Considerazioni preliminari
La guerra civile in Mali ha riportato alla
ribalta della cronaca il peggior radicalismo islamico, oltre tutto in una zona
strategicamente fondamentale per le possibilità di irradiazione che offre verso
l’Africa del Nord e quella subsahariana. A dire il vero anche gli avvenimenti
siriani dovrebbero essere visti nella stessa ottica, stante il fatto che il
cosiddetto “Esercito Libero Siriano” è in realtà ormai controllato e
soverchiato da estremisti provenienti da altri paesi.
Inoltre l’ascesa elettorale di partiti
islamisti al governo di Tunisia, Egitto e Marocco - a prescindere dalla
benevolenza loro dimostrata da Washington - non cessa di suscitare varie
perplessità. È probabile che tutto questo ridia voce ai teorici dello scontro
di civiltà, termine ormai diventato una specie di luogo comune, nonostante che
i veri specialisti l’abbiano messo in discussione da vari punti di vista.
Per quanto riguarda il vero e proprio radicalismo
islamico (sunnita, per quel che ci interessa), che non sembra essere incarnato
dai partiti al governo nei paesi citati, ancora ai più non è chiaro che esso in
realtà è in conflitto con tutto il resto che lo circonda: non solo l’Occidente,
ma anche lo stesso Islam non-radicale e l’Islam sciita - come è attestato dall’individuazione
delle vittime del terrorismo radicale all’interno delle società musulmane; cosa
che però i media omettono di evidenziare.
Se consideriamo che né Giudaismo né
Cristianesimo sono stati e sono immuni da fenomeni di intollerante e dispotico
radicalismo religioso, allora vedere nel radicalismo islamico la proiezione di
un dato sostanziale e necessario dell’Islam - quindi una sorta di fatalità “fisiologica”
- invece del risultato di una complessa serie di fattori storici, sarebbe un
grosso errore di prospettiva, prima ancora espressione di un soggiacente
razzismo eurocentrico. A chi abbia ben studiato il Corano e i detti del profeta
Muhammad, nonché lo sviluppo del pensiero islamico e la storia delle società
musulmane non sfuggono alcuni profili importanti.
Il primo è che se effettivamente la storia
islamica fosse la copia passata del radicalismo odierno, allora tutti i libri
che la riguardano dovrebbero essere buttati e riscritti, perché non si potrebbe
parlare della grande civiltà espressa in passato se il radicalismo avesse avuto
l’opportunità di dominare quel mondo in quei periodi. L’altro profilo è che dal
Corano (come del resto dalla Bibbia) è possibile ricavare tutto e il contrario
di tutto, talché se si abdica all’uso dell’intelligenza i guai storicamente ben
noti sono inevitabili. Vi è poi un terzo profilo - il più importante ai nostri
fini - da cui si percepisce la sostanziale natura antislamica proprio del
radicalismo musulmano, cosa che del resto i recenti fatti nel Mali (come la
distruzione di santuari e tombe di santi sufici islamici) presentano con tutta
evidenza.
Lasciamo stare la nota questione del terrorismo
kamikaze in rapporto al divieto di suicidio, e concentriamoci invece su
qualcosa di più strutturale. Il radicalismo islamico pretende di modellare usi
e costumi sociali secondo i propri criteri, di imporre le proprie
interpretazioni del Corano, dei detti del Profeta e della cosiddetta “legge
islamica”, nonché di stabilire chi sia o non sia musulmano. Ebbene, nell’Islam
in quanto tale non esistono legittime autorità religiose centrali o locali,
nessuno può imporre le proprie interpretazioni ad altri musulmani - cosa
espressa da un detto di Muhammad per cui la sua comunità non sarà mai unita
nell’errore (che nessuno può dichiarare tale in mancanza della debita autorità!)
- e il Corano dice a tutte lettere che non ci può essere costrizione nella
religione (Corano, 2, 256). Ciò non toglie che nella storia del mondo musulmano
non sono mai mancate scuole e/o sette presentatesi arbitrariamente come
portatrici del “vero” Islam, in opposizione agli avversari.
La questione dell’antislamicità di certe
componenti autoaffermatesi portatrici della “vera” ortodossia, in teoria sarebbe
un bell’arma propagandistica per gli avversari; in teoria, perché senza i
necessari mezzi economici e senza un’adeguata rete di diffusione dei messaggi
la cosa resta al massimo in circoli limitati. E di mezzi e reti (grazie ad
Arabia Saudita, Qatar e banche islamiche) dispongono invece islamisti e
radicali.
