LA LIBERTÀ DI RELIGIONE E IL PROBLEMA DELL'APOSTASIA
Operare laicamente nelle società musulmane, in questi tempi di virulenza da parte dei radicali, non è agevole, ma nemmeno nei primi settant'anni del secolo scorso l'ambiente circostante era favorevole. I nemici sono sempre tre: l'estremo conservatorismo delle masse, voluto e custodito
dagli 'ulamā; l'attenta vigilanza di costoro per la preservazione del loro potere religioso, ponendosi e operando a guisa di clero, per quanto l'Islām escluda la formazione di una Chiesa; la necessità per il potere politico (generalmente arbitrario) di crearsi e mantenersi un sostegno religioso.
In ordine a questa triade è paradigmatico il caso di 'Alī Abd ar-Rāziq - qādī40 di al-Azhar e appartenente al mondo degli 'ulamā -, che a suo tempo fece notevole scalpore. Nel 1925, a ridosso dell'abolizione del Califfato deliberato dalla Turchia kemalista, ar-Rāziq pubblicò un libro dal titolo L'Islām e i fondamenti del potere (al-Islām wa usūl al-hukm). L'inquadramento temporale è importante, giacché la scomparsa del Califfato ottomano non aveva lasciato indifferenti Francia e Gran Bretagna (soprattutto la prima), giacché contavano che l'instaurazione di un nuovo califfato nella propria zona coloniale consentisse di rafforzare sul piano religioso il proprio potere sulle popolazioni locali. Conseguentemente Parigi e Londra suscitarono, rispettivamente nel sultano
del Marocco e nel re dell'Egitto, aspettative per l'acquisizione del Califfato che poi andarono tutte deluse. Quindi, di fronte alle manovre opportunistiche delle due grandi potenze coloniali su quell'istituzione plurisecolare, si poneva tra gli intellettuali musulmani l'esigenza di ripensarne l'effettiva valenza religiosa. Fu questo lo scopo del libro di ar-Rāziq. La sua importanza e la sua dirompenza stanno nell'essere un'opera squisitamente musulmana, formalmente non dipendente da influenze culturali europee e anzi basata sul Corano e sulla tradizione profetica. «Logicamente» il libro fu censurato dagli 'ulamā e per decenni considerato opera proibita, e il povero ar-Rāziq fu espulso dall'Università di al-Azhar, privato del titolo di dottore della Legge e quindi impossibilitato a insegnare e a svolgere le funzioni di qādī.
Il fatto è che ar-Rāziq, basandosi su precisi dati testuali, invece di limitarsi alla critica del Califfato nel suo sviluppo storico ne attaccò decisamente le stesse basi, svelandone l'impostura politica non suffragata da nessun presupposto religioso. E non solo. Egli disgiunse radicalmente la
funzione profetica di Muhāmmad da quella di capo della prima comunità musulmana, non trascurando la logica osservazione che in caso contrario sarebbe stato il medesimo Muhāmmad a lasciare precise disposizioni per il governo politico della ummah. Di modo che la duplice funzione assunta dal Profeta acquista un valore solo contingente, eccezionale e non ripetibile. Circa la sharī'ah, ar-Rāziq da un lato ha avuto la prudenza di non addentrarsi in percorsi pericolosi, ma da un altro ha scritto cose che finivano col relegarla in concreto nella sfera religiosa e spirituale, come nell'importante passaggio in cui afferma che «tutti gli articoli di fede e le regole della pubblica moralità e il sistema di sanzioni formano una realtà legislativa di ordine puramente religioso, rivolta a Dio e alla ricerca della salvezza nell'aldilà»41.
Parlavamo all'inizio di emblematicità del caso ar-Rāziq proprio perché la reazione al suo libro venne da quei poteri che con esso delegittimava: gli 'ulamā e il re egiziano Fuād. I primi (come corporazione di fatto) per aver legittimato il potere califfale, pur essendo in sé arbitrario; il secondo a motivo delle sue pretese a diventare il nuovo Califfo, rafforzando religiosamente il proprio potere tirannico, nonché per il non poter assistere inerte di fronte a una pesante implicazione dello smantellamento della legittimità del Califfato: la caduta della tradizionale posizione dei giuristi sunniti, per cui quand'anche il Califfo (e per estensione il capo temporale) sia pessimo governante, il suo solo essere custode della Legge islamica ne farebbe un male necessario e sopportabile.
Oggi nei paesi musulmani i laici costituiscono una galassia unita solo dall'aspirare all'avvento di sistemi laici e secolarizzati sul modello occidentale. In essa confluiscono liberali, socialisti, marxisti, nazionalisti, progressisti, atei, agnostici, musulmani e cristiani. Di per sé la loro capacità di incidenza non è delle maggiori, ma in società con forte presenza giovanile e tutt'altro che priva di aperture mediatiche verso il mondo esterno, e con gli effetti degli errori compiuti dagli islamisti, hanno per certi versi aumentato il loro peso. Molti intellettuali laici non rivendicano esplicitamente la laicità dello Stato (da qui le critiche degli ambienti specificamente di sinistra), per quanto essa emerga dai loro scritti e trovi conferma nell'approccio razionale alla religione. Si possono ricordare: i filosofi egiziani Nasr Hamid Abu Zayd e Fuād Zakariya, aperto sostenitore della laicità; il giurista tunisino Yadh ben Achour; il politologo siriano Burhan Ghaliūn, che ha però chiara l'impossibilità di instaurare un sistema alla francese; il filosofo marocchino Abdou Filali-Ansary, autore de L'Islam est-il hostile à la laïcité?, che non vede nell'Islām alcun ostacolo alla laicità; il giurista tunisino Muhāmmad Charfi, presidente della Lega dei Diritti Umani e ministro
dell'Educazione dall'89 al '94; Muhāmmad-Chérif Ferjani, cofondatore della sezione tunisina di Amnesty International; il siriano Bassam Tibi, docente di Relazioni internazionali all'Università di Göttingen, cofondatore dell'Organizzazione Araba per i Diritti Umani (al-munazzama al-'arabiya li-huquq al-insan) e promotore del Dialogo Islamico-Ebraico e del cosiddetto Triangolo di Córdoba per il dialogo ebraico-islamico-cristiano, il quale ha espressamente equiparato il fondamentalismo islamico a un nuovo totalitarismo, dopo lo stalinismo e il fascismo; il magistrato egiziano Muhāmmad Saïd al-Ashmawy; il siriano Muhāmmad Shahrur, ingegnere e docente universitario, sul cui capo le accuse di eresia sono cadute a pioggia in quanto portatore di un'interpretazione assolutamente radicale del Corano e della tradizione per renderli compatibili con le esigenze della vita moderna (dall'abbigliamento femminile all'eredità, nulla resta fuori dalle sue corrosive argomentazioni); il tunisino Abdalwahab Meddeb, direttore della rivista internazionale Dédale, docente di Letteratura comparata all'Università di Paris X e animatore della trasmissione «Cultures d'Islam», di France Culture. Con il dibattito avuto con quel controverso personaggio che è Ṭāriq Ramaḍān, a gennaio del 2008 ha ribadito - per conciliare l'Islām con la modernità - l'indispensabilità di una svolta verso la laicità e della liberazione da tutti gli arcaismi. Il che vuol dire superamento della sharī'ah, scomparsa del jihād e valorizzazione della componente spirituale ed etica alla maniera del Sufismo. Da qui il suo appello alla trasmutazione dei valori.
I laici attivi non hanno certo vita facile, nessuno li protegge dagli attentati dei radicali islamisti e le ostilità politico-religiose spesso li costringono all'esilio. Abū Zayd è in esilio, Ferjani, Arkoun e Ghalioun vivono in Francia, al-Ashnawy vive segregato per non essere ucciso come era accaduto al fondatore dell'Associazione Egiziana Illuminista, Faraj Fūda. L'accusa di apostasia è sempre pendente.
Anche negli Stati musulmani le cui leggi formalmente sanciscano la libertà religiosa (ma qui entriamo nella più ampia sfera della libertà di pensiero), abbandonare l'Islām per un'altra o per l'ateismo dichiarato finisce con l'essere assai pericoloso. I guai non nascono dalla teoria ma dalla pratica, in quanto in primo luogo gli apostati notori possono trovarsi alle prese con discriminazioni di vario tipo, come le complicazioni nell'accesso all'istruzione superiore per i non musulmani. E come in economia la moneta cattiva fa uscire dal mercato quella buona, così in altri campi gli esempi cattivi hanno una pericolosa tendenza a provocare imitazioni42. Ma quando si comincia a colpire la libertà di chi la pensa diversamente, poi viene il turno anche di coloro che, seppure non la pensino in modo formalmente eccentrico, tuttavia… non si sa mai. E così la libertà religiosa può essere limitata anche per i musulmani ortodossi - come nel caso egiziano - mediante l'imposizione dell'obbligo di leggere nelle moschee (in tutte o quasi), alla grande preghiera del venerdì, sermoni predisposti dalle autorità statali.
Prima di parlare della legislazione degli Stati a maggioranza musulmana sulla libertà religiosa e di coscienza, che non è uniforme, c'è da dire che in linea di massima prevale nei fatti la tendenza a discriminare i cittadini appartenenti ad altre confessioni religiose, o a limitarne le attività di culto e propaganda. Il che crea un forte senso di precarietà e d'incertezza - per il presente e il futuro -, anche a motivo della tendenza a identificare con l'Occidente le confessioni religiose cristiana ed ebraica. Dal punto di vista legislativo le norme più rigide sono quelle di Arabia Saudita, Comore, Iran, Libia, Mauritania, Sudan. In questi paesi vige la sharī'ah. In Iran particolarmente
pesante è il trattamento riservato ai Baha'i, considerati traditori dell'Islām e sottoposti a prevaricazioni di ogni tipo. In Arabia Saudita gli stranieri possono professare il loro Cristianesimo a condizione che non lo manifestino esteriormente e non posseggano oggetti religiosi. La pena per le violazioni va dalla fustigazione pubblica alla morte. Anche gli stranieri non musulmani sono però obbligati al rispetto del Ramadan. Nelle Comore dal 1987 è stata introdotta la Legge islamica, ma è applicata con estremo rigore e con la proibizione per i non musulmani di effettuare riunioni religiose, quand'anche in case private. Nel Sudan è frequente la pratica delle conversioni forzate e del rapimento di bambini cristiani per allevarli secondo la religione islamica.
La Costituzione dell'Egitto sancisce l'uguaglianza dei cittadini, ma l'Islām è la religione dello Stato e i princìpi della Legge islamica sono la fonte principale della legislazione. I cristiani copti (risalenti ai primi secoli del Cristianesimo: la fondazione della Chiesa egiziana è tradizionalmente attribuita a S. Marco evangelista) sono oggetto di discriminazioni e pogrom. In Indonesia la Costituzione garantisce pari dignità a cinque religioni (Cristianesimo incluso), ma è impedita la propaganda religiosa ed esistono tensioni sociali a volte sfocianti in pogrom contro i non musulmani. Un quadro fortemente discriminante si ha in Pakistan, con pesanti ricadute anche sul diritto di voto. Lì il principio «un uomo un voto» non è applicato. Nel 1985 il dittatore islamista generale Zia-ul-Haq divise l'elettorato per fede religiosa, in cinque gruppi (Islamici, Cristiani, Indù, Ahmadi e congiuntamente Sikh, Buddisti e Parsi), riservando a ogni gruppo un numero determinato di seggi, ma col divieto di votare candidati di altri gruppi. Non possono essere eletti altri candidati non islamici. Di recente si è adottato il cosiddetto sistema con «elettorato congiunto», cioè senza suddividere in gruppi religiosi gli elettori non musulmani.
Le situazioni migliori per i non musulmani esistono in Senegal che, pur avendo la popolazione in maggioranza musulmana, ha sempre difeso la laicità statale; in Marocco; in Siria, dove l'Islām non è religione di Stato: per la Costituzione la Legge islamica è solo una delle fonti di legislazione e Natale e Pasqua sono feste nazionali; Giordania; Libano; Bangladesh, dove l'Islām è religione ufficiale, ma non è vigente la sharī'a; Bahrein; Emirati Arabi; Oman; Qatar; Turchia. In Iraq la Costituzione attuale riconosce l'Islām come religione ufficiale e fonte primaria della legislazione, garantisce l'identità islamica della maggioranza del popolo iracheno e richiede che nessuna legge contraddica le «indiscusse» regole dell'Islām, ma nello stesso tempo richiede che le leggi non contraddicano i princìpi democratici e le libertà basilari. E poi ci sono le repubbliche asiatiche ex sovietiche, dove è prevalente un Islām pacifico e influenzato dal misticismo delle confraternite sufiche. Kazakistan e Kirghizistan sono Stati laici, il Turkmenistan garantisce la libertà religiosa.
