IL CONTRASTO TRA CHIESA CATTOLICA E ORTODOSSA
La
questione del contrasto fra Chiesa di Roma e Chiesa ortodossa è tutt’altro che
conosciuta, e al riguardo i mass-media italiani ancora una volta sono impegnati
più in un’opera di banalizzazione che d’informazione. Rassicuriamo subito: non
parleremo delle differenze teologiche fra queste Chiese, ma di vicende
storiche. Molte di esse sono antiche, altre sono contemporanee. L’antichità nei
Balcani, nel Levante, nell’Est, nella Mezzaluna Fertile ecc. non è un problema:
può essere un “ieri” se ancora perdurano gli effetti di accadimenti in sé
lontani nel tempo. Ma c’è un accadimento-base che non è mai cessato e che, per
quanto mimetizzato sotto pelli d’agnello, ancora lo si vede bene: è la volontà
di comando del Vescovo di Roma sul mondo cristiano (primato di giurisdizione),
e soprattutto su una Chiesa che per certi aspetti il Vaticano ritiene più
vicina delle Chiese nate dalla Riforma.
La frattura fra le due
Chiese
Dopo le traumatiche separazioni
ecclesiali e gli anatemi causati dalle controversie cristologiche nell’VIII
secolo, il quadro di quel che restava della vecchia Chiesa unita non era dei
migliori: per le mutilazioni subìte e per il fatto che i Patriarcati orientali
e il Patriarcato di Roma - in linea di massima alleati durante i conflitti
teologici - finiti gli avversari interni si trovarono a fare i conti con una
disunione latente, in parte nascosta dalle crisi precedenti e che veniva
progressivamente alla luce. Emergevano tutte le divaricazioni spirituali, teologiche,
ecclesiologiche e organizzative sviluppatesi nel frattempo, determinanti per la
successiva scissione tra la Chiesa romana e Chiesa ortodossa bizantina.
Naturalmente esplicarono un
ruolo di rilevo anche elementi di natura politica, ma la loro importanza viene esagerata
dalla pubblicistica cattolica (ma anche da una certa stampa laica), che a
tutt’oggi non vuole ammettere che le cause non contingenti del conflitto erano
(e sono) di natura spirituale, teologica ed ecclesiologica, e minimizza quel
che divide. Tant’è che - pur essendo mutato da vari secoli il quadro politico -
il contrasto religioso rimane, e rimane la separazione. Detto in sintesi per
evitare dolori di testa ai lettori, i Cattolici non condividono fondamentali
posizioni teologiche degli Ortodossi, e viceversa. Due mondi diversi, quindi:
uno metafisicamente orientale, l’altro di matrice europea occidentale. Per una
ipotetica riunificazione ciascuna delle parti dovrebbe rimettere in discussione
componenti essenziali del proprio patrimonio culturale.
Lo scenario storico
Dopo che in maggioranza le componenti
egiziane, siriane, armene ed etiopi ebbero abbandonato la grande Chiesa unita,
quest’ultima si trovò ad essere principalmente di formazione greca e latina. La
sua parte orientale era strutturata in quattro patriarcati - Costantinopoli,
Alessandria, Antiochia e Gerusalemme - che con quello di Roma formavano la
Pentarchia stabilita dal canone 28 del Concilio di Calcedonia.
In Occidente la situazione si
era sviluppata in modo del tutto peculiare a motivo degli accadimenti politici
ivi verificatisi. L’Impero romano fin dal III secolo era articolato in due parti,
Impero d’Occidente e Impero d’Oriente, e nel 476 Odoacre (434-493), capo della
popolazione germanica degli Eruli stanziatasi in Italia, aveva deposto l’ultimo
imperatore occidentale, Romolo detto “Augustolo” (459-476). Odoacre, però,
formalmente governava sotto l’autorità nominale dell’Imperatore d’Oriente
insediato a Costantinopoli. Da un punto di vista strettamente giuridico,
quindi, l’Impero si trovava teoricamente riunificato sotto lo scettro
bizantino. La realtà era ben diversa, in quanto sull’Italia, sulle Gallie,
sull’Iberia e sul Nordafrica (maghrib) a comandare davvero erano i
barbari.