Intransigenza religiosa e radicalismo
islamico: non sono cose nuova, ma… Un po’ di storia per inquadrare
Anche nei periodi di maggior fulgore dall’interno
del mondo islamico si sono formati movimenti radicali, anche estremi. Alcuni
furono sconfitti a opera dello stesso potere politico musulmano (come i
Carmati); altri - come gli Almoravidi e gli Almohadi del Marocco - arrivarono a
costituire piccoli imperi e a dominare la parte non-cristiana della penisola
iberica, ma finirono col cedere alle “tentazioni e mollezze” della ben diversa
civiltà di al-Ándalus. Fino alla seconda metà del secolo scorso di superstite
radicalismo islamico c’era solo, a dominare nell’Arabia Saudita, il wahhabismo,
fondato nella prima metà del sec. XVIII da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab
(1703-1792) come corrente militante avversa a tutto il resto del mondo islamico
e stabilmente alleatasi con quella dinastia dei Sa’ud, signori di Dir’iyya, che
dopo la Grande Guerra arrivò a dominare quasi tutta la penisola araba.
Naturalmente, al di fuori da questi fenomeni le interpretazioni coraniche molto
rigide e senza spazio per il libero pensiero hanno finito col prevalere, pur
senza diventare il punto di partenza per la creazione di movimenti politici
definiti.
Parlando di fattori storici alla base del
retroterra culturale che favorisce l’espansione sia dell’intransigenza
religiosa sia del radicalismo islamico non si devono trascurare eventi di un
passato lontanissimo per il sentire europeo, ma ancora produttivo di effetti.
Ripercorrendo sinteticamente il percorso islamico non si deve dimenticare che
le specificità dell’evoluzione storica dell’Europa occidentale non sono affatto
espressione di un paradigma evolutivo valido per tutti i popoli, cioè da
prendere come pietra di paragone per valutare i gradi di vicinanza/lontananza e
quindi dare giudizi di maggiore o minore arretratezza.
Nel corso dei primi secoli della storia delle
società islamiche di lingua araba ci fu il progressivo formarsi e rafforzarsi,
come gruppi di potere, di un ceto di Dottori della Legge (sing. ‘ulamaa; pl. ‘alim) assolutamente privo
di giustificazione alla stregua del Corano, arrivati ad arrogarsi il ruolo di
custodi di un’ortodossia religiosa qualificatasi per un estremo
antirazionalismo. La grande vittoria degli ‘alim si ebbe precisamente
durante il califfato degli Abassidi di Baghdad che sul finire del X secolo, con
il califfo al-Mutawakkil, iniziarono a perseguitare la corrente teologica dei
Mutaziliti (in precedenza dominante), detti anche i razionalisti dell’Islam. Fu
praticamente nel secolo XI che si stabilizzò la cosiddetta riscossa sunnita,
con un radicale cambio di rotta in un ambiente che aveva effettuato la
riscoperta della grande filosofia greca, aveva dato vita a filosofi di tutto
rispetto e a uno sviluppo scientifico sicuramente superiore a quello dell’Europa
occidentale. Già il rogo delle opere di Averroè (ibn Rushd) aveva segnato la
fine della filosofia nel mondo musulmano sunnita, pur se il pensiero filosofico
sarebbe proseguito, con moduli particolari, negli ambienti sciiti (iraniani in
specie), ma la condanna a morte del filosofo mistico sciita Sohrawardi, voluta
dal Saladino nel 1193, rappresentò per gli ambienti sunniti la definitiva
chiusura di una fase culturale.
I secoli successivi al XII della nostra era
sono stati per buona parte del mondo islamico sunnita all’insegna di una
sclerosi culturale coniugata con una chiusura verso l’esterno, se si esclude
una certa rinascita culturale nel Maghreb e l’opera dell’ultimo grande
intellettuale musulmano, ibn Khalduun. Il tutto favorito da tumultuose vicende
che non potevano lasciare il segno nel senso di sfavorire i dinamismi
culturali: devastante invasione mongola arrivata fino in Siria e Palestina e
distruzione di Baghdad nel 1256; altrettanto devastante invasione dei
mongolo-tartari di Tamerlano (Timur-i-leng) a cavallo fra i secoli XIV e XV;
caduta dell’ultimo ridotto di Granada nella penisola iberica e annientamento
della splendida civiltà di al-Ándalus; distruzione dell’impero mamelucco di
Damasco e Cairo a opera dei Turchi ottomani; continue guerre con l’Europa
cattolica, almeno fino al sec. XVII; due secoli buoni (anteriormente alla
battaglia di Lepanto) di ampie devastazioni della costa nordafricana a opera di
portoghesi e spagnoli; a Oriente crollo dell’impero sciita di Persia sotto i
colpi di tribù afghane. A una deleteria stasi tecnologica si accompagnò per i
commerci il decadere dell’importanza delle vie terrestri e marittime della seta
e delle spezie in virtù dell’apertura delle rotte oceaniche da parte degli
europei.
Nel sec. XVIII continuò il sonno culturale.
Intanto in Europa c’erano stati la Riforma protestante con la rottura dell’unità
religiosa del mondo occidentale; l’Illuminismo; l’avvio di una rivoluzione
scientifica mai più arrestatasi e infine il consolidamento di un pensiero laico
alternativo a quello religioso o da esso indipendente.