Laddove vige la Legge islamica, oppure essa fa sentire la sua influenza trovandosi fra le fonti della legislazione, i problemi - oltre alla sfera della libertà di coscienza - riguardano (come detto) il diritto di famiglia, qualora non vi siano state in qualche modo delle aperture di tipo laicizzante. Sulla base di certe legislazioni locali che prevedono ancora statuti personali su base religiosa, nel caso di coniugi cristiani dei quali uno si converta all'Islām, la parte diventata musulmana potrebbe rivolgersi al tribunale per lo scioglimento del suo matrimonio, in conformità alla Legge islamica. Inoltre, se la conversione di uno dei coniugi avviene dopo una sentenza di separazione con alimenti in favore dell'altro coniuge pronunciata dal loro tribunale ecclesiastico, potrebbe rivolgersi al tribunale civile musulmano per ottenere l'abolizione dell'obbligo alimentare e comunque l'ineseguibilità della precedente sentenza. E se i coniugi appartengono a due confessioni differenti, quand'anche entrambe cristiane, potrebbero rientrare nell'applicazione della Legge islamica in merito alle loro controversie.
Per verificare se e fino a che punto nelle realtà sociali siano in corso effettivi processi di rinnovamento rispetto a certe loro tipiche modalità di essere, è utile considerare lo stato socio/culturale dei punti nodali sintomatici, più che l'atteggiamento dei custodi dell'ordine tradizionale, dai quali - non foss'altro che per interessi di potere - non c'è mai da aspettarsi alcunché. Uno di tali punti nodali sintomatici è dato dal modo di considerare la cosiddetta apostasia. Il rinnegamento dell'Islām (detto riddah o irtidad, e chi lo compie è chiamato murtadd) è considerato in modo terribilmente categorico da gran parte dell'opinione pubblica musulmana: l'apostata può e deve essere ucciso. Nei secoli questa convinzione si è così radicata che non era raro accusare taluno di apostasia per eliminarlo. L'intervento della magistratura ordinaria per dispensare condanne per apostasia ai musulmani che - pur restando spesso tali - esercitano il giudizio critico, è per noi occidentali un'aberrazione totale, ma non per i musulmani tradizionalisti, per i quali il Corano e la tradizione devono regolare la totalità della vita del credente fuori e dentro dalla moschea.
Ma vediamo che dice il Corano. Esso prende in considerazione tanto l'apostasia vera e propria, quanto l'incredulità o miscredenza di chi è entrato a far parte dell'Islām. Circa l'incredulità (al-kufr ba'd al-islam), in fondo meno grave dell'apostasia propriamente detta, vale il versetto 74 della sura 9 del Pentimento:
«Giurano per Dio di non aver detto nulla, eppure hanno parlato da miscredenti e dopo aver abbracciato l'Islām l'hanno rinnegato. Hanno cercato di attuare un piano che non è loro riuscito, e se l'hanno poi sconfessato è stato solo perché Dio, insieme al suo Messaggero, li ha arricchiti dei suoi favori. Se si convertiranno, sarà meglio per loro; se invece volteranno le spalle, Dio li punirà con un castigo doloroso in questo mondo e nell'altro; e qui in terra non avranno patroni né difensori»43.
Pur tuttavia il Corano non specifica la punizione per gli increduli. Dei quattordici passi che vi alludono, solo sette parlano di «castigo», e sempre in riferimento a qualcosa che avverrà nell'aldilà, mai durante la vita. In un caso (2,217) si parla del «fuoco eterno»; in un altro (2,161) della «maledizione di Dio, degli angeli e degli uomini tutti insieme»; e in quattro casi (3,91; 3,177; 5,73 e 16,106) di «castigo doloroso». In un solo versetto, nella sura del Pentimento (9,74), viene prescritto «un castigo doloroso in questo mondo e nell'altro». Invece per il furto o l'adulterio le pene sono indicate con precisione assoluta (ad esempio, il numero dei colpi di frusta). Per l'apostasia parla soltanto di «un castigo doloroso in questo mondo e nell'altro».
Naturalmente anche sull'apostasia sono possibili interpretazioni più liberali, come ad esempio quella dello sceicco egiziano Ahmed Subhi Mansūr, autore de Il castigo dell'apostasia, e di Adlabi, autore de L'uccisione dell'apostata. Il problema però risiede sempre nel margine di incidenza di queste opinioni meno intransigenti in rapporto ad altri settori di gran lunga meno liberali. Dal canto loro gli esegeti liberali del Corano circa l'apostasia finiscono con l'affermare un generale orientamento coranico nel senso della libertà religiosa e contro la costrizione a essere musulmani, facendo riferimento, oltre che alla già citata sura sul divieto di costrizione (2,256), alla sura di Giona (10,99-10): «Se il tuo Signore l'avesse voluto, tutti gli abitanti della terra avrebbero creduto. E tu vorresti costringere gli uomini a diventar credenti? Nessuno può credere senza il permesso di Dio»; e a quella della Caverna (18,29): «Di': la verità proviene dal vostro Signore, creda chi vuole, e chi non vuole neghi».
Queste ultime due sure sono meccane, corrispondenti cioè al periodo antecedente l'Egira (613) - la migrazione di Muhāmmad a Medina. Invece il testo della sura del Pentimento risale all'inizio del successivo periodo medinese. Il musulmano liberale argomenta che i versetti delle sure di Giona e della Caverna non sono stati abrogati dagli altri quattordici, che invece sostengono la punizione dell'apostata sia nell'aldilà, sia in questo mondo. Ma qui sorge una complicazione. L'abrogazione è stata sostenuta in passato da grandi giuristi, come ibn Hazm di Cordova (994-1063), della rigida scuola giuridica hanbalita. Di recente l'ex sceicco dell'università cairota di al-Azhar, Muhāmmad Shalabi, ha tranquillamente scritto:
«Noi non costringiamo l'apostata a ritornare all'Islām, per non contraddire la parola di Dio: "Nessuna costrizione in materia di religione". Ma gli lasciamo l'opportunità di ritornare, volontariamente, senza costrizione. Se non ritorna deve essere ucciso, perché è strumento di sedizione e perché apre la porta ai miscredenti, per attaccare l'Islām e seminare il dubbio tra i musulmani. L'apostata è quindi in guerra dichiarata contro l'Islām, anche se non alza la spada di fronte ai musulmani».
Shalabi, quindi, nega che l'apostata sia da uccidere in base ai versetti sull'apostasia, ma sostiene che debba essere ucciso in applicazione dei versetti 191-193 della sura 2 della Vacca:
«Uccideteli ovunque li incontriate e scacciateli da dove hanno scacciato voi, poiché la sovversione è peggiore dell'uccisione. Non combatteteli però presso il Sacro Tempio, a meno che non vi attacchino per primi: in tal caso, uccideteli. Ecco la ricompensa dei miscredenti! Ma se desistono, sappiate che Dio è indulgente e misericordioso. Combatteteli dunque finché non ci sia più sovversione, e la religione sia quella di Dio. Se desistono, non ci siano più ostilità se non contro gli iniqui».
Questo cambio di sura darà certamente sollievo agli apostati messi a morte!
CHE APERTURE SUL VERSANTE ISLAMICO?
Non tutti i musulmani colti - ma non laici - sono guareschianamente «trinariciuti» come vorrebbe la propaganda dei teorici dello scontro di civiltà o dell'islamofobia, esposta con giornalistica superficialità dalla defunta Oriana Fallaci. Non ci si deve quindi stupire trovando settori culturali islamici in cui, agendo dall'interno stesso della religione, si cerca di fare uscire la cultura musulmana dalla cristallizzazione in cui è finita.
Su questo versante possiamo collocare il saudita Sohaib Bencheikh, Gran Mūftī della moschea di Marsiglia, direttore dell'Institut supérieur des sciences islamiques (Issi), fra i più noti musulmani progressisti di Francia e membro del Conseil français du culte musulman. Democratico e rispettoso delle leggi repubblicane e della laicità dello Stato, è nemico dichiarato della deriva wahhabita e salafita, e in genere di tutti i gruppi musulmani che pretendono di imporre come unica la loro interpretazione letterale e oscurantista. Ha ferocemente criticato Ṭāriq Ramaḍān, attribuendogli una visione tra il dilettante e il fondamentalista dell'Islām, definendolo un tribuno carismatico, piuttosto che un teologo avvertito, e ribadendo che egli sostiene una visione totalitaria e integralista. Bencheikh propugna una riforma islamica attraverso un lavoro di desacralizzazione e di rilettura dei testi in base alla cultura moderna. Si è dichiarato a favore della legislazione francese contro l'uso di segni religiosi nelle scuole, sostenendo che la protezione della donna passa attraverso l'istruzione, e non l'uso del foulard. Nel 2006, quando scoppiò il caso delle caricature sul Profeta, si pronunciò a difesa della sacralità della libertà di espressione.
Su posizioni analoghe anche Dalil Boubakeur, algerino, esponente della comunità islamica in Francia e rettore della Gran Moschea di Parigi. Vanno pure ricordati l'algerino Muhāmmad Arkoun, considerato uno dei più importanti innovatori dell'interpretazione islamica, e il giurista sudanese Abdullāhi Ahmad an-Na'im, difensore dei diritti umani, influenzato dal movimento riformatore del connazionale Mahmud Tahā.
Ricco di personalità riformiste è l'Islām iraniano. Innanzitutto Mohsen Kadivar, filosofo e accademico religioso. Compiuti gli studi islamici a Qom (dove fu allievo dell'āyatollāh Hossein-'Alī Montazeri), ha insegnato in varie università islamiche e oggi opera nel dipartimento di filosofia dell'Università Tarbiat Modares. Critico della Repubblica islamica iraniana, ha scontato per questo 18 mesi di prigione. Dal 2000 è impegnato nei movimenti riformatori iraniani. Ha scritto importanti opere di teologia politica, di teoria dello Stato nella giurisprudenza sciita, sul governo per mandato e per nomina, ottenendo l'appoggio di un gran numero di āyatollāh. In contrapposizione alla teoria khomeinista del velāyat-e faqih, ha dimostrato che dalla teologia politica dello Sciismo sono ricavabili ben nove forme di governo diverse, e non solo quella khomeinista.
Abbiamo pure Farağollāh Dabbagh, conosciuto come Abdolkarim Sorush e detto anche il «Lutero iraniano». È uno dei maggiori esponenti del cosiddetto «postislamismo». Inizialmente appoggiò Khomeini e fece parte del Consiglio della Rivoluzione culturale. In seguito è diventato nemico giurato della commistione fra religione e politica. Egli si è posto una domanda comune a tanti altri intellettuali musulmani contemporanei: può esistere un'interpretazione definitiva dell'Islām? Esso è compatibile con la democrazia? La religione può avere un ruolo nella politica? La sua riflessione lo ha portato a vedere nella conoscenza religiosa una costruzione umana necessariamente soggetta a continue evoluzioni. Quindi si oppone alla trasformazione della religione in ideologia che limita la libertà.
Postislamismo - di cui oltre a Sorush un'altra importante personalità è Muhāmmad Moğtahid Šabstari - viene denominato un movimento intellettuale presente in Iran e Turchia che discute sulla fine dell'integralismo musulmano. Nato in seno al movimento riformista iraniano, considera la rivoluzione islamica un fallimento a ogni livello, sociale, economico e politico. Il postislamismo - in parte ispirato alla modernità laica - mette formalmente in discussione il primato della religione sulla politica. In Iran il movimento postislamista mette in discussione l'Islām politico, mentre in Turchia, dove buona parte della società è laica e non è disposta ad accettare forme di potere in nome della religione, sono gli islamisti a cercare modi di compromesso.
Mohammad Mojtahed Šabstari è un teologo e filosofo iraniano. Dal 1985 titolare della cattedra di Filosofia islamica all'Università di Teheran, si è fatto propugnatore di una conoscenza religiosa in continua trasformazione (in opposizione alla logica interpretativa letterale delle scritture, da sempre maggioritaria nell'Islām) e della necessità di integrarla con fonti culturali extrareligiose. Infatti, la possibilità di discernimento fra valori religiosi eterni e applicazioni contingenti richiede un tipo e grado di conoscenza non riducibile alla conoscenza religiosa in generale e alla Legge islamica in particolare. Per Šabstari essenziali ed eterni sono i valori fondamentali dell'Islām, ma non già per come siano stati formulati in un particolare periodo storico, incluso quello del Profeta, di cui rifiuta il riferimento acritico. Difensore dell'individualismo, della democrazia e dei diritti umani, Šabstari individua nella razionalità umana processi evolutivi da cui si sviluppano concetti sempre nuovi, che è vano ricercare nel Corano e nella Sunna, ma che non ne contraddicono necessariamente le verità ivi contenute.
I musulmani riformisti hanno lo stesso problema dei laici: la mancanza di appoggi politici, senza i quali storicamente nel mondo islamico nessuna corrente di pensiero ha mai trionfato, e venuto meno il quale le correnti prima vittoriose sono state travolte. Inoltre mancano loro una rete di trasmissione e comunicazione consistente come quella usata dagli islamisti, nonché la protezione fisica contro gli attentati dei radicali islamisti.
