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venerdì 18 gennaio 2013

ISLAM POLITICO E RADICALISMO ISLAMICO, di Pier Francesco Zarcone


Considerazioni preliminari
La guerra civile in Mali ha riportato alla ribalta della cronaca il peggior radicalismo islamico, oltre tutto in una zona strategicamente fondamentale per le possibilità di irradiazione che offre verso l’Africa del Nord e quella subsahariana. A dire il vero anche gli avvenimenti siriani dovrebbero essere visti nella stessa ottica, stante il fatto che il cosiddetto “Esercito Libero Siriano” è in realtà ormai controllato e soverchiato da estremisti provenienti da altri paesi.
Inoltre l’ascesa elettorale di partiti islamisti al governo di Tunisia, Egitto e Marocco - a prescindere dalla benevolenza loro dimostrata da Washington - non cessa di suscitare varie perplessità. È probabile che tutto questo ridia voce ai teorici dello scontro di civiltà, termine ormai diventato una specie di luogo comune, nonostante che i veri specialisti l’abbiano messo in discussione da vari punti di vista.

Per quanto riguarda il vero e proprio radicalismo islamico (sunnita, per quel che ci interessa), che non sembra essere incarnato dai partiti al governo nei paesi citati, ancora ai più non è chiaro che esso in realtà è in conflitto con tutto il resto che lo circonda: non solo l’Occidente, ma anche lo stesso Islam non-radicale e l’Islam sciita - come è attestato dall’individuazione delle vittime del terrorismo radicale all’interno delle società musulmane; cosa che però i media omettono di evidenziare.
Se consideriamo che né Giudaismo né Cristianesimo sono stati e sono immuni da fenomeni di intollerante e dispotico radicalismo religioso, allora vedere nel radicalismo islamico la proiezione di un dato sostanziale e necessario dell’Islam - quindi una sorta di fatalità “fisiologica” - invece del risultato di una complessa serie di fattori storici, sarebbe un grosso errore di prospettiva, prima ancora espressione di un soggiacente razzismo eurocentrico. A chi abbia ben studiato il Corano e i detti del profeta Muhammad, nonché lo sviluppo del pensiero islamico e la storia delle società musulmane non sfuggono alcuni profili importanti.
Il primo è che se effettivamente la storia islamica fosse la copia passata del radicalismo odierno, allora tutti i libri che la riguardano dovrebbero essere buttati e riscritti, perché non si potrebbe parlare della grande civiltà espressa in passato se il radicalismo avesse avuto l’opportunità di dominare quel mondo in quei periodi. L’altro profilo è che dal Corano (come del resto dalla Bibbia) è possibile ricavare tutto e il contrario di tutto, talché se si abdica all’uso dell’intelligenza i guai storicamente ben noti sono inevitabili. Vi è poi un terzo profilo - il più importante ai nostri fini - da cui si percepisce la sostanziale natura antislamica proprio del radicalismo musulmano, cosa che del resto i recenti fatti nel Mali (come la distruzione di santuari e tombe di santi sufici islamici) presentano con tutta evidenza.
Lasciamo stare la nota questione del terrorismo kamikaze in rapporto al divieto di suicidio, e concentriamoci invece su qualcosa di più strutturale. Il radicalismo islamico pretende di modellare usi e costumi sociali secondo i propri criteri, di imporre le proprie interpretazioni del Corano, dei detti del Profeta e della cosiddetta “legge islamica”, nonché di stabilire chi sia o non sia musulmano. Ebbene, nell’Islam in quanto tale non esistono legittime autorità religiose centrali o locali, nessuno può imporre le proprie interpretazioni ad altri musulmani - cosa espressa da un detto di Muhammad per cui la sua comunità non sarà mai unita nell’errore (che nessuno può dichiarare tale in mancanza della debita autorità!) - e il Corano dice a tutte lettere che non ci può essere costrizione nella religione (Corano, 2, 256). Ciò non toglie che nella storia del mondo musulmano non sono mai mancate scuole e/o sette presentatesi arbitrariamente come portatrici del “vero” Islam, in opposizione agli avversari.
La questione dell’antislamicità di certe componenti autoaffermatesi portatrici della “vera” ortodossia, in teoria sarebbe un bell’arma propagandistica per gli avversari; in teoria, perché senza i necessari mezzi economici e senza un’adeguata rete di diffusione dei messaggi la cosa resta al massimo in circoli limitati. E di mezzi e reti (grazie ad Arabia Saudita, Qatar e banche islamiche) dispongono invece islamisti e radicali. 

