice apocalitica, come Mahdi
nel gorno del giudizio finale e universale. Il detto sunnita “non abbiamo altro
Mahdi che Īsā” esprime la polemica contro gli gli sciiti, per i quali
invece il Mahdi sarà l’Imam nascosto.
Spesso i musulmani di una certa cultura, per
sostenere la concezione musulmana su Gesù con fonti extracoraniche – il che sul
piano formale ha sempre un certo effetto, trattandosi di riferimenti “non di
parte” – si richiamano al cosiddetto Vangelo
di Barnaba.
Secondo gli studiosi occidentali esso non
andrebbe però confuso con l’apocrifo omonimo menzionato nel Decretum Gelasianum della fine del V
secolo, che con tutta probabilità si riferiva a un altro testo, i cosiddeti Atti di Barnaba. Quand’anche costoro si
sbagliassero, si tratterebbe sempre di un’opera tarda. Infatti il Vangelo di Barnaba a cui fanno
riferimento gli islamici risulta essere un’opera di gran lunga posteriore di
cui fu scoperto un manoscritto nella Biblioteca Papale nel 1590, e l’opera fu
poi citata per la prima volta dal filosofo irlandese John Toland (1670-1722) nel 1718
in una controversia fra cristiani e musulmani.
Questo Vangelo di Barnaba sostiene che Gesù
non era figlio di Dio, ma un semplice profeta venuto tra gli uomini, mentre
Mohammed era il profeta per eccellenza. L’autore vi si definisce uno degli
apostoli ma il testo è pieno di anacronismi, errori grossolani sulla storia e la geografia della Palestina del primo
secolo, improbabili riferimenti
a costumi e concetti sconosciuti ai tempi di Gesù, e anche alcune contraddizioni
rispetto al Corano. L’autore dimostra anche una certa ignoranza del greco,
negando a Gesù il ruolo di Messia, e nello stesso tempo chiamandolo “Cristo”,
che poi è la stessa cosa. A febbraio di quest’anno (2012) l’agenzia turca Anadolu e il quotidiano Hurriyet hanno dato notizia della
scoperta, da parte della polizia turca, di un’antica Bibbia (vecchia di almeno
1.500 anni) scritta in aramaico che contiene il Vangelo di Barnaba e del fatto
che su di esso il Vaticano ha chiesto di poter effettuare una perizia. Il
Tribunale di Ankara ha inviato questo reperto al Ministero della Cultura, il
cui titolare Ertugrul Gunay ha annunciato che dopo il restauro ci sarà
l’esposizione pubblica del libro.
Comunque sia, fin
dai primi tempi dell’Islam nella polemica contro i Cristiani ha trovato uno
spazio sempre maggiore la tesi delle manipolazioni effettuate sui testi
evangelici; tema che l’esegesi evangelica moderna si ritrova davanti non
esistendo più gli originali. Inizialmente l’accusa era fatta estendendo arbitrariamente
all’Antico Testamento e ai Vangeli lo stesso modello di formazione del Corano:
vale a dire la rivelazione a un profeta di un testo bell’e fatto, poi trasmesso
di generazione in generazione. Si prescindeva, quindi, dal diverso iter di formazione storica dei testi
biblici.
Uno dei punti
cardine di questa polemica islamica riguarda l’asserito preannuncio che Gesù
avrebbe fatto della successiva venuta di Muhāmmad. In buona sostanza, si
asserisce che Gesù avrebbe annunciato l’invio di un períklutos, ovvero di un “degno di lode”, che a seguito della
manipolazione è diventato il paráklitos,
il consolatore, cioè lo Spirito Santo. In arabo períklutos è ahmad,
parola che fa parte del nome di Muhāmmad.
Questa tesi pervenne
a un livello qualitativo ben maggiore nell’Iberia musulmana del X-XI secolo con
Ibn Hazm (994-1064). Nel suo Kitâb
al-Fisal (Libro della distinzione) egli innanzi tutto fece una ben fondata
notazione: l’assenza negli stessi Vangeli usati dai Cristiani di varie
caratteristiche della loro religione, come il passaggio del giorno festivo
settimanale dal sabato alla domenica, l’abolizione della circoncisione e il
permesso di mangiare carne di maiale e altri cibi proibiti dalla Legge mosaica,
atteso che lo stesso Gesù aveva dichiarato (Mt. 5, 17) di non essere venuto ad
abrogare la Torah. Inoltre Ibn Hazm
sottolineò con vigore come riguardo ai Vangeli fossero assenti quei rigorosi
criteri di verifica testuale e delle testimonianze inerenti ai testi che invece
erano stati adottati dai primi Califfi quando si trattò di effettuare una
sicura collazione dei versetti coraniche e dei detti (hadith) di Muhāmmad affinché i fedeli disponessero di un testo
unico e non opinabile. La logica quindi la sua conclusione:
«sebbene i
musulmani siano obbligati a onorare la rivelazione ricevuta da Gesù, non
possono essere certi che una qualsiasi parte dei Vangeli sia l’autentica
riproduzione di questa rivelazione».