La pericolosità dei riformisti è ben maggiore di quella dei laici, in ragione dei caratteri delle società musulmane. Sono un pericolo per i governi, giacché sul versante politico il loro approdo è sulla sponda della democrazia e dei diritti civili; per gli 'ulamā come corporazione, in quanto lo smantellamento della loro dogmatica ne taglia alla radice l'importanza, il prestigio e il potere; per i conservatori in genere, per la critica al patriarcalismo; e infine per i radicali, disvelando quanto sia artefatto il loro «Islām delle origini» e che un'impostazione laica non è in contrasto con la rivelazione coranica e non è necessariamente l'acritica riproposizione di modelli occidentali.
Non vi è dubbio che la risultante di queste quattro ostilità abbia finora prodotto una certa marginalizzazione anche dei musulmani riformisti, ma la partita non è stata ancora tutta giocata, a prescindere dalle difficoltà e dalla virulenza dei radicali. I musulmani riformisti, a differenza dei laici, non sono costretti a giocare in difesa.
Nell'ambiente delle società islamiche il discorso laico puro non attecchisce al di fuori da ristrette cerchie occidentalizzanti (per non parlare dell'ateismo: si ricordi lo stallo in cui proprio per questo sono finiti i partiti comunisti, anche prescindendo dagli errori indotti dalla politica estera dell'Urss). Ragion per cui la loro incombenza preliminare sta nel dimostrare paradossalmente che l'Islām giustifica la laicità, mentre i riformisti non hanno affatto questa necessità.
I loro discorsi sono islamici, effettuano un'interpretazione coranica intelligente e funzionale ai tempi contemporanei, contestualizzano il messaggio rivelato e lo destrutturano per separare il contingente dal metatemporale; di quanto viene considerato contingente si cerca tuttavia di salvare lo spirito, e infatti massimizzano i contenuti spirituali ed etici rispetto alla massimizzazione della componente legalista fatta dagli 'ulamā tradizionalisti. Confutarli non è agevole: meglio anatemizzarli, confidando nella copertura del potere politico e nel fanatismo di masse ignoranti.
La fiducia di Abdelmajid Charfi su una riforma islamica che provenga proprio da ambienti religiosi islamici oggi come oggi può sembrare eccessiva. Tuttavia segnali positivi non mancano e non è senza rilievo che nel 2006 Gamāl al-Bannā (fratello del fondatore della Fratellanza Musulmana) abbia dovuto ammettere che
«nel mondo musulmano, la separazione dei poteri religioso e politico è una necessità assoluta. È complicata da raggiungere, data la collusione tra i regimi e le élite religiose conservatrici. Per quanto concerne la sharī'ah, nulla dice che sia un testo sacro. La sharī'ah è una base di lavoro, bisogna mantenerne le leggi compatibili con la nostra epoca e cambiare o eliminare le leggi che non sono, o non sono più, giuste. Il ritorno alle fonti non è un ritorno al Salafismo, ma alla ragione, alla saggezza dello spirito. Perché l'essenza dell'Islām, e direi anche di ogni religione, non è un testo sacro, ma il cervello umano. È l'uomo che prevale. E l'uomo è lo spirito, è la riflessione, è il rinnovamento. Privilegiando l'approccio inverso, statico, si perpetuano i miti. E ciò non porta da nessuna parte»44.
Non sono le parole di un progressista, ma innegabilmente una certa laicità vi ha lasciato il segno. Ambigua è tuttavia la posizione di un altro parente di Hasan al-Bannā, il nipote Ṭāriq Ramaḍān, di cui abbiamo ricordato l'essere oggetto di valutazioni contrastanti sia dentro che fuori dal mondo musulmano. Al di là della forma tutto il suo discorso può essere letto - come in effetti taluni sostengono - in termini cripto-radicali45.
LA CONDIZIONE DELLA DONNA E IL «FEMMINISMO ISLAMICO»
Il problema femminile va innanzitutto inquadrato in base al Corano. Le ricadute pratiche in àmbito sociale e famigliare vengono dopo, ma con un'avvertenza preliminare: la verifica teorica ha un grado di facilità che non trova riscontro nella sfera del concreto, dove è riscontrabile una serie enorme di variabili, funzionali alla diversità della media culturale e di sviluppo esistente nei singoli paesi islamici; e in essi funzionali alle differenze di ceto sociale e di apertura verso il mondo, alle varie contingenze storiche, all'esistenza e al relativo grado di traumi politico/sociali da cui derivi in modo diffuso il sentimento della necessità di difendere l'identità collettiva, ai tipi di educazione istituzionalizzata impartiti e alla loro incidenza psicologica ecc. ecc. E poi ci sono gli usi e costumi locali, di cui visibili esempi si hanno nei differenti abbigliamenti generalmente in uso: in Afghanistan le donne si erano tolte il burqa nell'euforica immediatezza della vittoria dell'Alleanza del Nord, salvo poi doverselo rimettere; nel Bengala, quand'anche si coprano il capo, mostrano la pancia fra il corpetto e la gonna, e a Giava mostrano entrambi; nel Senegal vanno a viso scoperto; nel mondo arabo - a parte alcune col viso coperto da un velo nero - la donna islamica che appaia come tale porta sul capo un foulard che le avvolge lateralmente il viso46; fra i Tuareg a velarsi il viso sono invece gli uomini. E si potrebbe continuare. Ad ogni buon conto, l'uso dei copricapo femminili non sempre corrisponde a imposizione famigliare o sociale, poiché indossarli equivale per molte donne a un'espressione di fede, ovvero delle dimensioni spirituali dell'essere, ed è segno identitario di pratica islamica. Un po' come accade per gli ebrei praticanti che se ne vanno in giro col kippah (lo zucchetto) sulla testa.
Nel Corano si parla delle donne in molte sure, e vengono affrontati vari argomenti, dal rapporto con i mariti all'abbigliamento, ai rapporti sessuali ecc. In termini sintetici può dirsi che se la posizione della donna è sostanzialmente pari a quella dell'uomo, nell'insieme, per quanto riguarda i rapporti con Dio, il quadro cambia invece per i rapporti famigliari e sociali. Il Corano e la Sunna delineano la non identità di posizione socio/famigliare fra uomo e donna e la sua subordinazione all'uomo. Ma attenzione al termine or ora usato: «identità». Lo rimarchiamo perché al riguardo gli esegeti islamici introducono un ragionamento che vuole essere sottile: appartenendo entrambi alla specie umana, uomo e donna hanno diritti «uguali»; poi si dice una cosa importante, e cioè che arbitrariamente i movimenti occidentali di emancipazione hanno reso sinonimi termini (e concetti) differenti, quali «identità», «equivalenza», «uniformità», trasformando in questo modo la qualità in quantità47.
Alla base di questo c'è una premessa. Fra uomo e donna non esiste solo una differenza fisica e fisiologica; anche i caratteri psicologici sono diversi, e questa diversità non è casuale, poiché consente alla natura di perseguire gli scopi per i quali Dio l'ha creata, e quindi fa parte dell'ordine naturale globalmente inteso. In Arabia prima dell'Islām i costumi delle donne per un verso erano più liberi, ma il potere dei padri, e degli uomini in genere, era assoluto. Oltre alla possibilità per genitori, o zii, o fratelli, di concordare con terzi il matrimonio delle loro donne senza nemmeno interpellarle, esisteva anche la consuetudine che consentiva a un padre di promettere in sposa la figlia ancora nel ventre materno! Esisteva anche uno specifico istituto - il matrimonio shigār - mediante il quale due genitori di figlie femmine prendevano in moglie ciascuno la figlia dell'altro, di modo che le doti venivano fra loro compensate. Vi era anche l'istituto per cui l'erede ereditava anche le mogli del defunto: dopodiché, o le concedeva in moglie a terzi, intascando le relative doti, o se le teneva lui stesso, senza dover corrispondere dote. Dai detti del Profeta risulta che tutte queste consuetudini furono formalmente private di valore. Resta il problema di cosa ancora accadesse in punto di fatto, giacché ritenere sufficiente la tradizione profetica equivale a nascondersi dietro un dito, dal momento che la sola emanazione di una norma non implica mai la soluzione sociale del problema che essa vuole eliminare48.
Per il cosiddetto uomo musulmano medio, obbedire al marito è obbedire a Dio, ha messo in evidenza la sociologa marocchina Fatema Mernissi49, sintetizzando il discorso coranico che alla sura 4,34 stabilisce:
«Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle
altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo e grande».
I figli maschi puberi hanno libertà di scelta in ordine al matrimonio (giuridicamente); lo stesso vale per le femmine, se vedove o divorziate, nel caso di ulteriori nozze. Invece per le figlie vergini il matrimonio è subordinato al previo consenso del padre, ma anche quello dell'interessata (sempre giuridicamente parlando). Se il padre lo rifiuta, si apre il problema se si tratti o no di elemento necessario alla validità del matrimonio. Sul punto i giuristi sono discordi, mentre sono d'accordo nel ritenere che, se il rifiuto paterno non è corredato da motivazione, egli perde il diritto a esercitare la sua autorità. Basta però dare una motivazione qualsiasi. La donna adulta è libera di gestire il suo patrimonio e di disporne senza ingerenze di padri o mariti. All'atto delle nozze l'uomo - oltre ad assumere l'obbligo del mantenimento della moglie per tutta la durata del matrimonio - le riconosce l'attribuzione di un bene materiale: è la dote (mahr). Nell'Arabia preislamica essa spettava al padre della sposa, coerentemente con il suo potere assoluto sulla famiglia. Il Corano, invece, richiede che la dote sia data direttamente alla donna: «Date alle donne la loro dote spontaneamente» (4,4).
Ovviamente in caso di divorzio la dote tornava al marito. In linea generale il Corano stabilisce il diritto della donna alla proprietà dei frutti del lavoro e all'eredità, ma per essa assegna alla donna una quota fissa del patrimonio del defunto, contrariamente a quanto avveniva nell'Arabia preislamica; quota, però, pari a metà di quella dell'erede maschio (4,11). Questa quota ereditaria costituisce un bene personale della donna, di cui può liberamente disporre senza essere tenuta a utilizzarla nell'àmbito della famiglia. La quota che va al maschio, invece, è considerata bene della famiglia, da impiegare per le necessità dei famigliari (moglie, figli, fratelli e sorelle fino al matrimonio). Tale impostazione corrisponde a un concetto patriarcale una volta esistente anche in Europa: l'uomo lavora fuori casa, si occupa di affari e politica ed è il capo-famiglia; la donna opera essenzialmente in seno alla famiglia come madre e moglie. In questo assetto è ovvio che la patria potestà spetti al marito. Non è però prevista la comunione dei beni, giacché gli averi e le proprietà della moglie (acquisite per eredità o attraverso il lavoro) non devono essere usati per il mantenimento della famiglia. I suoi beni passano in parte alla famiglia coniugale attraverso il diritto di eredità dei figli.
Assoluto è il divieto per la donna musulmana di sposare un non musulmano (mentre per l'uomo è permesso il matrimonio con donne appartenenti a un «Popolo del Libro» (ahl al-Kitāb). Per l'Islām, infatti, la prole acquista dal padre sia il nome, sia l'appartenenza religiosa. Nell'Islām matrimonio (niqah o la-zawaj) e relazione sessuale lecita sono sinonimi, e le relazioni extramatrimoniali (zinā) sono espressamente condannate. Anche qui la pratica va per i fatti suoi.
Notoriamente l'Islām ammette la poligamia, consentendo fino a quattro mogli, ma con il vincolo a trattarle tutte allo stesso modo, materialmente e sentimentalmente. Oggi molti esegeti sostengono che, essendo quasi impossibile adempiere a una simile disposizione, l'unione monogamica è la più consigliabile. Pure famoso è il diritto di ripudio, ma è sempre conveniente approfondire. La Legge islamica prevede che il matrimonio possa essere sciolto per cause naturali, legali o volontarie. La dissoluzione volontaria del vincolo avviene o unilateralmente, per volontà del marito, o bilateralmente, per mutuo consenso. La dissoluzione unilaterale si effettua con il ripudio (talāq), prescindendo dal consenso della moglie o dal permesso del giudice. Il ripudio diventa irrevocabile se viene ripetuto tre volte alla presenza di due testimoni; oppure, se ciò non sia avvenuto, qualora sia decorso il periodo legale ('idda) durante cui il marito può ancora esercitare il suo diritto di far tornare la moglie al domicilio coniugale (raja'). Ma anche la moglie può richiedere il divorzio se il contratto matrimoniale non è stato rispettato riguardo al dovere di mantenimento e al dovere di condividere il letto coniugale, qualora non ci siano stati rapporti sessuali per un periodo di oltre quattro mesi; per richieste di prestazioni sessuali illecite da parte del marito (masturbazioni e sodomizzazioni); per sterilità non dichiarata al momento del matrimonio e ovviamente per adulterio commesso dal coniuge. L'istanza deve essere presentata al giudice che, dopo aver ascoltato le dichiarazioni del marito e dei testimoni, ha la competenza di sciogliere il matrimonio. In caso di adulterio, il divorzio è automaticamente ottenuto dalla donna, stante la gravità di questo reato. Il Corano prevede anche (4,35) una forma di divorzio giudiziale (khōl') su istanza della moglie, ma con il consenso del marito. In tale caso la moglie deve pagare una sorta di risarcimento al coniuge, oppure rinunciare a una parte della sua dote.
