Cosa è successo prima
Preliminarmente va chiarito che il Mali è uno dei classici
frutti della spartizione coloniale disegnata a tavolino con attribuzione di
indipendenza solo formale: costituito nel 1960, è uno Stato fasullo, per non
dire fallito, con povertà diffusa, economicamente subordinato alla Francia e
con grossi problemi etnici al suo interno. Anche qui corruzione diffusa a tutti
i livelli, a partire dal coinvolgimento di politici maliani nei traffici di
armi, droga ed esseri umani, compreso il fatto che l’ex presidente Amadou
Toumani Touré e i suoi ministri hanno intascato milioni di dollari ricevuti dal
Fondo monetario internazionale per la lotta contro l’Aids.
Al momento dell’intervento francese il governo del Mali
aveva perso il controllo su circa il 60% del territorio a motivo della rivolta
separatista dei Tuareg del Nord. I numeri della popolazione Tuareg sono
controversi anche per la mancanza di censimenti capaci di dirimere la
controversia: si va da un totale di 3.000.000 alla cifra più bassa di circa
1.600.000: essi sono stati divisi dalla spartizione coloniale in ben 5 Stati:
Mali, Algeria, Niger, Burkina Faso e Libia. In Mali sarebbero tra i 400.000 e i
500.000.
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Tuareg del Mali in un campo profughi (fotografia di Pino Bertelli, gennaio 2013) |
A fine gennaio dello scorso anno i Tuareg maliani avevano
dato un forte impulso alla lotta armata contro il governo del Paese, contro cui
combattevano da anni. L’impressione era che i Tuareg fossero guidati dal Mnla o
Movimento per la Liberazione dell’Azawad, nome con cui essi designano il Nord
del Mali. In questa regione – abitata da varie popolazioni essenzialmente
nomadi: Tuareg, Arabi, Peul, Sonrhaïs – i Tuareg lamentano di essere vittime di
pesanti discriminazioni che ne fanno cittadini di serie B.
Verso la fine di marzo 2012 Toumani Touré è stato deposto
da un golpe militare guidato dal capitano Amadou Sanogo, ma il governo di
transizione – teoricamente capeggiato da Diocounda Traoré come Presidente (il
Primo ministro è Cheick Modibo Diarra) - è sprofondato nel caos politico
(conflitto fra Traoré e Diarra) aggravato dal fatto che i Tuareg, malamente
alleatisi con vari gruppi islamici jihadisti e successivamente da questi
soverchiati, avevano praticamente conquistato tutto l’Azawad, comprese le città
di Kidal, Gao e Timbuctu. Di questa alleanza si parla almeno da gennaio dello
scorso anno, e a febbraio – dopo i massacri efferati compiuti dai ribelli nella
città nord-orientale di Aguelhock – fu il ministro francese per lo Sviluppo,
Henri de Raincourt, a denunciare il ricorso dei ribelli a metodi tipici di al-Qaida.
Il governo francese non condannò il golpe di Sanogo, e
anzi in certi ambienti si diffuse l’opinione che in realtà la Francia giocasse
due carte nella partita maliana: cioè che appoggiasse sia i ribelli Tuareg
dell’Mnla sia i golpisti di Bamako. I Tuareg dell’Mnla sono presto entrati in
conflitto con i jihadisti, subendo una sconfitta che ha fatto cadere nella mani
di questi ultimi quasi tutto l’Azawad. Oggi – almeno in base alle dichiarazioni
rese il 14 gennaio di quest’anno da un esponente dell’Mnla, Moussa Ag Assarid –
i militanti di questa organizzazione (presenti ancora nell’estremo Nord del
paese) sarebbero disposti a unirsi alle forze francesi nella lotta contro i
jihadisti. Se ciò fosse (e forse così sarà) la partita doppia attribuita a
Parigi diverrebbe palesemente più complicata.