In questa situazione, la Chiesa
d’Occidente - sempre più egemonizzata dal Patriarca di Roma - aveva finito col
rappresentare per le popolazioni locali (le meno cristianizzate dell’Impero, si
badi) l’unico punto di riferimento nel marasma provocato dai cosiddetti “regni
romano-barbarici”. Si trattava di un punto di riferimento sempre più autonomo -
sotto ogni aspetto - da Costantinopoli e dai Patriarcati d’oriente, tanto che
il Patriarca romano era giunto ad arrogarsi un proprio potere temporale su Roma
sulla base di quel documento falso, costruito nelle sue stesse cancellerie (evidentemente
non per mera iniziativa di uno zelante impiegato), noto come Donazione di Costantino a papa Silvestro
(dal 314 al 335). Un potere de facto,
cioè, fondato sul nulla storico e giuridico. Tuttavia su tali basi i Patriarchi
di Roma divennero i veri capi della Chiesa occidentale.
La progressiva trasformazione
del ruolo di questo Patriarcato non ebbe analogie, e nemmeno fu accettata,
nell’Oriente cristiano. Anche se spesso vescovi orientali si rivolsero a Roma
con richiesta di interventi arbitrali nelle loro controversie, ai cristiani dei
territori bizantini, e tanto meno a quelli dei territori in mano ai musulmani, non
passò mai per la testa che il Patriarca di Roma fosse il capo di tutta la Chiesa.
Per motivi storico-politici legati a ciò che aveva significato Roma in passato,
quel Patriarca aveva solo un primato d’onore, peraltro condiviso col suo
“collega” di Costantinopoli. A parte temporanee interruzioni di rapporti nel
corso delle dispute cristologiche, non ci furono mai veri e propri scismi fra
questi due mondi. I germi effettivi della crisi tra Roma e Costantinopoli si
formarono soprattutto nel V secolo, seppure all’inizio in modo latente; quando cioè
a Roma cominciò a manifestarsi l’ideologia per cui il Vescovo di Roma sarebbe
stato il successore di Pietro, assunto per ciò che non era mai stato: cioè Vescovo
di Roma. Gli Apostoli, infatti, non erano vescovi locali.
Negli ambienti romani l’ideologia
del primato ebbe ulteriori arricchimenti, nel senso che non solo Pietro sarebbe
stato il primo papa di Roma, ma addirittura il capo dei dodici Apostoli! Un
falso storico che solo nell’Occidente dell’epoca - immerso nelle tenebre della
barbarie e dell’ignoranza - poteva attecchire (ma il problema è che attecchisce
ancora oggi…). Non fu un caso, quindi, che a Calcedonia i rappresentanti del Patriarca
di Roma rifiutassero di accettare il canone 28, poiché l’affermazione della
Pentarchia patriarcale si scontrava con lo sviluppo della concezione
teorico/pratica del primato romano, inteso non come struttura onorifica e di
mero diritto ecclesiastico, bensì come realtà avente al suo interno un principio
gerarchico, e di diritto divino. È di tutta evidenza come ciò comportasse un contrasto
anche ecclesiologico, poiché la tradizione della vecchia Chiesa indivisa era
fondataa sull’uguaglianza delle funzioni sacramentali dei vescovi.
Il fatto poi che nel secolo VI
i patriarchi di Costantinopoli assumessero il titolo di “Patriarchi ecumenici”
(portato a tutt’oggi) agli occhi dei papi non faceva che sottolineare il ruolo
- per essi negativo - di Costantinopoli come contraltare di Roma in Oriente.
Tuttavia, nonostante questo formarsi di elementi antitetici l’unità bene o male
(forse piú male che bene) resse fino al IX secolo. Il contrasto vero e proprio
esplose per cause teologiche - create da ragioni politiche - non direttamente
connesse con la questione del primato romano, e venne favorito dalle mutate
situazioni di forza tra l’Occidente europeo e Costantinopoli. Infatti,
l’indebolirsi del potere politico e militare bizantino in Italia, le difficoltà
di Costantinopoli alle prese contemporanenamente con le aggressioni degli arabi
e dei bulgari, i torbidi e le lotte di potere entro i confini dell’Impero
aggravate dalla crisi iconoclasta, fecero sì che i Patriarchi di Roma
cercassero appoggio contro i longobardi - e potenzialmente contro
Costantinopoli - nel Regno dei franchi. E quando questi barbari d’oltralpe
travolsero i longobardi, si ebbero tutte le condizioni per un duraturo asse
politico/religioso fra loro e i papi. Parallelamente, ad aggravare la
divaricazione fra i due blocchi di Chiese fu la progressiva ma inarrestabile
grecizzazione dell’Impero bizantino. Si trattava ormai di due mondi divisi da
lingua, cultura, tradizione religiosa e concezione della Chiesa. Il quadro si
aggravò per la decisione di Costantinopoli (durante la lotta all’iconoclastia)
di sottrarre alla giurisdizione di Roma le Chiese delle zone ancora greche
dell’Italia - Sicilia, Calabria e parte meridonale della Penisola - e
dell’Illiria, la cui giurisdizione aveva acquisito durante il periodo
iconoclasta.