Vi è poi il cruciale problema della capacità della donna a testimoniare in giudizio. Al riguardo si dice che per il diritto islamico la testimonianza della donna valga metà di quella di un uomo. Gli esegeti musulmani ribattono indignati che non è affatto vero. E hanno ragione, nel senso che non si tratta di quote-valore delle testimonianze. Però, se una donna è chiamata a testimoniare in un processo, «si preferisce» che la sua testimonianza venga confermata da quella di un'altra donna per il fatto che il Corano riconosce alla donna una maggiore emotività, suscettibile di portarla ad alterare il suo racconto al fine di evitare conseguenze troppo gravose all'imputato!
Resta da affrontare il tema della sessualità, che ci porta in uno scenario contraddittorio. Chi abbia letto l'antico capolavoro della narrativa araba dal titolo Le mille e una notte (di matrice persiana, tuttavia) vi avrà certamente colto l'atmosfera di diffusa sensualità, suscettibile di far pensare a un ambiente islamico incomparabile con la sessuofobia del Cristianesimo storico50. Per quanto riguarda le relazioni sessuali lecite (matrimonio e concubinato), la sessualità è intesa come dono del Creatore: in antichi testi islamici si parla del piacere, dei preliminari, del godimento corporeo, delle posizioni possibili durante l'atto sessuale (eccetto la sodomia) ai fini del soddisfacimento delle aspettative e del piacere sia dell'uomo che della donna. Lo stesso Profeta associava all'atto sessuale l'elemosina, nel senso che esso diventa espressione di un atto di adorazione di fronte al Creatore: la sessualità, cioè, quale espressione di un essere che accetta tutti i doni di Dio, compresi quelli inerenti al corpo. Ma quando l'angolo di osservazione si allarga, passando dalla teoria alla pratica sociale, allora emerge un altro volto, rivelatore di una sorta di ossessione sessuale incentrata su un'inconfessata ma evidente paura nei confronti della donna, vista con una capacità sessuale maggiore dell'uomo. Si attribuisce al quarto Califfo, 'Alī, il detto: «L'onnipotente Allah creò il desiderio sessuale in dieci parti: poi ne diede nove parti alle donne e una agli uomini».
Nell'intimità del talamo legittimo iniziativa e capacità sessuali della donna sono gradite e sollecitate (lo stesso Profeta invitava i coniugi a condividere giochi erotici, anche «audaci»), ma proprio
per questo nella vita sociale la donna deve essere sotto controllo, onde evitare che il suo potenziale vada a beneficio anche di altri.
Passando al concreto delle società abbiamo un quadro dai contenuti assolutamente disomogenei, per cui la condizione della donna varia da paese a paese e all'interno di ciascuno di essi, in base alla posizione sociale e all'ambiente (rurale o urbano). La situazione più liberale si ha senza dubbio in Turchia e, una volta, in Tunisia. In altri paesi, invece, si hanno gradi di discriminazione anche assai forti (Afghanistan, Algeria, Sudan ecc.). Per società del genere i vari tipi di velo femminile hanno una funzione pratica e un significato simbolico non indifferenti, come frontiera fra i sessi, strumento di controllo maschile e emblema di ordine morale, tant'è che in vari paesi la prassi sociale è andata molto al di là - in termini peggiorativi - rispetto alle generiche ammonizioni del Corano51.
Nell'ambito del riformismo religioso possiamo a buon diritto inserire il cosiddetto «femminismo islamico», ben distinto da quello laico. I contenuti di quest'ultimo sono facilmente immaginabili e corrispondono alla posizione ultranegativa della stampa occidentale circa il problema della donna nel mondo musulmano. Il femminismo islamico è interessante in quanto voce di genere che proviene da una dimensione religiosa ma non si identifica affatto con gli interessi del patriarcalismo e del maschilismo delle società in questione.
Prima di gettare la metaforica croce sull'Islām in quanto tale, vale la pena ricordare che la condizione e il ruolo della donna nella Bibbia (Paolo di Tarso compreso) non è certo presentata in modo tale da soddisfare le esigenze della donna occidentale contemporanea. In Occidente c'è stata però la ben nota evoluzione del costume che in qualche modo (sia pure non completamente) ha inciso sulla discriminazione di genere; cosa che però non è avvenuta nel mondo musulmano.
Le femministe islamiche sono spesso impegnate nella difesa dell'indipendenza delle donne dal marito e dai figli e denunciano il protezionismo dell'uomo verso la donna solo come funzionale ai bisogni di quest'ultimo, imputandogli quindi gli ostacoli al pieno inserimento femminile nella società. L'assunzione del velo a copertura del capo è emblema e segno distintivo del loro orgoglio islamico (anche contro il volere dei famigliari) e altresì del rifiuto a essere considerate mero oggetto del desiderio per il maschio.
Per queste femministe è facile mettere in rilievo il ruolo svolto dalla struttura patriarcale degli ambienti sociali in cui l'islamismo si è diffuso, sottolineando la diversità delle fonti di raccolta dei detti del Profeta tra il periodo a ridosso della sua morte e quello successivo. Mentre in una prima fase aveva avuto una parte primaria 'Ā'ishah, vedova di Muhāmmad, e i detti raccolti promuovevano una maggiore uguaglianza fra i sessi, successivamente invece la preferenza si è spostata verso testimoni di sesso maschile e si è avuto un incremento dei detti restrittivi della posizione della donna.
Operando con argomenti islamici esse contestano pure ai tradizionalisti il preconcetto (diventato quasi dogma) per cui solo una struttura sociale che stabilisca la subordinazione femminile sia islamicamente corretta. Per quanto riguarda i passaggi coranici che sembrano sancire la soggezione della donna, la loro ermeneutica va nel senso che o sono legati a un contesto contingente, oppure vanno interpretati metaforicamente. Il che costituisce una sfida alla credenza, da secoli imposta dagli 'ulamā, per cui il Corano sarebbe alla lettera parola eterna di Dio, e quindi non suscettibile di relativizzazioni temporali dei suoi contenuti. Va peraltro osservato che tale impostazione ermeneutica non è solo delle femministe islamiche, ma emerge ogni tanto anche in ambienti conservatori, di fronte a delicati problemi palesemente insuscettibili di soluzioni basate sui dati letterali rigidamente assunti. Le esponenti di maggiore notorietà sono la marocchina Fatema Mernissi, l'afro-americana Amina Wadud e la pakistana Asma Barlas, unite nello sforzo di trovare, attraverso un'attenta esegesi del Corano, quello che per i musulmani è il vero volere di Dio, che sembra coincidere con un'uguaglianza di genere che sembrava solo utopica.
UNO SCONOSCIUTO ISLĀM EUROPEO: L'ISLĀM BALCANICO
L'eurocentrismo è come una medaglia a due facce: una è laica, l'altra è cristiana. Con la conseguenza che quando si parla di Islām europeo si pensa subito, automaticamente, all'immigrazione musulmana, con l'aggiunta degli europei convertiti a questa religione. Solo dopo, magari su sollecitazione, ci si ricorda della plurisecolare presenza di minoranze musulmane nella penisola balcanica (in Albania si tratta di quasi l'80% della popolazione), lascito della plurisecolare presenza ottomana. Nell'Europa sudorientale sono circa 8 milioni gli abitanti musulmani - cioè un terzo di tutti i musulmani presenti sul continente europeo -, appartenenti ad almeno quattro gruppi etnico/linguistici. Basta accostarsi alla letteratura balcanica moderna per rendersi conto del grado di interazione verificatosi fra questo Islām e il circostante e maggioritario mondo ortodosso, oltre alla naturale interrelazione con l'Islām turco - e anche arabo. Questo Islām europeo è vissuto per due generazioni sotto regimi del «socialismo reale», subendo anche campagne antireligiose, che in Albania avevano raggiunto il massimo della durezza con la messa al bando totale di tutte le religioni e i culti. Ragion per cui alla fine ha risentito degli effetti della laicizzazione e dell'urbanizzazione, tanto che per molti musulmani balcanici l'Islām ha rappresentato, più che un punto di riferimento culturale collettivo e identitario, una fede e una pratica liturgica consequenziale. Non si può tuttavia dire che i caduti regimi di sinistra abbiano costretto alla chiusura culturale le società islamiche dei Balcani in quanto, almeno fino agli anni Settanta, molti musulmani locali poterono andare a studiare in Turchia o in paesi arabi.
Dal punto di vista confessionale si tratta di un ambiente essenzialmente sunnita, ma in esso il fiorire delle confraternite sufiche ha costituito un ponte virtuale verso lo Sciismo. D'altro canto in Bulgaria e in Grecia ci sono pure degli aleviti (uno dei rami della famiglia sciita). Associabili agli sciiti, quand'anche un po' sincretisti ed eterodossi, sono i sufi Bektashi, presenti in Albania, Kosovo e Macedonia. Va però notato che nella penisola balcanica il nazionalismo etnico è in fondo prevalente rispetto alla religione per quanto attiene ai rapporti intermusulmani. Vale a dire, mentre un bosniaco musulmano sarà prima di tutto musulmano verso un serbo o un croato, nei confronti di un correligionario albanese sarà invece prioritariamente bosniaco. Tenuto però presente che nel corso dei secoli XIX e XX la costruzione delle identità nazionali nei Balcani è stata fatta anche e soprattutto a partire dalle identità religiose, ne consegue che quando si parla del passaggio da identificazioni solo religiose a identificazioni nazionali ci si riferisce più che altro a una tendenza.
Per quanto si ritenesse che la fine dei locali regimi politici antireligiosi avrebbe avuto come naturale conseguenza il riemergere della pratica religiosa (non solo islamica), in linea di massima nei centri urbani la gente è alquanto laica e secolarizzata. Molti quadri religiosi vanno comunque a studiare nelle città, dove alcuni risentono dell'ambiente e altri no. Ma è pur vero che i recenti conflitti hanno determinato rilevanti spostamenti di popolazione dalle campagne alle città, dove alla fin fine si sono create realtà intermedie tra città e villaggio.
Le vicende belliche - anche per l'arrivo di volontari islamici fondamentalisti e islamisti (la famigerata «Brigata al-Mujahid») - hanno fatto sì che si costituissero anche nella Bosnia nuclei wahhabiti e salafiti, ma al momento non sembrano avere acquisito una particolare rilevanza. I loro proseliti sono essenzialmente giovani.
Interessante è la comunità islamica della Bosnia, anche a motivo della leadership del Rais-ul-'ulamā Mustafa Ceric, personalità abbastanza aperta e tollerante. Lo si vide all'epoca delle isteriche reazioni islamiche contro le vignette satiriche olandesi sull'Islām: in quell'occasione Ceric invitò apertamente i correligionari a non partecipare alle proteste, condannando sia le vignette, sia i protestatari violenti; anche l'islamico Partito dell'Azione Democratica (Sdc) si allineò su quelle posizioni, e attraverso il suo presidente Tihic respinse le manipolazioni fondamentaliste, riaffermando i princìpi di tolleranza e rispetto reciproci.
Va notato che pure tra gli intellettuali musulmani balcanici attecchisce l'idea dell'incompatibilità tra la modernità europea e l'Islām, non nel senso di svolte integraliste, ma semmai kemaliste, particolarmente in Albania e in Kosovo: Ismail Kadaré è solo il più noto dei numerosi intellettuali di origine musulmana che respingono l'Islām. Forse si tratta di uno dei laici più radicali anche nella forma, non temendo di sostenere che gli albanesi, per integrarsi nell'Europa, devono sbarazzarsi dell'Islām.
Vi è un altro fenomeno nelle società dei Balcani (non solo islamiche), consistente nell'individualizzazione della religione. Molte persone, cioè, preferiscono costruirsi autonomamente la propria religiosità, magari partendo da una delle religioni monoteiste, ma a prescindere dal frequentare chiese e moschee e dal seguire le prediche e le indicazioni di preti e imām. In Albania, poi, non è trascurabile il fenomeno del passaggio di giovani di origine musulmana a confessioni cristiane - protestanti, cattoliche o ortodosse.
Tra i musulmani le maggiori influenze culturali provengono dalla Turchia (in senso laico o religioso), assai meno dai paesi arabi. Già da molto tempo il Corano era stato tradotto nelle lingue balcaniche e nelle scuole religiose, a far data dal periodo tra le due guerre mondiali, non si usava più l'arabo. A parte alcuni imām e gli 'ulamā che hanno imparato un po' d'arabo, la stragrande maggioranza dei musulmani locali non lo conosce per niente.