Dei jihadisti la stampa internazionale ha diffuso varie
notizie, soffermandosi sulla situazione di tipo talebano imposta nei territori conquistati
(rigida applicazione della loro interpretazione della sharía, semireclusione per le donne,
niente musica né gioco dal calcio, alcoolici manco a dirlo ecc.). Meno note
sono invece le gesta dei Tuareg, all’opposto dello stereotipo dei “romantici
Uomini Blu” ancora radicato nell’immaginario collettivo occidentale (saccheggi,
stupri, arruolamento forzato di bambini, detenzioni arbitrarie, esecuzioni
sommarie e quant’altro).
Ombre sul ruolo della Francia antecedente
all’intervento
Il ruolo della Francia nella rivolta tuareg risulta
dall’esterno notevolmente ambiguo. Nello specifico va detto che c’è stato uno
zampino francese in tale rivolta (così come probabilmente è stato per la
rivolta di Bengasi in Libia). È dall’aprile dello scorso anno che si vocifera
di un accordo tra il governo francese e l’Mnla: quest’ultimo, a fronte del
sostegno politico, finanziario e strategico francese si sarebbe impegnato a
ripulire la zona dai jihadisti e a garantire l’affidamento delle risorse
petrolifere dell’Azawad a società francesi. Palesemente si è verificata una
situazione diversa, e qualcosa è andato storto. Resta però aperto
l’interrogativo su chi abbia fornito ai Tuareg le armi e la logistica
necessarie a concretizzare la rivolta, che non è un gioco da bambini. Il
fornitore deve per forza essere di un certo calibro.
La questione però si complica, e assai, in una prospettiva
internazionale. Secondo il notissimo settimanale Le Canard Enchaîné non va affatto escluso un ruolo
dell’ormai famigerato emirato del Qatar nell’attività jihadista in Mali, e
della cosa sarebbe consapevole da molto tempo lo stesso governo francese.
Addirittura il 6 giugno dell’anno scorso Le Canard Enchaîné ha pubblicato un articolo dal significativo titolo “Il
nostro amico Qatar finanzia gli islamici del Mali”!
Tuttavia – e qui sta la complicazione – sempre secondo tale periodico sarebbero in atto trattative “discrete” tra il Qatar e la gigantesca società francese Total per coordinare lo sfruttamento delle risorse naturali maliane, con grande disappunto dell’Algeria, che non vede per niente di buon occhio l’espansione del Qatar, tra l’altro notoriamente finanziatore del radicalismo islamico (del quale gli Algerini curano ancora le ferite ricevute).
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Tuareg del Mali in un campo profughi (fotografia di Pino Bertelli, gennaio 2013) |
Si affaccia qualcun altro sullo scenario maliano?
Per il momento il ruolo della Gran Bretagna appare ancora
marginale. Dal ministro britannico William Hague sappiamo però che il suo paese
sta finanziando la costruzione di una base militare al confine algerino per la
lotta contro al-Qaida nel Maghreb.
In atto anche gli Stati Uniti sembrano restare fra le
quinte. Sembrano.
Se è difficile affermare che il golpista capitano Sanogo abbia legami attuali
con gli Stati Uniti, al di là dell’aver ricevuto una formazione militare a
Quantico, in Virginia, più facile è invece affermare l’interesse statunitense
per il Sahel, ricco di giacimenti minerari e frontiera fra Africa araba e
Africa nera. Al riguardo abbiamo l’apporto del Washington Post, dove il 13 giugno 2012 è
comparso un articolo illuminante più per ciò che non dice. Secondo questo
giornale Forze Speciali Usa, con l’apporto di mercenari (contractors) e militari africani, sarebbero
all’opera in Mauritania, Nigeria e Mali con operazioni segrete in funzione
antislamista e con l’obiettivo di evitare il delinearsi di situazioni che poi
portino a scenari tipo Afghanistan e Iraq. Secondo il Washington Post, gli Stati Uniti hanno costituito
una rete di piccole basi aeree per azioni di spionaggio circa i movimenti degli
islamisti e per l’intervento di droni.