Il sonno islamico fu aggravato dal progressivo
indebolimento dell’Impero ottomano in Europa e dalla rapida disintegrazione di
quello mogol in India, e in questa fase di decadenza fu definitiva la stasi
nello sviluppo tecnologico (in precedenza alquanto evoluto, e senza il quale
gli ottomani non avrebbero potuto disporre di un’artiglieria superiore a quella
europea per creare il loro impero). Tuttavia nel complesso - anche grazie al
ruolo non-estremista svolto dal potere ottomano (a cui era sfuggito solo il
Marocco) - l’Islam delle società musulmane fu abbastanza “moderato” con varie
tendenze e scuole interpretative; e i Dottori della Legge erano sottoposti a
uno shaikh al-Islam uomo del Sultano di Costantinopoli, il che ne riduceva
(anche se non eliminava) velleità e prevaricazioni.
Si affaccia il problema della “modernizzazione”,
bloccata dall’imperialismo
Il sonno beato di questa parte di mondo finì
nel 1798, con l’invasione dell’Egitto compiuta dall’esercito francese del
generale Napoleone Bonaparte. Un brusco risveglio certo, ma esso avrebbe potuto
essere positivo se non ci fossero state interferenze esterne.
L’esigenza di mettersi al passo con il più
progredito Occidente su vari piani non poteva che produrre l’opposizione dei
settori tradizionalisti e radicali, ma ciò nonostante - e particolarmente tra
le classi dirigenti turche, egiziane e tunisine - si diffuse un vivace
movimento in favore di una modernizzazione che doveva investire l’apparato di
Stato, il complesso produttivo e le forze armate in termini organizzativi e
tecnologici. L’obiettivo era operare affinché anche l’Impero ottomano e le sue
regioni più o meno indipendenti di fatto conseguissero con pari dignità un
posto autonomo all’interno del più ampio mondo che si intendeva raggiungere.
Dal progressivo e stabile raggiungimento di tali risultati dipendeva - in
sostanza - l’acquisizione progressiva del consenso da parte dei settori
tradizionalisti delle società civili coinvolte
Figuriamoci se simili progetti avrebbero mai
avuto l’appoggio o quanto meno la neutralità dell’Occidente, in pieno slancio
coloniale e imperialistico. Infatti si andava sempre più riducendo l’area
islamica non soggetta a dominio europeo: l’India mogol non esisteva più; la
Persia era prostrata e oggetto degli appetiti di Russia e Gran Bretagna; il
Caucaso e le steppe dell’Asia entravano progressivamente nell’azione imperialistica
russa; in Africa settentrionale l’Algeria sarebbe stata la prima a cadere,
nelle mani della Francia; in seguito l’Egitto - strangolato dalla politica del
debito - finiva sotto protettorato britannico, sia quando era ancora
formalmente parte dell’Impero ottomano, sia quando acquisì l’indipendenza da
esso; poi toccò alla Tunisia e all’Africa subsahariana, occupate dalla Francia;
al Marocco, diviso fra Spagna e Francia e infine alla Libia, conquistata dall’Italia.
Ovviamente tutto questo frenò e bloccò i
processi di modernizzazione autoctoni, per dare luogo a una modernizzazione
sfruttatrice da parte delle potenze coloniali. Pur tuttavia il progresso dell’Occidente
- sebbene detestato da molti - costituiva un “oggetto del desiderio”, produceva
invidia, inconfessati e inconfessabili complessi di inferiorità e per vari
settori superiori delle società islamiche restava un modello. Questo sarebbe
durato fino alla seconda metà del sec. XX. Tuttavia la posizione estremamente
subordinata alle potenze coloniali alla lunga per forza doveva dare luogo al
diffondersi di una crisi di identità, talché l’opposizione alla modernizzazione
occidentalizzante finiva con l’acquisire il valore di affermazione di identità
e di esistenza autonoma.
Un’ulteriore fase catastrofica ha avuto luogo
subito dopo la Prima guerra mondiale: alla sconfitta dell’Impero ottomano
fecero seguito la spartizione dei suoi residui territori arabi fra Gran
Bretagna e Francia e la creazione di Stati artificiali come il Libano, la
Transgiordania e l’Iraq, con altrettanto artificiali confini tracciati con la
matita sulle mappe. L’appendice di questa vasta opera predatoria - foriera di
enormi devastazioni nell’area - fu la creazione britannica di un “focolare”
ebraico in Palestina per l’installazione di coloni sionisti di origine europea.
Dopo la Seconda guerra mondiale le potenze
coloniali dovettero riconoscere l’indipendenza formale dei loro domini arabi, e
finirono con prendere il potere élites in un certo senso modernizzatrici e
alquanto laiche, generalmente di estrazione militare. Esse però gestirono il
potere in modo autoritario o dittatoriale. La loro politica tuttavia fu poco
condizionata dal fattore religioso. Almeno agli inizi.