Quel che della situazione religiosa balcanica colpisce oggi un osservatore esterno è l'atmosfera di diffidenza - e sovente di paura - tra cattolici e ortodossi, e fra entrambi e gli islamici. Persiste il mito - molto utilizzato da serbi e croati durante le guerre (apparentemente) etniche nella ex Jugoslavia - della cosiddetta «dorsale verde» (cioè musulmana) che attraversa i Balcani fino a congiungersi con la Turchia, passando poi all'Asia turcomanna. Di modo che i Balcani sarebbero la frontiera (necessariamente insanguinata) fra Europa cristiana e mondo islamico e asiatico. Per fortuna non mancano i giovani (soprattutto di sinistra) che sentono l'esigenza di non farsi ingabbiare dalla chiusura etnico/religiosa e arrivano a interessarsi al Sufismo o a imparare il turco.
CONSIDERAZIONI NECESSARIAMENTE PROVVISORIE
Una prima conclusione - non provvisoria, però - consiste nel ribadire l'erroneità del sovrapporre la religione islamica alla realtà sociale nella sua globalità. Semmai è vero l'inverso, con la strumentalizzazione dell'Islām da parte della società e della politica. In ragione di quanto era accaduto nelle società dell'Africa settentrionale e del Vicino Oriente quando il Cristianesimo era la religione dominante in senso totalitario, ci si può azzardare a dire che, quand'anche non ci fosse stata l'islamizzazione di quelle terre, molto probabilmente oggi si affronterebbe il problema della laicità-secolarizzazione in rapporto alle società cristiane berbere, nilotiche, siriache e anatoliche.
Nei testi con pretese di serietà il ricorso alle citazioni di scritti di altri autori corrisponde a una duplice esigenza: far vedere che sull'argomento trattato si conoscono anche lavori di terzi e rafforzare il peso delle proprie opinioni riportando quelle conformi di altri, di maggior prestigio o innovatori. È con il secondo intento che ora segue una non breve citazione di Franco Cardini, critica verso un punto che costituisce un cavallo di battaglia del giornalismo semi-erudito per colpire l'immaginario del lettore: cioè che i mali del mondo islamico dipendono dal non aver conosciuto l'Illuminismo:
«Dinanzi a domande poste in questi termini - così come spesso le pongono i mass media - lo storico di professione potrebbe facilmente cavarsela denunziandone l'assurdità. Che cosa significa, difatti, Islam «laico»? Si è «laici» quando non si appartiene a una Chiesa storica organizzata e ci si oppone alle sue ingerenze nella vita civile, rivendicando la separazione tra Chiesa e Stato e tra legge divina e legge umana; ma nel mondo musulmano non esistono né Chiese storiche organizzate, né vere e proprie forme di istituzioni clericali: l'Islam non potrebbe mai esser più «laico» di quanto storicamente non sia. Quanto all'Illuminismo, si tratta di un complesso fenomeno storico, civile e intellettuale, che ha condotto al trionfo in Europa di un concetto filosofico e politico di «Ragione» elaborato contro i dogmi e le istituzioni tradizionali: qualcosa insomma d'irripetibilmente connesso alla situazione europea del XVIII secolo; non si vede come si possa pretendere ch'esso costituisca una fase «necessaria» nello sviluppo di qualunque civiltà. Le idee e le istituzioni non sono «merci» come tutte le altre: e, per quanto sia vero che il mercato corrisponde al primo e più importante dei nostri articoli di fede, non si dovrebbe pretendere come cosa del tutto naturale che «Illuminismo» e magari «democrazia» siano merci così necessarie a tutti e appetibili da parte di chiunque. Che la cosiddetta civiltà occidentale sia la più ricca e la più potente del mondo ci autorizza davvero a pretendere ch'essa sia anche in assoluto la migliore e che tutte le altre debbano solo adeguarsi ad essa se vogliono accedere a un livello superiore? Personaggi come il presidente del Senato Marcello Pera sembrano esserne convinti; altri pensano che la realtà storica sia più problematica e credono di ricordare che la storia ha insegnato quanto sia iniquo e pericoloso il ritenersi migliori degli altri. Forse, una replica onesta ed equilibrata alle domande da cui siamo partiti dovrebbe arrestarsi qui: ma a qualcuno potrebbe sembrar elusiva. Cerchiamo allora di esser più chiari. L'idea che nel mondo islamico non esista una separazione tra fede e politica, tra istituzioni religiose e istituzioni politiche, deriva da una grossolana visione storica delle cose che appiattisce le differenze e pretende di giudicare tutto secondo i modelli occidentali. In realtà, l'Islam - al pari dell'ebraismo - non conosce istituzioni religiose paragonabili alla Chiesa, ma soltanto associazioni, confraternite, comunità di preghiera o di vita ascetica, sodalizi che amministrano i beni materiali legati ai luoghi di culto. […] Il fanatismo islamista attuale, che considera l'Occidente un avversario, non nasce dunque dalle brume dei secoli, non è atavico e radicato nella natura dell'Islam, non è «antico». È, al contrario, modernissimo: dinanzi alle reiterate promesse non mantenute degli occidentali, una parte dei musulmani si è lasciata convincere dai propagandisti dei vari movimenti radicali (che noi chiamiamo «fondamentalisti» e che aderiscono a movimenti nati non prima degli anni Venti del Novecento) che dall'Occidente vengono soltanto inganni e false promesse; e che, se il mondo musulmano vuol tornare allo splendore d'un tempo, deve trovare dall'interno di se stesso le energie a ciò necessarie»52.
Le esigenze delle società musulmane sono visualizzabili da due punti di osservazione: quello occidentale e quello musulmano. Per il primo l'essenziale approdo alla democrazia (intesa però in senso democratico-borghese) ha come presupposto necessario la laicizzazione dello Stato e del diritto, senza di che non ci sarebbe spazio neppure per i diritti umani e civili. E qui naturalmente torna in ballo la questione della Legge coranica. L'ottica occidentale è teoreticamente assoluta quanto disinvolta sul piano pratico (perché imperialista), e anche semplicistica.
Che la laicità sia la sicura porta d'accesso alla democrazia è una mera petizione di principio smentita dalla storia. Il caso della Turchia kemalista è paradigmatico: Stato laico e secolarizzato retto da un regime tanto benemerito quanto autoritario e impositore di riforme non sentite dalla stragrande maggioranza della popolazione. La Tunisia di Burghiba e di Ben 'Alī era laica e dittatoriale, e lo stesso dicasi per la Siria degli Assad e per l'Iraq di Saddam Husayn. E nell'Egitto nasseriano, se sulla laicità si sarebbe potuto discutere ampiamente, la secolarizzazione era a livelli alquanto avanzati.
La disinvoltura occidentale si manifesta nella nonchalance con cui i governi, per interessi contingenti (ma concreti), sono pronti ad accettare tutto e il contrario di tutto: dall'oscurantista Arabia Saudita ai dittatori iracheni e perfino ai famigerati talebani, se si fossero piegati agli interessi degli Stati Uniti. Contemporaneamente, però, la propaganda dei media occidentali sollecita le anime belle all'indignazione per l'arretratezza delle società islamiche, per il trattamento riservato alle donne, per i diritti civili ecc. ecc.
Mettersi dall'angolo di visuale musulmano non è immediatamente semplice, in quanto è necessario scegliere un sotto-angolo da cui guardare e poi passare agli altri, in modo da avere un quadro completo. Semplificando, i sotto-angoli solo almeno quattro (omettiamo cioè le pur importanti sfumature): quello laico, quello del musulmano medio, quello del musulmano di stretta osservanza e quello salafita con propaggini jihadiste.
La maggioranza dei musulmani non è né laica né salafita, e di questo si dovrebbe tenere conto, quand'anche non sia ancora così. Al momento la vittoria sia dell'impostazione laica che di quella salafita presuppone la vera e propria imposizione dei relativi modelli, con tutto quel che di ambiguo e contraddittorio la cosa comporterebbe. Le recenti cosiddette «primavere arabe» (rapidamente trasformatesi in «inverni») hanno manifestato una diffusa e trasversale richiesta di cessazione di un diffuso stato di cose - in definitiva privo di nessi con l'Islām come religione -, e quindi rivendicazioni socio-politiche per nulla confessionali: instaurazione di libertà e democrazia; fine delle persecuzioni contro gli oppositori, qualunque essi siano; fine di atroci ingiustizie sociali, della corruzione, del clientelismo; uscita dal sottosviluppo.
Purtroppo il modo di intendere la libertà e la democrazia - come anche la storia occidentale insegna - non è univoco nelle menti umane, e quando per ragioni storiche manca (come nei paesi musulmani) un'opinione pubblica fatta da cittadini e non da potenziali e blandibili dominati, capace di costringere i governanti a renderle conto dei propri atti e comportamenti, è facile che l'esercizio del potere diventi arbitrario e antisociale, anche da parte dei perseguitati di ieri divenuti poi classe dirigente, oltretutto senza preparazione e cultura di governo.
Non pare azzardato dire che la maggioranza dei musulmani vorrebbe vedere realizzate le sopraccitate rivendicazioni: in un contesto, però, rispettoso dell'Islām. E qui si innesta un problema innanzitutto culturale, che non si risolve con la mera trasposizione di moduli occidentali frutto di un diverso sviluppo storico. L'esperienza turca è al riguardo illuminante: l'autoritario tentativo kemalista di confinare nel privato e di espungere completamente l'Islām dalla sfera pubblica si è risolto in un recupero del medesimo, sia pure nel contesto laico voluto da Atatürk. Da qui la dimensione palesemente neo-ottomana in cui si muove il governo di Erdoğan.
Che non sia necessaria all'Islām una propria costruzione politica è cosa che alla fine della sua vita aveva capito anche il teologo medievale al-Ghazālī. Ma resta il fatto del ruolo fortemente identitario che ha il riferimento all'Islām per le popolazioni musulmane; d'altro canto, il fenomeno è tipico dei paesi il cui passato storico - mondanamente glorioso e in vario modo recente - ha avuto come asse portante ideologico una data religione. Questo - è ovvio - non piace alle minoranze locali di orientamento religioso diverso e magari ostile, ma la situazione è rimontabile solo attribuendo a esse un spazio in cui vivere agevolmente la propria religione, o mancanza di religione. E questo non vuol dire soltanto libertà di frequentare le funzioni sacre.
Da alcuni secoli nel mondo musulmano (anche in quello sciita) si è verificata una deriva legalistica che ha fatto della sharī'ah uno strano feticcio: le sue violazioni, consolidate per motivi profani, coesistono con la sua intangibilità e immutabilità formale. La pura e semplice abolizione della sharī'ah è stata possibile solo in Turchia e Albania, a motivo del particolare sviluppo storico di questi due paesi. Altrove mancano i presupposti culturali per riprodurre un esito del genere, a motivo di una pervasiva ideologizzazione della religione, funzionale al conservatorismo patriarcale e al potere politico. Quest'ultimo in realtà dovrebbe avere l'interesse maggiore alla deideologizzazione dell'uso dell'Islām, giacché almeno dagli anni Ottanta in poi l'uso ideologico politico-sociale della religione si è rivelato una gabbia in cui il potere stesso si è rinchiuso, in quanto se da un lato non per questo si è consolidato acquisendo consenso, dall'altro si è esposto al ricatto politico dei radicali islamisti.
Suggerire soluzioni dall'esterno è sempre rischioso - e talvolta presuntuoso. Tuttavia la stessa ragione umana, di fronte a situazioni problematiche e complesse, ha la tendenza a individuare, se non possibili vie d'uscita, almeno un qualche rimedio senza essere irrealista.
I punti fondamentali solo due: l'ambiguo intreccio tra religione e potere - quindi tra religione e diritto - e i possibili margini di laicità; nonché la questione dei diritti civili. Non sembra impossibile trovare soluzioni di compromesso. Vale a dire: a motivo delle difficoltà e delle complicazioni derivanti dall'imposizione integrale delle aspirazioni di laici e radicali, e dando per scontato lo scontento delle ali estreme, il compromesso - cioè la parziale rinuncia alle rispettive pretese da parte di ciascuno dei contendenti più ragionevoli - appare l'unica via praticabile.
È INDIVIDUABILE UN QUALCHE RIMEDIO «DIGERIBILE» UN PO' DA TUTTI?
L'introduzione della laicità alla francese nel 99% dei paesi musulmani è semplicemente impossibile, per le vigorose reazioni di massa che susciterebbe. Teoricamente possibile, invece, appare una prima autonomizzazione della religione islamica dalla sfera politica: essa potrebbe avvenire mediante la ripresa e l'estensione di istituzioni similari a quella ottomana dello Şeykh ül-Islām, rafforzata da una debita autonomia costituzionalmente sancita per la gestione degli affari religiosi, senza reciproche interferenze. A dire il vero istituzioni analoghe già esistono, come il «Consiglio degli 'Ulamā» in Marocco, oppure in Siria. In Albania le comunità religiose sono autonome.
Ma un'ulteriore riforma sarebbe necessaria ai fini di una laicizzazione - seppure soft - delle società. Qui il discorso si fa delicato in rapporto alla mentalità occidentale, che - alla luce della storia europea - non può non considerare conquista di valore l'uguaglianza giuridica formale dei cittadini dinnanzi alla legge. Valutazione che nel mondo islamico, invece, è scarsamente condivisa alla luce proprio della sua specifica storia.