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fotografia di Pino Bertelli, gennaio 2013 |
Premessa di metodo circa il discorso sull’intervento
Per rispondere all’interrogativo posto dal titolo da noi
posto all’inizio, non è male utilizzare la distinzione interpretativa (tipica
in diritto) fra causa e motivo dell’azione. Non si tratta di due sinonimi,
giacché il primo termine attiene a qualcosa di strutturale, mentre il secondo
si inquadra nel contingente (per esempio, nella compravendita la causa è lo
scambio di cosa contro prezzo, il motivo è il bisogno di una certa cosa in un
dato momento).
Prima di applicare questa distinzione all’operazione
francese in Mali ricordiamo che in linea di massima esiste una regola non
scritta per cui sono le ex (?) vere potenze coloniali (cioè Francia e Gran
Bretagna) a fare fronte ai problemi che insorgono nelle ex (?) colonie, salvo loro
debordamenti di rilevanza strategica tali da implicare interventi di terze
forze di maggior calibro. Questa regola la Francia l’ha sempre gelosamente
difesa e messa in atto (si ricordi l’intervento nella crisi della Costa
d’Avorio) e d’altro canto è l’unico paese a tenere basi militari (come quella
di N’Djamena, da cui partono i raid aerei) nei vecchi territori coloniali;
nello stesso Mali dispone di basi a Bamako e Tessalit.
Il motivo dell’intervento francese risulta da un semplice
sguardo alla carta geografica. La posizione assolutamente strategica del Mali
nell’area subsahariana fa sì che la sua trasformazione in santuario di un
radicalismo islamico jihadista e in espansione – con la certezza che poi
tornerà a devastare l’Algeria, metterà a subbuglio Mauritania e Niger, potrebbe
agire in Marocco e Tunisia (ricordiamoci dell’Aqmi-al-Qaida per il Maghrib islamico) , creare
canali di collegamento con il Boko Haram nigeriano e magari creare in Egitto situazioni
ancor peggiori delle attuali, per fermarci qui – non sia tollerabile per la sua
pericolosità presente e futura.
Detto più sinteticamente, una vittoria dei jihadisti in
Mali destabilizzerebbe tutta l’area e aprirebbe loro la via a due direttrici di
marcia strategicamente rilevanti: verso il Maghreb e verso l’Africa
Occidentale.
Dal punto di vista formale la Francia ha l’appoggio
dell’attuale governo di transizione del Mali e sul piano “umanitario” ha a suo
attivo il fatto che i jihadisti sono considerati come la peste dalla maggior
parte della popolazione locale (i profughi sono più di 200.000), sia per la
loro violenza e le intollerabili condizioni di vita imposte nelle zone
conquistate, sia per l’essere portatori di un’ottusa concezione dell’Islam
estraneo alla religiosità maliana (molto influenzata dal sufismo).
Ai fini del consolidamento di ciò che definiamo il motivo,
sarà importante l’arrivo di contingenti di altri Stati africani dell’Ecowass
(Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), cioè di Burkina Faso,
Costa d’Avorio, Nigeria e forse Senegal. E soprattutto la ricostituzione della
capacità operativa dell’esercito del Mali.
A questo punto dobbiamo dire qualcosa proprio sui ribelli
islamisti. Il loro numero non è sicuramente elevato: potrebbero non arrivare ai
2.000 combattenti, non tutti maliani. Tra essi si trovano jihadisti algerini,
tuareg che erano stati agli ordini di Gheddafi, gruppi legati al traffico della
droga e criminali specializzati in sequestri di persona. Il numero però non è
significativo, poiché si dovrà vedere come se la caveranno fra le sabbie una
volta che abbiano perduto il controllo delle città in precedenza conquistate
d’impeto.