La sconfitta araba nella Guerra dei sei giorni
del 1967 può essere considerata un fattore esterno del declino dei cosiddetti “regimi
arabi progressisti”, venutosi a coniugare con i fattori interni. Questi regimi
- osteggiati dall’Occidente e aiutati dall’Urss solo militarmente per i propri
fini geostrategici - non sono riusciti a realizzare gli obiettivi promessi, con
ciò contribuendo alla crisi di fiducia popolare nei loro confronti. Corruzione
governativa diffusa, compromissioni con le stesse potenze imperialistiche,
persecuzioni dei movimenti di sinistra e dei sindacati, mancato decollo
economico, mancata formazione di borghesie produttive e di un proletariato
cosciente, sottosviluppo, miseria sociale e altro dovevano per forza risolversi
in favore dell’unica alternativa disponibile: l’Islam “politico”.
E qui sono entrati in gioco vari fattori, più o
meno a far tempo dagli anni ’70.
Dagli anni ‘70
Cominciamo con l’Algeria dove, sotto il regime
(progressista?) di Huari Boumedienne, al fine di incrementare l’arabizzazione
del paese (dove si parlava essenzialmente il dialetto locale, e non la lingua
colta che consente agli arabi dei vari paesi di comprendersi fra loro) si fece
ricorso alla massiccia “importazione” di insegnanti egiziani e siriani, ma per
lo più legati alla Fratellanza Musulmana (al-ikhwaa’n al-muslimuu’n), di modo che il
processo di arabizzazione si risolse in un’islamizzazione spinta, saldatasi col
fatto che durante la lunga guerra contro la Francia per l’indipendenza in quel
paese l’Islam aveva già assunto la funzione di ideologia di resistenza al dominatore
straniero.
Nel quadro della contrapposizione
internazionale contro il “blocco sovietico” i governi arabi in vario modo
legati all’Occidente - pur perseguitando i nuclei estremisti, o ritenuti tali -
optarono in favore della diffusione delle ideologie religiose nelle Università,
in modo da sottrarre la futura classe dirigente alle ideologie marxiste o
genericamente di sinistra. La cosa ha avuto successo, di modo che oggi la
composizione sociale del mondo islamico radicale non è affatto ridotta a settori
poveri, emarginati e ignoranti, bensì include fior di laureati, anche e
soprattutto in materie scientifiche. E qui abbiamo il paradosso della
coesistenza fra preparazione scientifica e ripudio della razionalità e del
pensiero indipendente (ma non sempre ciò che è reale è razionale). Da non
trascurare l’importanza dell’iniziativa assunta da Sadat nel 1980, cioè l’aver
inserito nella Costituzione egiziana la previsione del diritto islamico come
fonte fondamentale della legislazione statale.
La crisi petrolifera in occasione della Guerra
del kippur del 1973 ha dato all’Arabia Saudita - centro del radicalismo
religioso wahhabita - l’occasione per utilizzare le accresciute entrate
petrolifere in una duplice direzione: ridurre il ruolo egemonico dell’Egitto
nel mondo arabo e finanziare nel mondo una vasta rete di moschee, scuole
coraniche e movimenti religioso-politici estremisti, in ciò favorita dall’azione
di finanziamento delle banche islamiche a movimenti ed esponenti radicali.
Non va trascurato l’impatto psicologico della “Rivoluzione”
iraniana del ’79 nel mondo arabo. Impatto più psicologico che politico, va
detto, trattandosi di evento politico all’interno dell’area sciita (e non
sunnita) e dalle caratteristiche piuttosto spurie (se non blasfeme) per l’ottica
radicale sunnita. Infatti, l’Iran khomeynista ha una Costituzione chiaramente
modellata sullo schema europeo e in cui - per lo meno a parole - la sovranità
viene attribuita al popolo. Pur tuttavia tra i sunniti (tradizionalisti e
radicali) non poteva non scattare il ragionamento “se ce l’hanno fatti gli
sciiti…”.
Pure importante è stato il fallimento dei “regimi
progressisti” in termini di “architettura socio-economica”, a cui si è dianzi
accennato. La mancanza di un vero decollo economico endogeno ha lasciato gli
strati superiori della società alle prese con ruoli puramente parassitari (le
famose “borghesie compradoras”), situazione che di conseguenza ha coinvolto
anche i ceti medi nella loro globalità (medio-alti, medi in senso stretto e
medio-bassi), che per un certo periodo erano stati attivi e vivaci
culturalmente. Questi ambiti sociali, tutt’altro che ostili alla
modernizzazione, hanno perso il ruolo di punto di riferimento e modello per il
resto della società. L’esempio più eclatante si ha in Egitto, dove gli standard
culturali (un tempo elevatissimi) si sono qualitativamente ridotti, con
ricadute sulla stessa dimensione linguistica, stante la maggiore diffusione
della parlata popolare rispetto a quella colta, ribaltando la situazione precedente.