Si era così creata una miscela
esplosiva che ebbe un detonatore negli interessi politici di Carlo Magno
(747-814) il quale dette inizio alla controversia sul Filioque nel Credo. Per una migliore comprensione di quanto
avvenne, bisogna fare un passo indietro.
L’alterazione latina del Credo
Nella Chiesa delle origini si
era consolidata l’usanza di far recitare ai neofiti una confessione di fede
sulla Trinità-Unità di Dio e sull’Incarnazione. Quasi ogni Chiesa locale aveva un
proprio Credo, finché il secondo Concilio ecumenico non definì il Credo di
tutta la Chiesa, cioè il Simbolo detto niceno-costantinopolitano. Il terzo
Concilio ecumenico ne proibì ogni aggiunta e modifica, decretando che la
comunione tra le Chiese dipendeva dall’accettazione del Simbolo nella sua
interezza e integrità. Nessun problema fino al VI secolo, quando alcuni Concili
locali iberici - cioè di una Chiesa che non brillava affatto per cultura
teologica - interpolarono nel Credo il termine Filioque a proposito della
collocazione dello Spirito Santo, che in tal modo veniva a procedere dal Padre
e dal Figlio. Credendo in questo modo di dare maggiore e più efficace base teorica
alla lotta contro l’Arianesimo - ormai problema solo occidentale a motivo della
conversione al Crisitianesimo ariano dei popoli barbari stanziatisi in Italia,
Gallie e Spagna. Secondo quei vescovi iberici, attribuendo al Figlio un ruolo
pari a quello del Padre nella collocazione dello Spirito Santo si disponeva di
un’arma in più per contrastare le tesi ariane, senza rendersi conto che in tal modo,
oltre a non risolvere nulla, creavano in prospettiva problemi ulteriori. L’aggiunta
fu poi recepita nelle Gallie, mentre a Roma il patriarca Adriano I (dal 772 al 795)
rifiutò di accettarla; e così fu fino al IX secolo. Non solo: papa Leone III
(dal 795 al 816), per porre fine all’abuso, fece addirittura incidere il testo
originario del Credo su tavole d’argento, poi affisse in pubblico. Sulle prime
la questione non turbò molto le Chiese orientali, forse perché contenuta nei
limiti di Chiese locali considerate barbare e ignoranti. Ma entrato in scena
Carlo Magno (747-814) il quadro mutò, e il problema del Filioque divenne contemporaneamente un affare di Stato e una fonte
di turbamento dei rapporti teologici fra latini e orientali ortodossi.
Agli occhi di molti suoi
contemporanei Carlo Magno fu un usurpatore di territori dell’Impero romano,
ancora esistente con capitale Costantinopoli, guidato da un Imperatore che sul
piano giuridico era diretto discendente degli antichi Cesari, e quindi titolare
di diritti che si estendevano automaticamente alla parte occidentale del
vecchio Impero, per quanto occupata dai barbari. Di tutto questo Carlo era
perfettamente consapevole e infatti inizialmente cercò di instaurare buoni
rapporti con Costantinopoli, sperando di ottenere quel riconoscimento che gli
era necessario per la legittimità formale. Quando si rese conto dell’inutilità
degi sforzi (ne fu esempio il fallimento del suo tentativo di sposare l’imperatrice
Irene) dette il via ad una politica di contrapposizione frontale con
Costantinopoli, ricorrendo all’arma a quei tempi più efficace: l’accusa di
eresia.
Egli fece quindi del Filioque
una bandiera di battaglia in quanto, con assoluta faccia tosta, accusò i
sovrani bizantini di essersi staccati dalla vera fede per avere eliminato il Filioque
dal Credo e per l’uso delle immagini (si vedano i Libri Carolini,
inviati da Carlo a Adriano I nel 792). L’iniziativa fu appoggiata da vari vescovi
e teologi occidentali, pur se non ancora avallata da Roma. I fautori del Filioque
facevano riferimento alla particolare teologia trinitaria di Agostino di Ippona
(354-430) e a certe espressioni di alcuni Padri della chiesa isolate dal
contesto di appartenenza. Le accuse di Carlo Magno non potevano che suscitare
le reazioni della Chiesa orientale, poiché violavano i dettami dei Concili
ecumenici. Inoltre agli orientali, ampiamente dotati di teologi ben preparati,
non sfuggiva che con quell’aggiunta al Credo - oltre a effettuarsi
unilateralmente modifiche al comune Simbolo della fede - si rompeva il delicato
equilibrio trinitario realizzato dai Concili, col rischio perdere il senso
della Tri-Unità e di ridurne l’efficacia nella vita spirituale dei fedeli
(difatti nel Cattolicesimo il ruolo dello Spirito è alquanto fantasmatico).