Al riguardo si deve
ricordare anche l’apporto critico contenuto nel Kitâb al-milal wa’n-nihal (Libro delle religioni e delle sette) di
ash-Shahrastânî (m. 1153), al quale non sfuggì il ruolo di Paolo di Tarso
nell’aver scompigliato la realtà del Cristianesimo dopo essersi autoeletto
apostolo.
In merito all’essere
da tempo stabilmente musulmani i paesi in cui maggiore era stata la diffusione
del Cristianesimo (Anatolia, Siria, Palestina e Transgiordania, Egitto e Africa
settentrionale) si possono fare delle considerazioni almeno di tipo “formale”,
partendo da un dato di fatto: la grande espansione islamica, di quella che si
potrebbe chiamare l’ondata araba – con ciò intendendosi non tanto la conquista
quanto il radicamento – ha riguardato territori asiatici, nordafricani e
iberici che non erano certo tra i più arretrati nel vecchio Impero romano. In
essi l’islamizzazione non è avvenuta mediante l’uso della forza, anche perché i
conquistatori arabi ricavavano forti introiti fiscali dalla popolazione
cristiana (ed ebrea), essendo essa sottoposta a un regime di protezione in
qualità di “gente del Libro” (ahl a-kitāb):
sono i dimmiyyun (i protetti) e a
fronte di questo status devono pagare
annualmente (Cor. 9, 29) una tassa fondiaria (kharág), se proprietari di terre, e una capitazione personale (gizyah). Di modo che l’interesse dei
nuovi dominatori per le conversioni in massa era palesemente antieconomico.
Non può non balzare
all’attenzione una coincidenza: dei territori oggetto di conquista musulmana –
comprendendo le aree della successiva espansione turca (selgiuchida prima, e
ottomana poi) si sono profondamente islamizzate quelle ostili al governo di
Bisanzio e in cui prevalevano interpretazioni dei Cristianesimo “non-ortodosse”
per Costantinopoli e Roma (Arianesimo, Nestorianesimo, Monofisismo), oppure concezioni
di tipo manicheo (il Bogmilismo in Bosnia, Macedonia, Bulgaria). Di fronte
all’Islamismo ci si sarebbe aspettati una forte resistenza a motivo del fatto che
tutte e tre queste forme di Cristianesimo “eterodosso” esprimevano comunque
gradi diversi di “divinizzazione” di Gesù. Ma così non è stato.
C’era forse qualcosa
nelle teologie di queste forme di Cristianesimo che all’atto pratico ha
favorito la resa al monoteismo radicale dell’Islam, che si presentava come
sintesi e inveramento delle precedenti religioni “abramiche”, a prescindere da
dato esteriore dell’appassionata partecipazione popolare alle dispute
teologiche? Capirlo oggi non è per nulla facile, e si può solo argomentare –
senza presumere che i risultati siano verificabili o falsificabili – sulla base
dei pochi dati disponibili. Al riguardo privilegiamo quelli ideologici, atteso
che le motivazioni socioeconomiche dell’ostilità a Costantinopoli non
giustificano l’avvenuta islamizzazione, massiccia e stabile. Sul piano
ideologico colpisce una costante: tutte e tre le forme di Cristianesimo di cui
trattasi, pur con presupposti diversi, erano ostili all’equilibrio trinitario
di tipo bizantino. E nelle loro cristologie in vario modo il divino finiva col soverchiare
nettamente l’umano. Talché – non essendo in grado di sapere come il vissuto
popolare avesse inteso il significato delle varie posizioni “eterodosse” – si
potrebbe pensare che (agevolata dalla grande considerazione coranica per Gesù)
la negazione islamica della sua piena divinità passasse in secondo piano in
ambienti dove predominavano concezioni in cui la natura divina non si mescolava
(o mal si mescolava) con quella umana.
Inoltre, per gli
ambienti in cui era prevalso il monofisimo c’è da domandarsi fino a che punto
nel sentire popolare fosse ben chiara la “distinzione” fra persona del Padre e
persona del Lógos, oggettivamente
tutt’altro che facile da tradurre in termini accessibili partendo dalle
raffinate, elaborate e complesse concettualizzazioni conciliari.
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Īsā ibn Maryam; Gesù figlio di Maria
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