In merito al proletariato arabo (il più delle
volte trattasi di sottoproletariato) è eclatante la mancanza di una classe
operaia organizzata, con l’eccezione parziale di Tunisia ed Egitto. Per
esempio, le lotte operaie egiziane del 2008-2009 (poco note in Occidente)
avevano acceso speranze, poi dissoltesi nelle urne del dopo-Mubarak. In Tunisia
la maggiore opposizione al regime islamico e all’ala salafita viene dai
sindacati. Tuttavia anche qui si fa sentire la mancanza di un’ideologia davvero
alternativa all’islamismo politico; un’ideologia che - stante l’ambiente
circostante - sia socialmente e politicamente efficace, oltre che concretamente
non tacciabile di ateismo (e quindi di blasfemia), cosa che ha tagliato le
gambe al marxismo, prima ancora delle repressioni governative.
Sul nefasto ruolo esercitato dalle potenze
occidentali - Usa in testa - è stato detto e scritto tantissimo. Pur tuttavia
ancora non si è ben fissato nella memoria collettiva il grande contributo dato
dagli Stati Uniti al rafforzamento del radicalismo musulmano, sia mediante l’alleanza
con l’Arabia Saudita, sia con l’appoggio bellico ed economico alla guerriglia
islamica in Afghanistan, i cui reduci poi avrebbero diffuso il virus in tutto
il mondo musulmano.
La guerra contro l’Iraq del ‘90-’91 non solo fu
vissuta nel mondo arabo come un’aggressione occidentale, ma produsse un effetto
- poco considerato dai media - con cui poi avrebbero fatto i conti gli
Statunitensi con l’invasione dell’Iraq durante il secondo conflitto: il laico
Saddam Hussein in luogo della bandiera nazionalista del Partito Socialista Baath (Rinascita) aveva
rispolverato e tirato fuori quella islamica della guerra santa contro gli
infedeli.
Possiamo considerare “fascismo religioso” il
radicalismo islamico?
Effettivamente non mancano quanti usano questa
espressione qualificativa, utilizzando a supporto vari aspetti analogici. Se si
cerca uno slogan a effetto capace di produrre risultati propagandistici
facilmente assimilabili, l’espressione si presta più che bene. Tuttavia - se è
vero che parlare male fa anche pensare male - assimilare a un fenomeno
specifico (e ben definito nelle sue connotazioni) un fenomeno considerabile
addirittura di altro genere (cioè da un lato un fenomeno essenzialmente
politico, e da un altro lato un fenomeno essenzialmente religioso) genera delle
perplessità sul piano non solo della correttezza scientifica ma anche della
logica. Altrimenti si potrebbe anche parlare del Cattolicesimo medievale come
forma di fascismo religioso ante litteram, ma con pesante assunzione di
responsabilità culturale.
Allora molto meglio trattare delle
caratteristiche politiche e socioeconomiche del radicalismo islamico senza
relazionarlo con alcunché in termini comparativi.
Politicamente si tratta di un’ideologia di
dominio - innanzi tutto sulle stesse società musulmane - che indubbiamente per
diffondersi fa leva su assetti oggettivi di disuguaglianze e di ingiustizie
sociali, economiche e politiche, di cui a livello di massa si vorrebbe la fine.
Ideologia di dominio perché portatrice di una visione dell’ordine sociale
assolutamente totalitaria (definirla solo “autoritaria” sarebbe riduttivo),
infarcita di odio e fanatismo ideologico. Solo chi ha deciso di abdicare all’uso
della razionalità, o non l’ha mai fatto né potuto fare, non percepisce che il
disegno politico del radicalismo musulmano si sostanzia in una specularità non
rovesciata rispetto a ciò che combatte; vale a dire che si tratta di un disegno
basato su oppressione, ingiustizia, discriminazioni, degradazione culturale e
trasformazione di Allah e del Corano in feticci sostitutivi del dio-dollaro
(nella forma). Ma non nella sostanza, come si dirà in seguito.
Oltre ai giovani acculturati spesso privi di
sbocchi economici, il radicalismo fa leva sugli strati più poveri della società
- che vanno dai salariati di basso livello ai contadini inurbati per
disperazione ma senza prospettive, piccola borghesia dei bazar e parte dei
Dottori coranici. Si può dire che per molti di costoro l’appeal della religione
funzionerebbe meno senza gli effetti devastanti della crisi capitalistica nelle
società arabe.
Sul piano economico sociale il quadro è
chiarissimo, soprattutto nel vuoto velleitarismo che anima i discorsi dei
radicali: essi sono portatori di un interclassismo gattopardesco in virtù del
quale tutto deve cambiare perché le cose restino come prima.