Questa prima fase della
contrapposizione si attenuò, comunque, quando, per interessi politici e sia
pure con qualche riserva, l’imperatore di Costantinopoli riconobbe l’impero di
Carlo Magno sull’Occidente. Ma la teologia del Filioque continuò ad
affermarsi in Occidente, anche perché meglio fondava la pretesa del primato
papale quale “vicario di Cristo”. Infatti, la subordinazione metafisica dello
Spirito al Figlio eliminava il pericolo del formarsi nella Chiesa latina di
realtà carismatiche con pretesa di sfuggire al controllo della gerarchia papale
per il fatto di essere animate dallo Spirito divino.
Nel 1014 ci fu la definitiva
approvazione di Roma: papa Benedetto VIII (dal 1012 al 1024) recitò il Credo
con l’aggiunta del Filioque in occasione dell’incoronazione
dell’imperatore Enrico II (973 o 978-1024).
Ma altre cause - oltre al
consolidarsi del primato di giurisdizione dei Patriarchi di Roma e al Filioque
- si andavano sviluppando in senso dirompente.
Fozio e Cerulario
Nuovi contrasti si ebbero con
Fozio, patriarca di Costantinopoli, e con l’evangelizzazione degli Slavi. Nell’anno
857 Ignazio (797-877), patriarca di Costantinopoli, per intervento dell’Imperatore
Michele III (842-867) fu deposto dalla cattedra patriarcale. Oggi la cosa può
sembrare scandalosa, ma in quell’epoca sia in Oriente sia in Occidente non si
negava all’Imperatore il diritto di supervisione sulle nomine patriarcali. A Ignazio
succedette Fozio (820-891), un ex funzionario civile, uomo tra i più colti di quel
periodo. Sul piano della forma le cose si svolsero con regolarità, poiché Fozio
ascese al Patriarcato solo dopo le dimissioni del predecessore. Tuttavia un
gruppo di avversari convinse Ignazio a ritirare le dimissioni. A questo punto fu
chiesto l’arbitrato di Roma, che fino ad allora non era mai intervenuta in questioni
disciplinari interne ai Patriarcati.
Roma rifiutò di riconoscere
l’ascesa di Fozio e inviò legati a Costantinopoli, con una lettera del papa
Nicola I (dal 858 al 867) in cui egli rivendicava il suo diritto al controllo
sulle attività di tutte le Chiese locali. Nella stessa lettera si faceva capire
che Roma avrebbe potuto riconoscere Fozio a condizione che le province
ecclesiastiche dell’Italia meridionale, dell’Illiria e della Sicilia fossero
restituite alla giurisdizione papale. Nell’851 si tenne a Costantinopoli un Concilio
locale che, per quanto presieduto dai legati romani, sentenziò in favore della legittimità
della nomina di Fozio. Nicola I, che in Occidente stava sopprimendo vari diritti
dei Metropoliti, colse lo spunto del persistere di una piccola opposizione a
Fozio per annullare (senza averne il potere per gli Orientali) le decisioni del
Sinodo costantinopolitano, intimando a Ignazio e Fozio di presentarsi a Roma.
Trattandosi di una procedura non sancita da alcun preesistente Concilio
ecumenico, Costantinopoli non rispose neppure alla richiesta. Intanto nei
rapporti tra le due maggiori sedi patriarcali si inseriva, in termini
conflittuali, la questione della conversione delle popolazioni slave al Cristianesimo.
Rinvigoritasi e rifiorita dopo la
fine della crisi iconoclasta, la Chiesa di Costantinopoli si era impegnata in
un’intensa attività missionaria, foriera di frizioni con la Chiesa latina. Va detto per completezza
che (come al solito) l’attività - oltre a essere considerata un dovere religioso
primario - serviva anche a rendere meno aggressivi i popoli confinanti,
conseguendo obiettivi di pace per l’Impero e aumentandone l’influenza politica,
culturale, economica e militare. Con le popolazioni slave in procinto di
aderire al Cristianesimo, sia Roma sia Costantinopoli si rendevano conto
dell’importanza che la conversione fosse opera di missionari dell’una invece
che dell’altra Chiesa.