Nel diritto islamico tradizionale c'era l'istituzione della dhimma, la protezione dei non musulmani mediante l'attribuzione di statuti personali (al-ahwal al-shakhsiyya) in base alla religione di appartenenza. Durante il lungo periodo ottomano si ebbe il sistema del millet, cioè dell'attribuzione di autonomia alle comunità religiose riconosciute dall'impero e l'emanazione di statuti determinati per i loro membri. Dopo l'indipendenza nei paesi musulmani residui degli statuti personali sono obiettivamente rimasti, con particolare riguardo al diritto di famiglia53. In vari paesi islamici sullo status di cittadinanza incide il fattore religioso, e non è raro che in certuni di essi si possa acquisire la nazionalità solo se si sia musulmani. Alcuni Stati hanno un formale sistema legislativo e giudiziario unificato, valido per tutti i cittadini - resta il fatto che le verifiche pratiche non sempre danno risultati corrispondenti ai dati testuali; ma in certuni non esiste un diritto di famiglia codificato, con la conseguenza che i giudici devono fare ricorso al diritto musulmano; altri Stati presentano legislazioni e giurisdizioni diverse per i non musulmani; e infine c'è il caso dell'Egitto, dove sono state soppresse le giurisdizioni delle varie comunità religiose, ma ne restano in vigore le leggi.
Un esempio particolare può essere considerato innanzitutto il Libano, dove assieme alle corti giudiziarie ordinarie operano anche i tribunali religiosi delle varie comunità, con giurisdizione in materia di diritto privato, di matrimoni ed eredità54. Vediamo le situazioni nei più significativi Stati musulmani. Cominciando dal travagliato Egitto, in cui - con tanti saluti ai dettami della Costituzione - ai non musulmani viene in concreto precluso l'accesso ai posti di vertice della pubblica amministrazione. Se, come già detto, le competenze dei tribunali confessionali sono state soppresse e trasferite ai tribunali statali, dovendo però questi ultimi giudicare in base ai diritti confessionali, questo vuol dire che i non musulmani continuano a sottostare a giudici musulmani in materia di statuti personali.
In Siria, invece, su molte materie esiste una normativa unica per tutti i cittadini, e alle autorità confessionali resta la facoltà di emanare norme di diritto matrimoniale e famigliare. I tribunali confessionali esistono, ma lo Stato ha emanato un Codice processuale unico. In Giordania per gli statuti personali c'è una struttura giudiziaria tripartita: tribunali musulmani, tribunali religiosi non islamici e, per le cosiddette «competenze residuali», i tribunali statali.
In Tunisia (paese dove prima della caduta di Ben 'Alī erano vietati i partiti confessionali) esisteva un Codice degli Statuti personali di musulmani, ebrei e non musulmani, che ha introdotto delle novità rispetto alla Legge islamica: abolizione della poligamia e possibilità per entrambi i coniugi di presentare istanza di divorzio. Nella vicina Algeria, la situazione è meno positiva, a causa delle limitazioni alla libertà: chi cerchi di convincere un musulmano a cambiare religione rischia la prigione da due a cinque anni, più una multa dai 5 ai 10 mila euro; e le stesse pene sono comminate ai responsabili della produzione e circolazione di pubblicazioni e materiali audiovisivi che possano indebolire la fede nell'Islām; è inoltre proibita la pratica di religioni diverse da quella islamica al di fuori degli appositi edifici di culto. Tuttavia è in vigore un Codice della Famiglia, sono stati abrogati i precedenti statuti personali ed esiste una normativa unica per tutti i cittadini algerini, ispirata chiaramente, però, alla sharī'ah. Infine, in Marocco esiste un sistema di statuti personali su un modello simile a quello tunisino.
Nel panorama odierno il Libano pluriconfessionale costituisce un'anomalia, giacché il sistema degli statuti personali è giuridicamente sancito in una dimensione assai ampia, talché può dirsi che lì le persone soggiacciono alla legislazione confessionale corrispondente alla religione di appartenenza. Considerarlo uno Stato laico potrebbe comportare problemi di precisione terminologica, mentre la definizione di «pluriconfessionale» pare la meno imprecisa.
In Libano, cioè, al pluralismo religioso corrisponde un pluralismo legislativo. Le differenti comunità religiose55 regolano lo statuto personale dei loro membri con potere normativo (limitato dalla non contrarietà all'ordine pubblico e dalle leggi fondamentali dello Stato), hanno i propri tribunali per questioni riguardanti gli statuti e altresì partecipano al potere amministrativo e giudiziario dello Stato, il che è costituzionalmente sancito. Ne discende, per esempio, che in quel paese non c'è matrimonio civile, ma solo religioso con effetti civili56. Scrisse una cinquantina d'anni fa il libanese Michel Chiha:
«Come in Svizzera ci sono dei cantoni, ci sono in Libano delle comunità confessionali; i primi hanno per base un territorio, i secondi una legislazione: l'adesione a uno statuto personale».
Il sistema non è perfetto e non è laico, ma per un paese multi-confessionale il sistema alla francese sarebbe un disastro fra i peggiori. Può fare gridare allo scandalo la coscienza laica che nella sua dogmaticità presenta, in fondo, un certo astrattismo illuminista. Certo, suona male parlare di statuti personali in base al credo religioso. Una specie di eresia giuridica e civile. Tuttavia, se si guarda un po' meglio fra le pieghe degli ordinamenti giuridici occidentali - con particolare riguardo a quelli che recepiscano i Concordati con la Chiesa cattolica e/o intese con altre Confessioni religiose -, qualcosa di statuto personale viene fuori, con specifico riguardo (ancora una volta) al diritto matrimoniale. In nessun caso siamo di fronte a un vero e proprio al-ahwal al-shakhsiyya, però si tratta pur sempre della costituzione di una sfera particolare di azioni ed effetti in deroga al comune diritto civile per talune categorie di persone.
Va rilevato che in Libano il sistema degli statuti personali non ha creato cittadini di serie B con ridotta capacità giuridica rispetto ai cittadini musulmani, bensì applica ai cittadini non musulmani - in base al loro status specifico - un diritto differente in quegli àmbiti del diritto privato riguardanti i rapporti personali, cioè le sfere del matrimonio, delle successioni, della libertà religiosa e di culto.
Un altro caso interessante è la Siria: finora, dal momento che, se la guerra civile in corso dovesse essere vinta dalle opposizioni - ormai dominate dai radicali islamisti - e non dall'esercito regolare, quanto stiamo per dire apparterrebbe al passato, previo bagno di sangue fra i non sunniti. La Siria è tra i paesi islamici il più laico. La Costituzione vigente si riferisce all'Islām solo all'articolo 3 - a proposito del Capo dello Stato - dicendo che deve essere di religione islamica e che il diritto musulmano è una delle fonti principali della legislazione. Il diritto islamico trova applicazione su due livelli: uno formale, dato da quelle sue parti che sono state inserite nella legislazione statale; l'altro è invece quello dell'applicazione pratica, cioè volontaria, del diritto islamico - quand'anche non promulgato dal legislatore - da parte dei cittadini musulmani.
Le comunità non musulmane sono quindi garantite legislativamente e giudizialmente. Il diritto siriano è di conseguenza fortemente pluralista, non solo nei confronti delle altre religioni - come garantito
dall'articolo 35 della Costituzione, sulla libertà di culto e il rispetto di tutte le religioni da parte dello Stato -, ma anche nei riguardi delle diverse visioni dell'Islām.
Vari gruppi islamici rigoristi osservano strettamente le numerose prescrizioni della Legge coranica, ma in un paese secolare come la Siria vivono isolati dal resto della comunità, lontani dal mondo, preferendo interagire solo con se stessi attraverso il proprio codice di condotta, che trova appunto fondamento nel Corano. Nel sistema siriano di pluralismo legale, la sharī'ah formale, quella cioè promulgata dal legislatore, si applica solo alle norme degli statuti personali: matrimonio, eredità e dote. Come il Libano (e anche la Giordania), la Siria assicura ai membri delle altre comunità religiose un'ampia sfera di libertà religiosa, comprendente il culto, il proselitismo, l'insegnamento, la costruzione di nuove chiese e di ospedali. L'applicazione della sharī'ah è variabile, poiché si va dalla sua osservanza integrale a un'applicazione moderata, giacché del pari volontaria è la scelta del cittadino islamico sull'interpretazione da dare alla legge religiosa. Come ha sintetizzato Mirella Galletti,
«tutti i cittadini hanno uguali diritti e la legislazione non contempla alcuna discriminazione. La religione non è segnata sulle carte di identità ma è registrata alle anagrafi. La legislazione è laica e prevede gli statuti personali che differiscono in base alla comunità di appartenenza e fa sì che ai cristiani non venga applicato il diritto coranico per quanto concerne il diritto di famiglia»57.
Pensare a statuti personali nel mondo occidentale sembra una follia, tanto più che non ne sentono il bisogno i cristiani delle varie Chiese e gli ebrei. Il discorso cambia invece per i musulmani presenti in Occidente, perché esistono problemi concreti da affrontare superando gli astrattismi. Ad esempio, nell'orgogliosa ex imperiale Gran Bretagna - che per tanto tempo aveva portato (per dirla con Kipling) il «fardello dell'uomo bianco» nel suo arduo sforzo di «civilizzare» un Oriente che peraltro mai si sarebbe incontrato con l'Occidente -, tempo fa il Lord Chief Justice, il più alto grado giudiziario d'Inghilterra e Galles, dichiarò che la sharī'ah potrebbe avere un ruolo nell'attuale sistema legale britannico, nel senso che i princìpi della sharī'ah potrebbero essere usati nelle mediazioni e nei tribunali civili per risolvere le dispute, anche se ovviamente senza lapidazioni, fustigazioni o altre punizioni fisiche estreme, come il taglio della mano. In ciò fu seguito da Lord Nicholas Phillips, che in un discorso all'East London Muslim Centre sostenne lo stesso orientamento. Già in precedenza l'Arcivescovo di Canterbury aveva affermato l'esigenza per i musulmani in Gran Bretagna di potersi avvalere della Legge islamica. Si discute su quali casi, e in genere si sostiene che si tratterebbe di transazioni finanziarie, risoluzione di conflitti, divorzi e dispute coniugali. Inoltre, un portavoce del Ministero della Giustizia dichiarò che la legge britannica avrebbe naturalmente sempre la precedenza su ogni altro sistema legale, ma che nulla impedirebbe ai musulmani di rispettare la sharī'ah, se così desiderano, a condizione che essa non entri in conflitto con la legge inglese.
Fatte queste premesse veniamo al punto. L'inizio di una laicizzazione soft nel mondo musulmano potrebbe passare (paradossalmente) per il ripristino di statuti personali aggiornati con la previsione - cosa mancante in Libano - di un apposito statuto per chi non aderisca a nessuna religione (senza parlare di «ateismo», che da quelle parti è considerata una brutta parola), e che per conseguenza sarebbe sottoposto all'ordinario diritto civile.
Naturalmente i due rimedi proposti - da sviluppare in parallelo - non risolvono tutto, ma potrebbero dare un contributo a un miglioramento delle cose e soprattutto rassicurare i musulmani più osservanti circa il rispetto della Legge islamica. Laici e islamici sono portatori di due concezioni del mondo e della vita antitetiche, e in più i musulmani sono maggioranza. Il tentativo di imporre l'una o l'altra di tali concezioni mediante l'esercizio del potere non può che portare allo scontro sanguinoso e alla fine di qualsiasi prospettiva di vita civile e di democrazia. Poi, prima o poi, gli sconfitti torneranno alla carica, e così via. La democrazia si regge solo in assenza di siffatte imposizioni; l'uso della maggioranza per introdurre scelte politiche-tecniche-amministrative sgradite alla minoranza è invece tutt'altra cosa e fa parte del normale gioco della politica. Se uno dei princìpi fondamentali consiste nel non schiacciare la minoranza di oggi (che può diventare la maggioranza di domani) e non puntare alla sua eliminazione, è pur vero che la maggioranza non può accettare che sia la minoranza a imporle visioni del mondo e stili di vita. Di modo che il principio di protezione riguarda maggioranza e minoranza insieme. Cosa che nel mondo islamico attualmente può funzionare meglio proprio con gli statuti personali - alla maniera libanese -, ma allargati ai laici. Poi, domani è un altro giorno. A latere si potrebbero anche mettere in conto gli effetti di un ulteriore sviluppo e incidenza della secolarizzazione dei costumi, indotta dalla globalizzazione mediatica e dai fenomeni dell'urbanesimo. L'alternativa di incidere direttamente sulle mentalità diffuse, in favore di una loro più accentuata laicizzazione, comporterebbe il duplice svantaggio di richiedere tempi troppo lunghi e una forte dose di autoritarismo, tale da rammentare il giacobino «obbligare a essere liberi». Ossimoro ancor più accentuato di quello qui dinanzi ipotizzato.