Non solo esponenti e dirigenti del radicalismo
islamico si pongono come “nuova classe”, ma dai loro programmi nulla emerge
circa un eventuale superamento (fuori dalla moschea) della divisione in classi
e dello sfruttamento, cosicché ne risulta un sistema economico-produttivo del
tutto compatibile col mondo circostante. In definitiva si tratta della vecchia
bugia di un capitalismo senza gli effetti del capitalismo perseguito nel quadro
di un’esaltazione religiosa di massa.
Da un po’ di tempo i media politicamente
corretti, già diffusori della categoria di “Islam moderato” - in contemporanea
con il giro di boa della politica di Washington che ha aperto le braccia ai
regimi islamici di Tunisia ed Egitto - hanno inserito in tale categoria anche
la Fratellanza Musulmana (al-Ikhwaan al-Muslimuun), che invece gli
specialisti di islamologia fino a ieri assimilavano all’ala estremista dei
Salafiti, che oggi invece è stata scorporata dalla Fratellanza.
Il fatto che la maggiore potenza imperialistica
del mondo possa instaurare buoni rapporti con la Fratellanza e i suoi
capitalisti fare buoni affari con essa non deve affatto stupire. Già era
accaduto con i ben più estremisti Talebani dell’Afghanistan. La facile caduta
dei regimi abbattuti dalla cosiddetta “primavera araba” non erano più né
sostenibili né davvero utilizzabili, mentre i governi instaurati dalla
Fratellanza in definitiva difendono la proprietà privata, il sistema del
salario e la divisione della società in classi; la forza-lavoro può restare
flessibile e basso costo, i sindacati correttamente islamizzati. Alla fin fine
nel progetto radicale i lavoratori restano assolutamente sottomessi al capitale
e col cervello “bevuto” dalla religione. Tutti genuini “valori” americani, di
fronte ai quali diventano quisquilie le spinte interne teocratiche e l’oppressione
socioculturale di laici e minoranze religiose. Lo ripetiamo ancora una volta:
agli imperialisti non importa nulla delle violazioni dei diritti umani né della
difesa delle società laiche: tant’è che l’applicazione della sharía non desta sussulti se
avviene in Arabia Saudita o in Pakistan. Sempre che - è ovvio - non si
sviluppino anche concreti atteggiamenti esterni contro l’imperialismo. Ma in
questo caso, alle brutte, nulla vieta i bis dell’Iraq e della Libia.
Islam politico e radicalismo islamico hanno
a che vedere con la lotta di classe?
La risposta non può che essere positiva se
intendiamo la lotta di classe come una dialettica che coinvolge oltre al “proletariato”
anche e soprattutto la borghesia - della quale deve dirsi che sa come condurre
questa lotta e soprattutto possiede una coscienza di classe di tutto rispetto.
Già in un paragrafo precedente si è accennato
al significato dell’interclassimo della Fratellanza Musulmana. Qui si ritiene
opportuno fare un più puntuale riferimento al pensiero di uno dei maestri della
Fratellanza quando era estremista, quel Sayyid Qutb (1906-1966), moderno
teorico del radicalismo islamico, che fu mandato a morte da Nasser (’Abd
al-Naasir). Da ciò risulterà con evidenza la motivazione della risposta data
alla nostra domanda.
Qutb ha delineato una società islamica dotata
dei seguenti caratteri:
Armonica: in quanto sottoposta alla sharía, e senza classi
essendo tutti uguali di fronte alla legge (!!)
Equa: perché tutela la proprietà privata (mezzi di
produzione compresi) e il mercato capitalistico attribuisce all’“equità fiscale”
(!) la funzione del riequilibrio socioeconomico e prevede una non meglio
specificata “equa divisione del profitto” fra datori di lavoro e lavoratori
(peraltro privi di potere riconosciuto).
E la rappresentanza politica? In proposito Qutb
è ben distante dagli esiti della stessa rivoluzione khomeynista in Iran.
Infatti niente parlamento né tanto meno soviet: la soluzione proposta sta nella
shura
islamica, cioè un organismo consultivo a cui tutti possono liberamente
partecipare. Immaginiamo un po’! Ovviamente lo Stato viene presentato come super
partes,
ma comunque benevolo verso i poveri.
Se questa non è ideologia di classe dal lato
della borghesia (islamica, nella specie), non sapremmo come qualificarla. E
perfettamente in linea appare l’attuale posizione della Fratellanza Musulmana
egiziana palesemente in favore del liberismo economico, delle privatizzazioni,
come pure l’opposizione al diritto di sciopero.
Ancor peggiore è la posizione del radicalismo
vero e proprio, dove ogni ipotetico discorso di rivoluzione sociale viene
sorpassato dal dogma per cui l’Islam tutto risolve e al posto di qualsiasi
Costituzione va messa la sharía (interpretata e imposta nel modo più rigido e
ottuso possibile).