Un ruolo importantissimo lo
svolsero i fratelli Cirillo (m. 869) e Metodio (m. 885) di Tessalonica, che
tradussero in antico slavo la Bibbia. Essi furono inviati in Moravia, su
richiesta del locale principe Ratislavo, da cui Costantinopoli contava - in
cambio di aiuto contro i Tedeschi - di essere a sua volta aiutata dai Moravi contro
i Bulgari (all’epoca ancora di ceppo turco), che premevano sulle frontiere
settentrionali.
Il successo di Cirillo e
Metodio fu grandissimo, e altrettanto dicasi per la gelosia del clero germanico
in Moravia, che aveva introdotto la liturgia latina e il Credo con l’interpolazione
del Filioque. Questo allarmato clero accusò di eresia i due fratelli. Cirillo
e Metodio ricorsero contro questa ridicolaggine a Roma, dove i successori di
Nicola I, cioè Adriano II (dal 867 al 872) e Giovanni VIII dal 872 al 882), li
accolsero con favore essendo entrambi preoccupati per l’eccessiva autonomia
arrogatasi dai vescovi tedeschi. Tuttavia dopo un’invasione ungherese nel 906,
la Chiesa slava della Moravia subì i colpi del clero latino, che
progressivamente soppresse gli usi slavo-bizantini. Nel 1096 l’ultimo baluardo
non latino, il monastero di Sazava in Boemia, venne latinizzato.
Ben più gravi e importanti risvolti
ebbe la conversione dei Bulgari. Il sovrano bulgaro Boris (852-889), in un
primo tempo in corrispondenza con Roma, nell’864 accettò il battesimo da
sacerdoti bizantini e addirittura chiese all’imperatore Michele III di fargli
da padrino. Quando però pretese di avere un patriarca per il suo popolo e gli
fu opposto un rifiuto, si rivolse di nuovo a Roma, da cui nell’866 vennero inviati
due vescovi latini con una lettera di papa Nicola I a Boris nella quale si
lanciavano accuse ai Greci e lo si metteva in guardia sul fatto che il Patriarca
di Costantinopoli si sarebbe allontanato dalla vera tradizione. Questa slealtà
romana scatenò le ire dei Bizantini e Fozio nell’867 convocò a Costantinopoli
un Sinodo in cui venne condannato il gesto del Papa romano e si accusarono i
missionari latini di vari errori teologici tra cui l’uso del Filioque (peraltro
all’epoca non ancora ufficialmente accettato da Roma). Fozio ruppe quindi i
rapporti con Roma.
Nello stesso anno morì Nicola II
e Fozio fu deposto dal nuovo imperatore Basilio (867-888). Alla cattedra
patriarcale di Costantinopoli tornò Ignazio, ma questo non attenuò la polemica
antilatina di Fozio; e quando nell’869 il bulgaro Boris cambiò di nuovo idea e
cacciò dal suo territorio il clero latino, inserendo definitivamente il suo
popolo nell’area bizantina, Ignazio ne accolse entusiasticamente il voltafaccia.
Alla morte di Ignazio nell’878 Fozio ridiventò patriarca e ristabilì la pace
con Roma. Giovanni VIII (872-882) insieme ai vescovi bizantini condannò l’introduzione
del Filioque nel Credo. Pace temoranea, però. La grande e definitiva
frattura si avvicinava, e con il patriarca costantinopolitano Michele Cerulario
(1000-1059) ci fu la tappa ulteriore. Fino al 1053 i rapporti fra Roma e
Costantinopoli erano stati abbastanza normali, ma in quest’arco di tempo a Roma
il papato si era trovato in un periodo di decadenza, mentre la sede
costantinopolitana aveva conosciuto una fase di fulgore sotto la dinastia
macedone (867-1056). Tale era in quel momento la grandezza politica e religiosa
di Costantinopoli che non si dette molto peso neppure all’ufficializzazione del
Filioque, avvenuta ad opera di
Benedetto VIII (dal 1012 al 1024). In realtà durante questo periodo Roma e
Costantinopoli si erano più che altro ignorate reciprocamente, finendo col
perdere in termini esistenziali il senso dell’unità ecclesiale ed
ecclesiologica: Roma aveva trasferito nel papato il criterio della verità,
mentre Costantinopoli aveva mantenuto immutata la dottrina secondo cui è l’intera
Chiesa a esserne depositaria, normalmente esprimendola attraverso i Concili
ecumenici.