Un'osservazione finale. Esiste un tratto che accomuna i conservatori dell'Islām e i laici che non abbiano optato per l'ateismo: in definitiva, entrambi secolarizzano fortemente la religione. Il paradosso di questa conclusione è solo apparente. Infatti, se l'aspirazione dei laici è rivolta alla razionalizzazione dell'islamismo, dal canto loro i conservatori hanno ridotto la religione a pratiche rituali, all'osservanza di moduli di comportamento, a un legalismo esasperato, tutto sommato fine a se stesso. Mancando in entrambi spiritualità ed etica, senso del sacro e della dimensione sovrannaturale ed emozione del cuore, l'effetto è che la religione ne risulta alquanto immiserita. Prima o poi una reazione di segno contrario dovrà pur esserci.
Per fortuna il tema del presente scritto è (auto)limitato a laicità e secolarizzazione, e non affronta il problema dell'introduzione della democrazia borghese nei paesi islamici. Così è possibile evitare di entrare nel paludoso sentiero che si apre dopo la domanda se sia fattibile questa democrazia in paesi dove spesso l'analfabetismo supera il 50% o addirittura il 60% della popolazione. Prima o poi, però, qualcuno politicamente scorretto dovrà farlo in modo esaustivo e il più possibile privo di pregiudizi ideologici.
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1 La traslitterazione delle parole arabe viene qui effettuata in forma semplificata, per evitare problemi a chi sia digiuno di questa lingua. Diciamo solo che il segno ' equivale a una brusca interruzione di fiato nel corso della parola, che il segno ' indica un suono gutturale, tipo aspirazione sonora, una specie di colpo di glottide, inizialmente un po' difficile per gli occidentali (in entrambi i casi si tratta di consonanti), la kh è una c dura aspirata alla tedesca e la dh si legge come il th inglese in that. Per quanto riguarda il turco, essendo ormai scritto in alfabeto latino, c'è solo da segnalare che la lettera ı (la i senza punto sopra scritto) è una vocale muta che si produce nella parte posteriore della bocca, rendibile con una e appena appena accennata, la c è come la nostra g dolce di giallo, la ş è come la sh inglese, la ç equivale alla c di ciao, e che pure la z è dolce come in rosa.
2 Edward W. Said, Orientalism (1978), ed. italiana: Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2008.
3 Gli sciiti (da shiat 'Alī, o partito di 'Alī) sono divisi in quattro gruppi. I Kharijiti (da Khawāriğ, coloro che escono, che se ne vanno) o Ibaditi (come sono meglio conosciuti da tempo): questo gruppo nasce da una dissidenza rigorista contro 'Alī ibn Abī Tālib. Dichiaravano empi tutti gli altri musulmani e consideravano la guerra santa il sesto pilastro dell'Islām. Nell'insieme oggi sono più moderati dei loro «antenati», e infatti non considerano più i non Kharijiti degli empi e si rifiutano di uccidere gli apostati. Rilevante è la loro presenza nell'Oman. Gli Zayditi: la formazione di questa corrente prese l'avvio da una contesa sulla legittimità del quinto imām («guida»), che per essi è l'ultimo. Oggi lo zaydismo conta almeno 6 milioni di aderenti ed è per lo più concentrato nello Yemen. Gli sciiti c.d. Settimani o Ismailiti, originariamente seguaci di Isma'il, inteso come settimo ed ultimo imām (da cui la loro denominazione). Rifiutarono la sua morte e parlarono di occultamento, da cui tornerà alla fine dei tempi come Mahdi per ristabilire la giustizia sulla terra. L'ismailismo (cui aderiscono alcune centinaia di migliaia di musulmani che vivono in Siria, in Libano, in India, in Pakistan e in Israele) ha prodotto molte sette, tra cui quella dei Drusi. Ne fecero parte gli Hashishin, o Assassini, i cui epigoni fanno capo come imām a un noto personaggio, l'Agha Khan. Infine gli Alawiti siriani e gli Aleviti turchi. Una volta era forte nello Sciismo il patrimonio esoterico, ma ultimamente vi si è verificata una deriva legalista di rilevante portata, e quindi essoterica. Implacabile, invece, è rimasta la rivalità con i sunniti.
4 Roberto Gritti, Giuseppe Anzera, I partigiani di Ali. Religione, identità e politica nel mondo sciita, Guerini, Milano 2007; Bianca Scarcia Amoretti, Sciiti nel mondo, Jouvence, Roma 1994.
5 Circa le pratiche religiose, facciamo un solo esempio: anche per gli sciiti ovviamente vale la prescrizione delle cinque preghiere giornaliere obbligatorie. Tuttavia l'interpretazione sciita del Corano e della pratica del Profeta consente l'unione di queste preghiere; così gli sciiti uniscono spesso le preghiere del Zuhr (mezzogiorno) e del 'Asr (pomeriggio) compiendole consecutivamente durante il periodo di tempo definito dall'inizio del Zuhr e dalla fine del 'Asr. Essi inoltre considerano lecito unire le preghiere del Maghrib (tramonto) e del 'Isha (sera) nello stesso modo. Le scuole giuridiche (madhab) sunnite - ad eccezione della scuola hanafita - permettono l'unione delle preghiere obbligatorie (al-jam'bayn al-salatayn) in caso di pioggia, viaggio, paura o altre emergenze. Delle quattro scuole giuridiche sunnite (di cui si dirà in prosieguo) la hanafita proibisce di unire le preghiere giornaliere in qualsiasi momento, ad eccezione delle preghiere a Muzdalifa durante il pellegrinaggio alla Mecca (lo hajj). Invece la scuola sciita, la Ja'farita, consente l'unione delle preghiere senza particolare motivo.
6 La stessa difficoltà, del resto, si riscontra nella traduzione di termini più propriamente politico-istituzionali: «repubblica» è jumhuriyya, derivante da al-jumhur, che però significa «maggioranza» o «insieme di nobili»; il Presidente è ra'is, che nulla ha a che vedere col presiedere, ma indica l'essere a capo, con tutto quanto ciò implica; col concetto di «libertà di opinione» le cose si complicano, poiché si dovrebbe usare la parola shrik, ma essa ha il guaio di essere in opposizione al concetto di Islām, di modo che quando fu tradotto in arabo l'art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, invece di shrik si ricorse a hurriyyat, che in sé indica il tipo di libertà esistente in Arabia prima dell'avvento dell'Islām: non stupisce quindi che l'espressione «libertà pubbliche» - cioè hurriyyat amma - suoni male alle orecchie più conservatrici. Per non parlare della parola «pensiero», fikr, che in una lingua strutturata sulle radici triconsonantiche quale è l'arabo ricorda molto kufr, «miscredenza».
7 Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 101-3.
8 Henry Corbin, Nell'Islam iranico. Aspetti spirituali e filosofici. 1. Lo Shī'smo Duodecimano, Mimesis, Udine 2012.
9 Se questa credenza fa sorridere, si ricordi che sul piano religioso nel Cristianesimo se ne era formata una similare con riferimento a Giovanni Evangelista come custode occulto del mondo, in base al passaggio contenuto in Gv 21,20-23. Credenza ormai perdutasi in Occidente.
10 La sua competenza riguardava altresì tutti gli affari giuridici e teologici, la gestione delle moschee e delle strutture religiose che assicuravano assistenza sociale e sanitaria e istruzione. Con la rivoluzione kemalista in Turchia le sue funzioni passarono dapprima al Ministero degli Affari religiosi e delle Fondazioni religiose fino al 1924. In quell'anno tale ministero fu soppresso e sostituito dalla «Presidenza degli Affari religiosi» (Türkiye Cumhuriyeti Diyanet İşleri Başkanlığı), che oggi in Turchia costituisce l'autorità suprema in materia religiosa.
12 D'altro canto, mentre l'arabo è lingua consonantica e povera di vocali, il turco ha meno consonanti ed è più ricco di vocali.
13 Dalla rivista al-Manar, vol. XXVII, n. 8, 1926, p. 632.
14 Nasr Ḥāmid Abū Zayd, Una vita con l'Islam, Il Mulino, Bologna 2004, p. 68.
15 C. Ernest Dawn, From Ottomanism to Arabism: Essays in the Origins of Arab Nationalism, University of Illinois Press, Chicago-London 1973, p. 41.
16 Barbara De Poli, I musulmani nel terzo millennio. Laicità e secolarizzazione nel mondo islamico, Carocci, Roma 2007, pp. 146, 151.
17 Riportato da ibn Mājah.
18 Le scuole introdotte dai dominatori stranieri furono strettamente controllate, le migliori furono riservate ai figli dei coloni e dei residenti occidentali e gli indigeni vi furono ammessi selettivamente: vale a dire solo i figli dei notabili locali o di quanti avessero la disponibilità economica per pagare le forti rette imposte per i non occidentali. In Libia l'Italia trascurò del tutto l'acculturazione della popolazione locale.
19 Fatema Mernissi, Les Sindbads marocains. Voyage dans le Maroc civique (2004), ed. italiana: Karawan. Dal deserto al web, Giunti, Firenze-Milano 2008, p. 9.
20 Il Wahhabismo (Wahhābiyya) è il movimento radicale e rigorista fondato da Muḥāmmad ibn Abd al-Wahhāb (1703-1792). Alleatosi ben presto con l'emiro Muḥāmmad ibn Sa'ūd, acquistò forti connotazioni militari combattendo contro il potere ottomano. Assunse il controllo della penisola araba e arrivò a minacciare l'attuale Iraq. Grazie all'intervento delle truppe del paşa dell'Egitto i wahhabiti furono sconfitti, ma la dinastia dei Sa'ūd non venne distrutta. E appena le fu possibile tornò alla riscossa per costruire in Arabia uno Stato dominato dall'Islamismo nella versione wahhabita. Nel 1924 l'emiro 'Abd al-'Azīz ibn 'Abd ar-Rahmān ibn Faysal as-Sa'ūd conquistò i territori hashimiti dell'Arabia, comprese le città sante di Mecca e Medina. Inizialmente la Wahhābiyya era uno dei tanti movimenti fautori di un ritorno a una presunta purezza originaria dell'Islām, che costituiscono una costante periodica delle religioni monoteiste. Ma l'insegnamento di Abd al-Wahhāb fu presto improntato a un forte puritanesimo: oltre a imporre l'osservanza rigorosa della lettera del Corano condannava tutte le consuetudini religiose (come i pellegrinaggi alle tombe e la visita ai sepolcri di famosi musulmani, morti in odore di santità), ritenendole estranee al suo concetto di purezza (ben poco mistico e molto legalista). Ostile a ogni interpretazione personale della Legge islamica da parte dei giurisperiti musulmani, è sempre stato sospettoso verso le correnti mistiche del Sufismo.
21 Barbara De Poli, op. cit., p. 53.
22 Prendiamo ad esempio uno Shukri Mustafā, che parte all'attacco di tutte le conoscenze scientifiche, prendendosela anche con l'apprendimento della scrittura e della lettura; oppure un al-Mawdūdī e seguaci, che considerano non islamico sostenere che l'idrogeno mescolandosi con l'ossigeno produce acqua, perché si dovrebbe invece dire che quando questi due tipi di atomi si incontrano allora la volontà di Dio fa sì
che si abbia acqua!
23 Barbara De Poli, op. cit., p. 55.
24 Non stiamo scherzando: sono questioni affrontate con imprevista serietà dai saggi dell'islamismo radicale.
25 Se oggi spesso si sente deprecare che in vari paesi islamici la presenza cristiana - un tempo fiorente o addirittura maggioritaria - sia ridotta ai minimi termini, si dimentica che, essendo stati assai rari gli atteggiamenti persecutori, le attuali maggioranze islamiche sono frutto di processi opportunistici di conversione da parte della massa dei «cristiani» locali. Basti pensare all'Egitto, a maggioranza cristiana copta ancora all'epoca delle Crociate.
26 «Non ci sia costrizione nella religione» (2,257); «Di': la verità proviene dal vostro Signore, creda chi vuole, e chi non vuole neghi» (18,29); «Se il tuo Signore volesse, tutti coloro che sono sulla terra crederebbero. Sta a te costringerli ad essere credenti?» (10,99); «Da parte del vostro Signore vi sono giunti appelli alla lungimiranza. Chi dunque vede chiaro lo fa a proprio vantaggio, chi resta cieco, lo fa a proprio danno» (6,104); «Se Dio volesse, non ci sarebbero più idolatri, ma noi non ti abbiamo designato come loro custode» (6,107); «Ammonisci dunque, ché tu altro non sei che un ammonitore, non hai su di loro nessuna autorità» (88,21-22); «Chiama al sentiero del tuo Signore con saggezza e belle parole, e non discutere che nel modo più garbato» (16,125); «Di fronte all'autorità, tenetevi la vostra religione, io mi tengo la mia» (109,5).
27 Così, quando si dà la notizia di attentati radicali a moschee, omettendosi di specificare che si tratta di moschee sciite, il quisque de populi che la sente non capisce assolutamente nulla degli avvenimenti in questione.
28 I primi sono competenti sulla legge religiosa e i suoi princìpi; i secondi sono gli esperti nella precettistica concreta e nella casistica.