Che le classi dirigenti islamiche in Tunisia,
Egitto e forse anche in Marocco e Giordania appaiano fortemente imborghesite è
un fatto; e questo apre la via a un problema già anticipato nel 1992 dall’islamologo
francese Olivier Roy, col libro Fallimento dell’Islam politico: il problema è se
ancora abbia senso parlare di contrapposizione fra islamismo e laicità essendo
venuta meno, a suo dire, il nesso fra «impegno religioso e rivendicazione
politica». Questo perché Roy sostiene che saremmo ormai di fronte al fallimento
dell’Islam politico anche se ciò non vorrebbe dire automatica vittoria di un
mondo arabo laico. Su quest’ultima parte del suo discorso i fatti obbligano a
convenire. Già sarebbe tanto di guadagnato (oggi come oggi) se nel mondo
musulmano la legislazione e le autorità verso gli ambienti laici - oltre a
rispettarli e farli rispettare da chi laico non è - consentissero gli spazi
adeguati e pari dignità.
Ad ogni buon conto attualmente - dopo la
cosiddetta “primavera araba” - l’unico Stato arabo e musulmano laico rimasto in
piedi è la Siria, ma non si sa ancora per quanto tempo.
Ha davvero fatto fallimento l’Islam
politico?
A questo punto facciamo un nostro ragionamento
non basato sullo scritto di Roy, di cui in buona parte non condividiamo le
tesi.
Noi non abbiamo dubbi sull’incapacità dell’Islam
politico - per come si è finora connotato in teoria e in pratica - a gestire in maniera
minimamente efficace società moderne (come quelle nordafricane e del Vicino
Oriente), cioè senza produrre recessioni di tipo afghano e senza dover
ricorrere agli inerenti metodi dittatoriali. Non vi è dubbio che con le
vittorie elettorali in Tunisia, Egitto e Marocco (e probabilmente domani in
Giordania) i partiti islamisti vittoriosi si sono messi fortemente in gioco
istituzionalizzandosi, per così dire. La nostra profezia è che se non vorranno
portare al completo tracollo economico e politico le loro società dovranno
prendere sempre di più le distanze dai salafiti e, mancando di obiettivi
definiti (al di là delle chiacchiere) e delle connesse strategie, saranno
costretti a un pragmatismo politico estraneo al loro spirito originario e da
esso lontano. Il che già sta accadendo in Egitto. Un altro esempio viene dalla
Tunisia, dove la Costituente alla fine non ha modificato il vecchio art. 1
della Costituzione che pur sancendo l’Islam come religione dello Stato,
nonostante le spinte di certi settori dello stesso Ennahda e dei salafiti affinché nella Carta
costituzionale venisse invece affermato per la Tunisia la natura di Stato
islamico.
Tutto questo, ad ogni modo, non vuol dire che
per i diritti umani ci saranno spazi in espansione: le norme costituzionali
devono poi essere applicate dagli organismi esecutivi.
Naturalmente il quadro potrebbe cambiare
qualora per ipotesi ci fossero stabili vittorie di movimenti estremisti in
taluni paesi islamici. I paesi a rischio - oltre a Siria e Mali di cui qui non
trattiamo per le rispettive congiunture belliche interne caotiche e in
evoluzione - sono l’Algeria e gli altri Stati della ex Africa francese (in
prospettiva, cioè se i radicali non venissero annientati in Mali); la Libia,
destabilizzata dalla caduta di Gheddafi (Mu’ammar al-Qadhdhaafii) nelle mani di
bande armate incontrollate e in buona parte piene di radicali; lo Yemen, il cui
meridione è nelle mani della Aqpa, entità risultante dalla fusione nel 2009 fra al-Qaida saudita e al-Qaida yemenita.
Pur non aderendo alle tesi di Roy, va
riconosciuto un dato di fatto: le rivendicazioni delle piazze tunisine,
egiziane, marocchine e anche siriane non erano connotate dall’islamismo, anzi
avvenivano nel segno dell’attualizzazione dell’esigenza modernizzatrice, ovviamente
adeguata al contesto storico, mutato rispetto a due secoli prima. Questa volta
si rivendicava una modernizzazione nel senso di una nuova e più ampia
disciplina dei diritti umani, civili e sociali che riconoscesse il diritto a “pane,
giustizia e libertà”. Il risultato delle urne ha frustrato le speranze dei
giovani scesi coraggiosamente in piazza contro le dittature, ed ha stupito
quanti avevano sopravvalutato l’influenza sociopolitica dei contestatori “laici”
e ritenevano in modo a dir poco ingenuo che l’autoevidente bellezza della
democrazia rappresentativa borghese in senso laico avesse già messo radici
nelle società arabe.
Sembra che almeno il 70% degli arabi sia fatto
da giovani e giovanissimi; per cui un domani - forse - questo dato generazionale
potrebbe influire in termini innovativi rispetto alla presente situazione. Oggi
invece le elezioni di cui parliamo hanno confermato un fatto comune a tutte le
società, ma troppo spesso trascurato: una cosa sono i contesti urbani e altra
cosa invece sono le campagne, ovvero le provincie; e che valutare un paese solo
in base alle città espone a brutte sorprese. È stata dimostrata la profondità
delle radici religiose nelle masse popolari, e probabilmente anche il valore
antropologico del fatto religioso come elemento identitario per tunisini,
egiziani ecc.