C’erano anche due fattori a
giocare un ruolo rilevante: a) alla
cattedra di Roma non salivano più uomini appartenenti alla vecchia cultura
mediterranea, la stessa - in fondo - dei Bizantini, mediante la quale, alla fin
fine, nonostante gli screzi e i dissapori ci si poteva intendere; ormai i papi
di Roma erano prelati nati e cresciuti in Germania o in Francia, stranieri per
gli Italici come per Greci; b) il
movimento della riforma cluniacense, in espansione, era per il rafforzamento ulteriore
del potere papale, per la sua supremazia sulla Chiesa, sostenuto da un clero
celibatario a lui obbediente e libero da controlli civili. Il fatto che gli
avversari del celibato ecclesiastico si richiamassero sovente all’esempio dei
sacerdoti Greci creava altri motivi di potenziale dissidio tra i due mondi,
ciascuno dei quali era ormai convinto della propria superiorità nei confronti
dell’altro.
L’occasione per una nuova crisi
- anche se non si trattò ancora di un nuovo scisma - lo fornirono i Normanni
d’Italia, chiamati da papa Benedetto VIII per aiutarlo contro gli Arabi di
Sicilia e i Bizantini. I Normanni si erano impadroniti dell’isola, erano
penetrati fortemente nell’Italia meridionale e miravano a impadronirsi delle
residue province bizantine nella penisola. Una minaccia, quindi, sia per
Costantinopoli che per il Papa. Per conseguenza, papa Leone IX (dal 1049 al
1054) cercò di stringere rapporti più stretti con Costantinopoli. Nel 1054
inviò all’Imperatore bizantino una delegazione incaricata di concludere l’alleanza guidata dal cardinale Umberto di
Mourmontiers, vescovo di Silva Candida (1010-1063). La presenza di Umberto non
fu tra le più propizie per il buon esito della missione, in quanto Michele
Cerulario già in precedenza si era scontrato con lui per questioni liturgiche e
per le pretese di supremazia papale. La delegazione pontificia fu ben accolta
dall’Imperatore, mentre Cerulario le fu immediatamente ostile e avanzò sospetti
sull’autenticità delle credenziali dei delegati papali, giacché papa Leone IX
si trovava prigioniero dei normanni. Da parte sua Umberto di Silva Candida ebbe
la “delicatezza” di far capire all’Imperatore che la possibilità di alleanza con
Roma era subordinata alla sua completa sottomissione al Papa. Quando il 19
aprile giunse notizia della morte di
Leone IX in prigionia, Cerulario dichiarò che per lui le credenziali non
avevano più valore e cessò i contatti con la delegazione. A questo punto
Umberto agì di sua iniziativa: il 16 luglio 1054, poco prima dell’inizio della
liturgia, entrò in Santa Sofia e depose sull’altare una bolla di scomunica, non
già contro tutti i fedeli delle Chiese d’Oriente ma solo contro Cerulario, l’Imperatore
e qualche altro personaggio. Ciò fatto, Umberto uscì dalla cattedrale scrollandosi la polvere dalle scarpe in segno
di massimo disprezzo. La bolla di scomunica, oltre a contenere accuse
menzognere e assolutamente risibili, accusava il clero ortodosso di aver
mutilato il Simbolo di fede sopprimendovi il Filioque. La risposta di
Cerulario fu immediata: un Concilio locale a sua volta scomunicò Umberto e gli
altri delegati papali. In merito a questo scambio di scomuniche ad personas,
in genere si fa notare che erano avvenute mentre la Sede romana era vacante e
non ricevettero poi nessuna conferma (ma anche nessuna smentita). Comunque non si
ebbe la sensazione di una rottura definitiva.
Le Crociate e lo scisma vero e proprio
La situazione precipitò con le Crociate.
In genere non ci si rende ben conto in Occidente di quanto grande sia stato il
loro effetto traumatico per la Cristianità orientale (oltre che per il mondo
islamico, ovviamente): una vera e propria e devastante invasione barbarica. Dal
canto loro, i rozzi e incolti occidentali venuti a contatto con Costantinopoli
reagirono male al fatto di essere di fronte a una realtà assai diversa da
quella cui erano abituati, e le stesse chiese bizantine sembravano loro appartenere a una religione
diversa. Alle popolazioni dell’Impero i Crociati offrirono il volto del
saccheggio, dello stupro, della violenza più brutale, della devastazione e del
massacro, e territori giuridicamente sottoposti a Costantinopoli divennero
bottino della loro rapacità. Inoltre - cosa importante ai fini della
ricostruzione della sequenza dello scisma effettuato dalla Chiesa latina - nei
territori conquistati dai Crociati le gerarchie ecclesiastiche bizantine
vennero forzatamente sostituite da vescovi e preti occidentali. Un momento
fondamentale nell’accelerazione di tale processo si ebbe nel 1100 con la
cacciata da Antiochia del Patriarca Giovanni il Greco. Tale era il clima dell’epoca
che quando nel 1103 il Normanno Boemondo da Taranto (1050/58-1111), viaggiò per
l’Europa al fine di reclutare un esercito con cui combattere i Bizantini
considerati scismatici (!), questa idea non apparve per nulla assurda o
peregrina.