29 A) LE SCUOLE DELL'ISLAM SUNNITA
Un aspetto cronologico tutt'altro che privo di significato: tutte queste scuole (madhāhib; sing. madhhab) risalgono a un arco temporale che va dall'VIII al IX secolo della nostra era. Dopo di che non ne sono sorte altre. Il contributo di queste scuole alla formazione e al consolidamento della giurisprudenza islamica (fiqh, da cui fuqahā per indicare i giurisperiti) è stata ed è di primaria rilevanza. È perfettamente lecito passare da una scuola sunnita a un'altra, anche temporaneamente, per realizzare uno specifico negozio giuridico ammesso solo da una scuola e non anche dalle altre. Questo in conformità a una tradizione attribuita al Profeta, secondo cui la divergenza d'opinioni (ikhtilāf) sarebbe un bene per la comunità islamica: in realtà questi passaggi non avvengono per il forte radicamento della tradizione culturale vigente nelle singole aree del mondo islamico.
Ecco le quattro scuole:
- la Mālikīyya: fondata da Mālik ibn Anas (710-795). Recepì i costumi giuridici della regione araba dell'Hiğāz, con particolare riguardo a quelli di Medina. Ovviamente dà grande importanza agli hadith del Profeta. Presenta un carattere conservatore, solo apparentemente temperato dal ricorso al criterio della maslahạ («utilità per la comunità islamica»). È presente nell'Arabia orientale, nell'Alto Egitto, nel Maghreb e in Mauritania e Nigeria;
- la Ḥanafīyya: fondata da Abū Ḥanāfa (699-767) di Kufa. Fu la scuola ufficiale sotto i Califfi abbasidi e durante l'impero ottomano. È ancora forte in Egitto, Siria, Iraq, Turchia e Balcani, e presente in India, Pakistan e Asia centrale. Nell'insieme può essere considerata la più duttile nell'interpretazione della Legge islamica e la più «tollerante», in quanto lascia una certa libertà di valutazione (ra'y) al giudice. Pratica l'inferenza analogica e la valutazione discrezionale (istihsān). Vale la pena di ricordare che sul suo fondatore si appuntarono grossi sospetti di eterodossia;
- la Šāfit'a: il palestinese Muhāmmad ibn as-Šāfi'ī (767-820) puntò a una sintesi della scienza giuridica islamica classica incentrata, per quanto riguarda le fonti (usūl) primarie, sul Corano e sulla Sunna, svalutando invece l'analogia (qiyās) e il consenso (iğmā').Questa impostazione ha finito con l'influenzare anche la Hanafīya. La scuola di as-Šāfi'ī è oggi forte nell'Alto Egitto, in Siria, nell'Arabia meridionale, in Africa orientale e nel Sud-est asiatico;
- la Ḥanbalī: si tratta della più rigorosa fra le scuole giuridiche. Fu fondata da Ahmed ibn Ḥanbal (780-855), di famiglia sciita. Privilegia l'approccio letteralistico al Corano e alla Sunna. L'unica «apertura» sta nel principio in base al quale è lecito tutto ciò che non sia espressamente comandato o vietato. Non stupisce che abbia influenzato il movimento wahhabita. Oggi è forte in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi.
B) SCUOLE SCIITE
Due sono le scuole sciite più diffuse:
- la Zaydita, dal fondatore Zayd Ben' Alī, che fu il primo a effettuare la cernita e la raccolta degli ahādīth;
- la Jiafarita, fondata dal sesto imām, Ja'far ibn Muhhammad as-Sādiq; a valere sono solo le tradizioni degli
imām, discendenti del Profeta.
30 Un divieto alimentare molto rispettato dai musulmani riguarda la carne di maiale. Sembra tutto chiaro. Ma come metterla con la carne di cinghiale, per certi versi rientrabile nella categoria della cacciagione? È vietata o no? Alcuni giuristi dicono di no, altri di sì. Se in un paese abituato all'interpretazione favorevole al consumo di carne di cinghiale dovesse un giorno prendere il potere un fanatico come il talebano
mullāh Omar, allora per la popolazione sarebbe meglio affrettarsi a cambiare abitudini alimentari. Un altro àmbito in cui le interpretazioni islamiche divergono è quello dell'abbigliamento femminile. Si può comporre un ventaglio di interpretazioni che vanno dalla raccomandazione in favore di un abbigliamento «modesto», cioè pudico, all'obbligo del velo sulla testa, del chador o addirittura del burqa.
31 Il ricorso alla tradizione profetica si è sempre dovuto confrontare con le contraddizioni fra singole parti della tradizione stessa, per cui si è finito col privilegiare quei detti la cui catena di trasmissione testimoniale e mnemonica sia meglio attestata; oppure si è cercato di aggirare gli ostacoli dando a talune tradizioni il carattere di eccezioni rispetto a una regola generale. Il problema, poi, degli effetti abrogativi della successione delle norme nel tempo ha avuto il suo inquadramento e il suo limite nella diversità gerarchica delle fonti normative, nel senso che solo nel Corano può esserci l'abrogazione di una parte del Corano o della Sunna (tradizione profetica), e la Sunna non può subire gli effetti abrogativi di una norma di rango inferiore. A un certo momento, però, detti e fatti del Profeta hanno finito con l'acquistare un'importanza almeno pari (se non maggiore) rispetto al Corano, in quanto il Corano viene interpretato alla luce della Sunna.
32 In genere si segue la scuola prevalente nel paese di nascita, o quella della famiglia. In entrambi i casi c'è il vantaggio dell'uniformità di comportamento da parte della maggior parte della gente o della propria famiglia. Se si va in un paese straniero si aderisce alla scuola del luogo.
33 Barbara De Poli, op. cit., p. 81.
34 A proposito delle incongruenze e dei veri e propri salti mortali che a volte giudici e giuristi devono effettuare, De Poli cita il fatto che la sharī'ah riconosce come legittimi solo i figli nati dal matrimonio - e dalle schiave concubine che ormai non esistono più: o quasi. Problema socialmente enorme, a cui si è data una soluzione paradossale: il figlio di madre divorziata è comunque attribuito all'ex marito se nato in un periodo che - a seconda delle scuole giuridiche islamiche e della legislazione nazionale - può arrivare fino a sette anni dalla fine del matrimonio! In Marocco è un anno. Tutti sanno che la gestazione umana è di nove mesi, ma questo non ha scoraggiato gli ingegnosi giuristi dell'Islām, i quali hanno ideato la tesi del «feto
dormiente» (!), che può rimanere latente nell'utero della madre per molto tempo.
35 Per approfondire l'argomento si veda: Leonardo Capezzone, Marco Salati, L'Islam sciita, Edizioni Lavoro, Roma 2006.
36 La figura di Khomeini è certamente complessa, al di là delle antipatie e simpatie che può suscitare, tanto più se si considera che fu un esperto di esoterismo islamico.
37 Vale a dire giurisperito che abbia compiuto studi teologici e giuridici presso la hawza 'ilmiyya (circolo di studio religioso tradizionale) e che abbia ricevuto il permesso di effettuare l'ijtihad (la reinterpretazione della tradizione giuridica islamica) da uno studioso già titolare di questo ruolo, e che - dopo aver dimostrato la sua effettiva capacità di effettuare l'ijtihad nel corso di numerosi anni - venga dunque riconosciuto come un primus inter pares dagli altri marja' e disponga di un rilevante numero di seguaci. Oggi l'āyatollāh Seyyed 'Ali Hosseini Sistani (iraniano ma residente in Iraq) è considerato il più importante marja' vivente; in Libano vi è poi l'āyatollāh Seyyed Mohammad Hossein Fadlallāh. D'altro canto anche in Iran i «concorrenti» non mancano: 'Alī Hosseini Sistani, Hossein 'Alī Montazeri, Abdolkarim Mousavi Ardabili, Safi Golpaygani ecc. Ultimamente anche Khamenei si è proposto come marja', ma senza successo,
per la mancanza di un numero consistente di credenti (muqallidun) e per le contestazioni di chi è già in possesso del titolo.
38 Significativamente essa non comprende fra tali minoranze gli odiati Sunniti.
39 Da talib, studente (pl. taliban).
40 Il qādī in epoca classica era un magistrato di nomina politica incaricato dell'amministrazione della giustizia ordinaria utilizzando le scienze religiose (al-'ulūm al-dīniyya). Dal secolo XIX la sua giurisdizione non si estendeva più a tutto il diritto civile e penale, ma era limitata al diritto familiare.
41 'Alī Abd ar-Rāziq, L'Islam et les fondements du pouvoir, Le Fennec, Casablanca 1994, p. 138.
42 Come accade nell'Unione indiana.
43 Altre previsioni sono nelle sure della Vacca (2,108-109 e 2,161-162), della Famiglia e di Imrān (3,90-91 e 3,177), delle Donne (4,137 e 4,167), della Mensa (5,73), nella stessa sura del Pentimento (9,66), in quella delle Api (16,106) e del Discrimine (25,55).
44 In Tel-Quel, n. 218, mars 2006, pp. 25-31.
45 Ṭāriq Ramaḍān, Essere musulmano europeo, Città Aperta, Troina 2002.
46 Diamo qui l'elencazione dei vari tipi di abbigliamento in uso nelle società musulmane: rusari, o chador, tipico dell'Iran, di colore nero, incornicia il volto e lascia scoperti fronte, occhi, labbra, naso e mento, scendendo fino ai piedi; hijab, diffuso in Turchia e nella maggior parte dei paesi arabi, copre i capelli delle donne lasciando scoperto il volto, e non è necessariamente nero; nikab, meno diffuso nei paesi sunniti (a parte l'Arabia Saudita), consiste in un velo integrale nero che lascia scoperti solo gli occhi; burqa, tipico dell'Afghanistan, copre tutto il corpo e ha una specie di grata all'altezza degli occhi per consentire la visuale.
47 Shaīd Ayatu 'Llāh Murtada Mutahharī, I diritti della donna nell'Islam, Centro Culturale Islamico Europeo, Roma 1988, p. 26.
48 Il 18 febbraio del 2009 un giornale saudita ha dato la seguente notizia: un tribunale islamico ha dichiarato valido il matrimonio di un ultracinquantenne con una bambina di nove anni nella città di Anidh, rigettando il ricorso della madre della bambina, che aveva chiesto di impedire le nozze. La motivazione è stata che la bambina, una volta diventata adolescente, potrà sempre chiedere la separazione! A luglio dell'anno passato attiviste saudite impegnate nella difesa dei diritti umani avevano invano tentato di impedire le nozze, nella regione di Hael, tra un sessantenne e una bambina di dieci anni. Del Corano sono importanti i seguenti passaggi: (2,223), (4,15; 34; 127-130), (7,189), (24,4-9; 30-31; 60), (30,21), (33,59).
49 Fatema Mernissi, La peur modernité, Albin Michel, Paris 1992.
50 Vi sono poi le raffigurazioni del paradiso islamico, che ormai vari esegeti (non tutti, però) considerano allegoriche, ma che per secoli sono stati di stimolo a tanti combattenti della «guerra santa». Quale più allettante prospettiva per un uomo rispetto a quella di disporre nell'aldilà, oltre alle mogli avute in terra, di ben 70 urì (perennemente vergini, nonostante la continua erogazione di servizi paradisiaci ai fedeli musulmani) e di poter fruire di orgasmi della durata minima di 24 anni l'uno? Al confronto il paradiso cristiano è di una noia tanto mortale quanto eterna.
51 Come quella della sura 24,30: «Di' alle credenti che non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quello che appare esteriormente, e si coprano il seno con un velo».
53 Per i musulmani il diritto di famiglia fa parte della sharī'ah, e quindi non rientra nei normali codici civili, bensì in leggi o codici specifici denominati per l'appunto «statuti personali». Questo ovviamente non vale per la Turchia e l'Albania.
54 Si noti che lo stesso sistema di distinzione degli organi giudiziali in statali e religiosi vige anche in Israele: esiste uno specifico tribunale religioso per ognuna delle religioni riconosciute (tribunali rabbinici ebrei, tribunali islamici, tribunali cristiani e tribunali drusi), ciascuno con un proprio specifico àmbito di competenza, con giurisdizione concorrente con quella dei tribunali statali.
55 Musulmani Sunniti, Musulmani Sciiti, Musulmani Alawiti, Musulmani Ismaeliti, Drusi, Maroniti, Greco-Ortodossi, Melchiti, Armeni Ortodossi, Armeni Cattolici, Siro-Ortodossi, Siro-Cattolici, Assiri (Nestoriani), Caldei, Cattolici Latini, Protestanti, Copti Ortodossi, Israeliti.
56 A parte il caso di matrimonio civile tra due libanesi celebrato all'estero. Tra le competenze dei tribunali confessionali c'è naturalmente il diritto matrimoniale per quanto riguarda: le condizioni e gli obblighi, la validità e la nullità del vincolo, la separazione e il divorzio, le contestazioni su corredo e dote in costanza di matrimonio.
57 Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea, Bompiani, Milano 2006, p. 42.