A chi osserva gli eventi del mondo arabo, la
rete di organizzazioni locali in qualche modo “figlie” della Fratellanza
Musulmana egiziana non deve far pensare all’esistenza di un fenomeno omogeneo.
In fondo in ogni paese queste entità presentano una loro specificità e si
trovano in rapporti diversi con il potere, o ancora esistente o già abbattuto.
In Egitto la Fratellanza ha conosciuto periodi di legittimazione di fatto con
Sadat e con Mubarak, agevolata dal non aver sviluppato un’opposizione incisiva
o effettiva contro il regime. Tanto è vero che inizialmente la sua
partecipazione ai moti detti di piazza Tahrir è avvenuta solo nell’ultima fase,
quando cioè i suoi dirigenti hanno ritenuto di poterne ricavare dei vantaggi in
termini politici.
Diversa la situazione in Tunisia, dove il
movimento Ennahda (Rinnovamento) era stato costretto alla clandestinità da una
repressione durissima, ponendosi in tal modo come alternativo al potere di ben ‘Ali
tanto da riceverne il riconoscimento dall’elettorato.
In Marocco la situazione è complicata dalla
scissione avvenuta nel movimento islamista con la formazione di Giustizia e
Libertà entrata a far parte del gioco politico monarchico (la dinastia è
discendente dal Profeta) e vincitrice delle elezioni; e della più radicale
Giustizia e Carità, rimasta estranea alla dialettica “democratica”.
Considerazione provvisoria
Non si può aprioristicamente escludere che in
certi paesi l’avvento al potere dei partiti islamisti non comporti affatto il
loro schierarsi su un fronte antioccidentale alla maniera di al-Qaida né la talebanizzazione
delle rispettive società. Ma che questo implichi pure un periodo di
stabilizzazione è altra cosa: i nuovi regimi islamici non dispongono né degli
stati di fatto né dei vincoli socio-culturali lasciati in Turchia al partito di
Erdoğan dall’opera laicizzatrice di Mustafà Kemal, per cui molto dipenderà dal
fatto che i salafiti (di cui non c’è da attendere la moderazione) riescano o no
a rafforzarsi e a diventare pericolosi anche per il potere islamista. Comunque,
per chi ci ha creduto e ha votato quei partiti, addio sogni di rivoluzione
islamica, giacché sembra ormai in atto un’avanzata trasformazione dei partiti al
potere nel segno della loro “normalizzazione” formale e dell’inserimento -
naturalmente in posizione subordinata - nel sistema internazionale vigente. Al
riguardo, come già detto, l’atteggiamento degli Stati Uniti è assai rivelatore.
In siffatta situazione le minoranze religiose e
i settori laici restano abbandonati a se stessi, e in definitiva con scarse
prospettive, almeno a parità di situazione. Ma questo non sembra interessare
nessuno.
Fare previsioni è troppo azzardato e quindi
inutile. Semmai si può porre un problema, lasciando che siano gli avvenimenti
futuri a darvi una soluzione: che accadrebbe se un fallimento delle politiche
dei governi islamisti e/o un loro sprofondare nella corruzione desse luogo a
nuove reazioni popolari di massa? Questa volta ad approfittarne sarebbero i
salafiti e di nuovo l’opposizione laica e/o di sinistra resterebbe al palo?
Poiché i vuoti politici (repentini e non) sono in genere colmati dai gruppi
veramente organizzati e forti, sullo sfondo resta impregiudicata - e non è
confortante - l’eventualità di ritorni a dittature militari.
Sotto questo profilo il paese più esposto
sembrerebbe essere la Tunisia, dove sono all’ordine del giorno le aggressioni
salafite a sindacati, a venditori di alcoolici, a donne senza il velo islamico
in testa, a riunioni private con musica e perfino a poliziotti e guardie
nazionali che intervengano contro gli squadristi barbuti. Sicuro indice del
malessere tra le forze dell’ordine è il fatto che in certe località abbiano
indossato un bracciale rosso per protesta contro il lassismo governativo verso
le violenze e prevaricazioni dei salafiti.
Pur essendo diverso il grado di gravità sociale
delle intolleranze islamiche nei vari paesi musulmani, tuttavia è indubbio che
la tanto decantata “primavera araba” ha sdoganato pericolose forze propense al
totalitarismo, con l’aggravante che nell’attuale fase di transizione i governi
uniscono alla debolezza fisiologica in periodi siffatti l’ulteriore debolezza
derivante dall’eventualità di doversi mettere in urto con una parte del loro
stesso elettorato, oltre che con l’estremismo salafita, le cui reazioni
rabbiose troverebbero alimento nel sentirsi traditi dai confratelli “moderati”(?).
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