Che i jihadisti siano pochi non dice niente nell’immediato
e va pure evitato di considerarli un banda di sciamannati di poco conto,
eliminabili con semplici operazioni di polizia: si tenga presente che dei
combattenti possono dare filo da torcere al nemico se ben armati, equipaggiati
e addestrati oltre che adeguatamente motivati psicologicamente. Tutto questo
esiste già. I jihadisti sono degli esaltati sunniti, indottrinati da gente
saudita o del Qatar, finanziati dall’esterno, spietati con gli stessi musulmani
che non la pensino come loro. In più dispongono di una montagna di armi e
munizioni e di circa 200 pickup 4x4 armati. È prevedibile che sul piano
militare la partita per la Francia di rivelerà dura.
Con questa notazione dobbiamo rifarci all’abbattimento del
regime di Gheddafi (Mu’ammar al-Qadhdhaafii) in Libia. Nel caos politico
seguìto a questo avvenimento, con una visibile presenza del radicalismo
islamico in quel Paese, soldi e materiale bellico in grande quantità – sia
dell’esercito libico sia forniti dal Qatar ai ribelli anti-Gheddafi su
autorizzazione statunitense – sono finiti nelle mani dei jihadisti sahariani.
Sul piano della “catena di comando” non vi è dubbio che i ribelli maliani
dispongano dell’esperienza di terroristi sperimentati provenienti dall’Algeria,
dalla Mauritania, dalla Giordania e perfino dal Pakistan. Gente dura e abituata
a combattere.
La tentazione di fare un parallelo fra l’Afghanistan e il
Mali odierno esiste, a cominciare dal trattarsi di un territorio in sé ostile e
difficile per chi non sia abituato a viverci. Tuttavia – almeno allo stato
delle cose – si potrebbero opporre delle obiezioni di fondo. La distesa piatta
del Sahara nulla ha a che vedere con le montagne afghane: è più simile a un
immenso mare, il che rende il ruolo dell’aviazione, degli elicotteri da
combattimento e dei droni assai efficace. Vi è poi il fatto della
frammentazione dei ribelli maliani in più organizzazioni, quasi tutte
islamiche, ma non tutte: infatti oltre all’Ansar Dine (maliana), all’Aqmi
(algerina ma molto ramificata nel Maghreb) e alla Mujao (mauritana) esiste
sempre – seppure al momento sconfitta - anche l’organizzazione autonomista
tuareg Mnla, che si dice essere di impostazione “laica”, o comunque non
radicale islamica.
In base alla realtà di ciò che chiamiamo il motivo, con la
sua rilevanza strategica, Hollande può sostenere, con plausibilità formale e
apparente, che la Francia non agisce per suo calcolo economico e politico. E
d’altro canto il Mali per il suo Pil (prodotto interno lordo) è collocato dalla
Banca Mondiale al 170º posto su una lista di 192 paesi, come fornitore della
Francia si colloca al 165º posto e come suo cliente è l’87º, infine in quel
paese vivono solo 5.000 francesi.
La situazione, però, muta abbastanza se ci rivolgiamo alla
causa dell’intervento francese.
Cause e motivi dell’aggressione francese
Il Mali è una vera e propria cornucopia di materiali a
vario motivo preziosi. È ricco di petrolio e di risorse energetiche notevoli.
Nel Nord del paese – cioè proprio la zona di maggior subbuglio
politico/militare – ci sarebbe un mare di petrolio e gas in quattro bacini:
Taoudeni (presso Algeria e Mauritania), Tamesna (fra Mali e Niger), nella
regione di Gao e nella faglia di Nara. Inoltre a 60 km. dalla capitale Bamako è
stato scoperto un enorme giacimento di gas (98,8% idrogeno e 2% metano e azoto)
a soli 107 m. di profondità, dal quale in prospettiva potrebbe partire
l’approvvigionamento per tutta l’Africa occidentale a prezzi incredibilmente
più bassi degli attuali. Nel sottosuolo, inoltre, contiene oro e di recente è
stata inaugurata la miniera di Kodieran, da cui potrebbero essere estratte
1.000 tonnellate al giorno. Possiede anche il coltan (materia prima per la
fabbricazione di telefonini) e per quanto riguarda l’uranio nella zona di Falea
(a 350 km. a occidente di Bamako) è stato scoperto un enorme giacimento che,
secondo le valutazioni riportate da Le Figaro, sarebbe di almeno 12.000
tonnellate, seppure al momento giaccia dove si trova per le difficoltà
ambientali finora non superate dalle imprese interessate allo sfruttamento.