Con la Quarta Crociata ci fu la
catastrofe. I Crociati si inserirono nella controversia tra Alessio, figlio del
deposto Imperatore Isacco Angelo (1156-1204), e l’usurpatore Alessio III
(1195-1203). Invece di dirigersi verso la Palestina, d’accordo con Venezia
attaccarono Costantinopoli e installarono Alessio sul trono. Tuttavia costui, a
causa dello stato di penuria del tesoro imperiale, non poté mantenere le
promesse economiche avventatamente fatte ai suoi alleati latini. E quando nel
1204 il popolo di Costantinopoli si sollevò e uccise il nuovo Imperatore, i Crociati
- già rabbiosi per il mancato guadagno - entrarono nella città e la misero
selvaggiamente a sacco, devastando anche chiese e monasteri. Mai più la città -
prima della conquista turca - tornò all’antico splendore. Il ricordo della
prostituta ubriaca che danzava nuda sull’altare di Santa Sofia cantando canzoni
oscene, mentre i Crociati devastavano la cattedrale, è rimasto emblematico del solco
di sangue creatosi fra Cristiani latini e ortodossi, e continuato in seguito.
Patriarca di Costantinopoli diventò arbitrariamente un vescovo occidentale, Tommaso
Morosini, e si formò un effimero Impero latino d’Oriente, la cui vita
ingloriosa cesserà nel 1261. Infatti i Greci ricostituirono su una parte
limitata dei vecchi territori un debole Impero bizantino, poi distrutto nel
1453 dalla conquista ottomana. Il periodo in cui i Bizantini subirono l’oppressione
politica e religiosa dei Latini, pregiudicò qualsiasi tentativo successivo di
riunione fra le due Chiese, e inoltre, nel periodo antecedente alla vittoria
turca si svolse un’importantissima controversia teologica che sancì
definitivamente l’esistenza di due mondi religiosi separati: la cosiddetta
“controversia palamita”. Per la sua complessità non è il caso di parlarne qui;
d’altro canto la bibliografia abbonda.
La rottura definitiva
L’ultimo tentativo di ricomposizione
si ebbe con il concilio di Ferrara-Firenze, risoltosi invece con la rottura
definitiva. Ricostituitosi a seguito di varie vicende un Impero bizantino per
opera di Michele VIII Paleologo (1223-1282), tutti gli Imperatori della nuova
dinastia coltivarono l’illusione di giungere a una riunione delle due Chiese
per ricevere aiuti militari dall’Occidente contro la crescente pressione turca.
Ciò in quanto i papi condizionavano ogni loro intervento di sostegno alla
previa soluzione del contrasto religioso.
Questi tentativi imperiali si
scontrarono con la parte della Chiesa ortodossa che era decisamente contraria
all’unione. Un primo tentativo ufficiale si ebbe nel 1274 con il Concilio di
Lione, che partorì una fittizia riunificazione non sopravvissuta al regno di Michele
VIII. In quell’occasione Michele era alle prese con la non teorica minaccia militare
di Carlo d’Angiò (1226-1285), re di Napoli. Ma grazie alla rivolta dei Vespri
siciliani l’Angioino si trovò del tutto impegnato nello sforzo di recuperare il
dominio sulla Sicilia, per cui i Bizantini stessi si affrettarono a ripudiare
l’unione.
Alla vigilia della conquista ottomana
si ebbe un nuovo tentativo, quando ormai l’ultimo imperatore bizantino,
Giovanni VIII (1392-1448), controllava solo la capitale, una sottile striscia
di terra sulla costa asiatica del Mar di Marmara e qualche zona della Grecia.