Certo è che se il Mali cadesse nelle mani dei jihadisti ogni prospettiva futura
sfumerebbe del tutto, con l’aggravante (non solo per la Francia) del notorio
uso che si fa dell’uranio.
Tutte queste risorse fanno gola a varie imprese del
settore e le hanno richiamate in territorio maliano. Ricordiamo, oltre alla Petroma (Societé d’exploitation du
Mali), la
francese Total,
le canadesi Bumigeme e ABF Mines, l’algerina Sonatrach (mediante la sua controllata Sipex
Internationale)
nonché l’italiana ENI.
Tutta la critica situazione maliana si proietta inoltre
sull’importantissima Algeria (come dimostra il recente attacco jihadista
all’impianto di In Amenas, in atto mentre scriviamo), fornitrice all’Europa del
20% del fabbisogno di gas naturale, e sul Niger, paese il quale (povertà
sociale a parte) è nel mondo il quarto fornitore di uranio, in particolare per
la Francia alla quale – tramite l’Areva, società pubblica – invia un buon terzo
dell’uranio usato dai 58 reattori nucleari del gruppo francese Edf. Non si
trascuri il fatto che in quel paese la medesima Areva è impegnata nell’apertura di una
gigantesca miniera di uranio a Imouraren, in prospettiva la seconda miniera del
mondo dalla quale si prevede l’estrazione di almeno 5.000 tonnellate all’anno.
Esiste poi la Mauritania (altro paese poverissimo) in cui
la francese Total (già
impegnata in Nigeria e Angola) sta realizzando operazioni di sfruttamento di
sempre maggiore rilevanza economica (e non solo). La causa, quindi, fa da
struttura al motivo, e il motivo – pur con la sua autonomia - è legato alla
causa.
Una non-conclusione
Del Mali ci si dovrà interessare ulteriormente nel futuro
prossimo. Intanto va preso atto di quanto sia stato fallimentare per
l’imperialismo l’intervento in Libia, in sé e in prospettiva. Coniugando la
crisi maliana con le situazioni e i fermenti in atto nel mondo musulmano, non
vi è dubbio che lo scontro globale con il radicalismo islamico sia ormai ben
più di una prospettiva, dentro e fuori da quel mondo. Ma ancora una volta si
deve sottolineare l’inefficacia delle misure meramente militari per sconfiggere
i jihadisti & C (lasciando da parte per il momento considerazioni d’ordine
etico, sociale o giuridico).
Resta un punto interrogativo su chi potrà e vorrà
incentivare le misure politiche, economiche e sociali necessarie a tagliare la
metaforica erba sotto i piedi dei jihadisti. Sul piano degli auspici c’è solo
da sperare che gli Stati Uniti non intervengano con uno dei loro tipici “aiuti”
devastanti, in quanto la situazione è già abbastanza grave di per sé.
E proprio alla luce di quanto accaduto in Libia e di quanto
sta accadendo in Mali e del suo retroterra non casualmente il New York Times di recente ha sostenuto che
queste esperienze dovrebbero essere di monito per Obama riguardo all’ipotesi di
un intervento diretto in Siria, dove gli aiuti forniti via Qatar stanno
palesemente rafforzando i jihadisti che combattono con il cosiddetto “Esercito
Libero Siriano”, tenuto conto (a prescindere dal giudizio sul regime di
al-Assad) del disastro assoluto che sarebbe la caduta della Siria nelle mani di
forze che destabilizzerebbero tutto il Vicino Oriente, e non solo. Ma questa è
un’altra storia.
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