Nel 1437 Giovanni VIII giunse a Venezia con il patriarca di Costantinopoli
Giuseppe II (dal 1431 al 1439) e avviò i negoziati con papa Eugenio IV (dal
1431 al 1447). Il Papa convocò l’apposito Concilio a Ferrara, e nel 1439 l’assise
si trasferì a Firenze. Le Chiese ortodosse vi erano tutte rappresentate: anche
i Patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme avevano mandato propri
delegati, e per la Chiesa russa giunse il metropolita Isidoro (m. 1463). Tra i
delegati ortodossi non vi era affatto unità. Alcuni, guidati dall’Arcivescovo
di Nicea, Bessarione (1395-1472), erano favorevoli all’unità, anche per motivi
religiosi; ma altri, il cui maggiore esponente era Marco, arcivescovo di Efeso
(m. 14439), difendevano il mantenimento di un’antica tradizione spirituale e
rifiutavano di sottomettersi al Papa in materia religiosa. Tra gli argomenti affrontati nelle discussioni
c’erano naturalmente il Filioque, il Purgatorio (estraneo
all’escatologia orientale) e il primato romano. Sul primo argomento si
manifestò subito la vigorosa opposizione di Marco di Efeso, ma Bessarione e
altri delegati greci, sollecitati dall’Imperatore, accettarono la dottrina
occidentale; sul primato papale venne accettata la formulazione preparata da
Roma a condizione che venissero conservati i privilegi e i diritti dei Patriarchi
orientali. Fu quindi firmato l’atto di unione. Da tutti, tranne Marco di Efeso,
per questo poi chiamato o fílakas tis Orthodoxías (il guardiano dell’Ortodossia).
Bessarione diventerà cardinale della Chiesa di Roma.
Questa volta l’unione non rimase
solo sulla carta: quando i delegati ortodossi tornarono alle loro sedi si
scatenò un putiferio di grandi proporzioni. Le popolazioni e i monaci si
manifestarono subito ostili, anche in Russia, dove il metropolita Isidoro dovette
addirittura fuggire da Mosca per non essere linciato sul posto. Famoso è
rimasto lo slogan contro l’unione urlato dalla folla di Costantinopoli, per
quanto la città fosse virtualmente già assediata dai turchi: “Meglio il
turbante del Sultano che la tiara del Papa!”.
Con la conquista turca della
città nel 1453, di unione non si parlò più, e si aggravarono ulteriormente i
rapporti fra Chiesa di Roma e Chiese ortodosse; persecuzioni contro gli
Ortodossi nella parte orientale del vecchio Regno di Polonia; passaggi forzati
di comunità al rito orientale cattolico nei territori asburgici; sanguinose
rivolte anticattoliche; massiccia partecipazione greca alla marina ottomana in
lotta contro le potenze mediterranee cattoliche; grandi massacri di Ortodossi
in Iugoslavia durante la Seconda guerra mondiale; campagne cattoliche per la
“conversione” mediante i preti di rito orientale (detti spregiativamente
“uniati”); forzata riunione alla Chiesa ortodossa russa delle Chiese cattoliche
uniate nella Polonia orientale conquistata dall’Urss e in Ucraina, per ordine
di Stalin.
In aggiunta ricordiamo le
dogmatizzazioni della Chiesa cattolica, mai accettate dagli Ortodossi, su
struttura della Trinità, Purgatorio, eternità dell’Inferno, trasmissione della
colpa del peccato originale, dottrina delle indulgenze, Immacolata concezione,
primato di giurisdizione e infallibilità del Papa ex cathedra; e altri elementi, come distinzione fra “Chiesa
docente e Chiesa discente”, celibato ecclesiastico, assunzione del Tomismo a
teologia-filosofica ufficiale, ruolo sacramentale dei laici, indissolubilità
assoluta del matrimonio.
Dopo il Concilio Vaticano II si
è dato inizio a un pretenzioso quanto sterile ”dialogo ecumenico”, dai
contenuti teologicamente confusi, per lo più a livello di vertice -
dimostrandosi con ciò di non aver imparato la lezione di tanti secoli fa a
Firenze, e ripetendo gli stessi errori. Tutto sommato un innocuo palcoscenico
per l’esibizione ipocrita di tronfi prelati delle due parti, tutti incapaci di
usare il sincero schema discorsivo indicato da Gesù (“sì sì, no no”). Un
ulteriore solco, alla fine del secolo scorso, si è creato per il rilevante
contributo dato dal Vaticano nell’innescare l’incendio iugoslavo.
Nella basilica di S. Pietro a Roma i visitatori distratti
passano davanti a una tomba che rappresenta meglio di ogni altra cosa le
vicende di certi rapporti interecclesiali: nella navata di destra, appena
entrati, sulla sinistra si trova la tomba monumentale di un Vescovo cattolico
uniate; sul coperchio c’è la statua che ne riproduce le fattezze, coperta dai
paramenti liturgici orientali. Costui operava nella parte est del vecchio Regno
polacco, e tante ne aveva fatte contro la popolazione ortodossa che un giorno
questa si ribellò e gliela fece pagare cara: lo crocifisse sulla porta della
sua chiesa. Fino a quando quella tomba rimarrà dove si trova si può star sicuri
che nulla è cambiato, per quanto non si ritenga “politicamente corretto” dirlo.
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