Intransigenza religiosa e radicalismo islamico: non sono cose nuova, ma… Un po’ di storia per inquadrare
Anche nei periodi di maggior fulgore dall’interno del mondo islamico si sono formati movimenti radicali, anche estremi. Alcuni furono sconfitti a opera dello stesso potere politico musulmano (come i Carmati); altri - come gli Almoravidi e gli Almohadi del Marocco - arrivarono a costituire piccoli imperi e a dominare la parte non-cristiana della penisola iberica, ma finirono col cedere alle “tentazioni e mollezze” della ben diversa civiltà di al-Ándalus. Fino alla seconda metà del secolo scorso di superstite radicalismo islamico c’era solo, a dominare nell’Arabia Saudita, il wahhabismo, fondato nella prima metà del sec. XVIII da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792) come corrente militante avversa a tutto il resto del mondo islamico e stabilmente alleatasi con quella dinastia dei Sa’ud, signori di Dir’iyya, che dopo la Grande Guerra arrivò a dominare quasi tutta la penisola araba. Naturalmente, al di fuori da questi fenomeni le interpretazioni coraniche molto rigide e senza spazio per il libero pensiero hanno finito col prevalere, pur senza diventare il punto di partenza per la creazione di movimenti politici definiti.
Parlando di fattori storici alla base del retroterra culturale che favorisce l’espansione sia dell’intransigenza religiosa sia del radicalismo islamico non si devono trascurare eventi di un passato lontanissimo per il sentire europeo, ma ancora produttivo di effetti. Ripercorrendo sinteticamente il percorso islamico non si deve dimenticare che le specificità dell’evoluzione storica dell’Europa occidentale non sono affatto espressione di un paradigma evolutivo valido per tutti i popoli, cioè da prendere come pietra di paragone per valutare i gradi di vicinanza/lontananza e quindi dare giudizi di maggiore o minore arretratezza. 
Nel corso dei primi secoli della storia delle società islamiche di lingua araba ci fu il progressivo formarsi e rafforzarsi, come gruppi di potere, di un ceto di Dottori della Legge (sing. ‘ulamaa; pl. ‘alim) assolutamente privo di giustificazione alla stregua del Corano, arrivati ad arrogarsi il ruolo di custodi di un’ortodossia religiosa qualificatasi per un estremo antirazionalismo. La grande vittoria degli ‘alim si ebbe precisamente durante il califfato degli Abassidi di Baghdad che sul finire del X secolo, con il califfo al-Mutawakkil, iniziarono a perseguitare la corrente teologica dei Mutaziliti (in precedenza dominante), detti anche i razionalisti dell’Islam. Fu praticamente nel secolo XI che si stabilizzò la cosiddetta riscossa sunnita, con un radicale cambio di rotta in un ambiente che aveva effettuato la riscoperta della grande filosofia greca, aveva dato vita a filosofi di tutto rispetto e a uno sviluppo scientifico sicuramente superiore a quello dell’Europa occidentale. Già il rogo delle opere di Averroè (ibn Rushd) aveva segnato la fine della filosofia nel mondo musulmano sunnita, pur se il pensiero filosofico sarebbe proseguito, con moduli particolari, negli ambienti sciiti (iraniani in specie), ma la condanna a morte del filosofo mistico sciita Sohrawardi, voluta dal Saladino nel 1193, rappresentò per gli ambienti sunniti la definitiva chiusura di una fase culturale.
I secoli successivi al XII della nostra era sono stati per buona parte del mondo islamico sunnita all’insegna di una sclerosi culturale coniugata con una chiusura verso l’esterno, se si esclude una certa rinascita culturale nel Maghreb e l’opera dell’ultimo grande intellettuale musulmano, ibn Khalduun. Il tutto favorito da tumultuose vicende che non potevano lasciare il segno nel senso di sfavorire i dinamismi culturali: devastante invasione mongola arrivata fino in Siria e Palestina e distruzione di Baghdad nel 1256; altrettanto devastante invasione dei mongolo-tartari di Tamerlano (Timur-i-leng) a cavallo fra i secoli XIV e XV; caduta dell’ultimo ridotto di Granada nella penisola iberica e annientamento della splendida civiltà di al-Ándalus; distruzione dell’impero mamelucco di Damasco e Cairo a opera dei Turchi ottomani; continue guerre con l’Europa cattolica, almeno fino al sec. XVII; due secoli buoni (anteriormente alla battaglia di Lepanto) di ampie devastazioni della costa nordafricana a opera di portoghesi e spagnoli; a Oriente crollo dell’impero sciita di Persia sotto i colpi di tribù afghane. A una deleteria stasi tecnologica si accompagnò per i commerci il decadere dell’importanza delle vie terrestri e marittime della seta e delle spezie in virtù dell’apertura delle rotte oceaniche da parte degli europei.
Nel sec. XVIII continuò il sonno culturale. Intanto in Europa c’erano stati la Riforma protestante con la rottura dell’unità religiosa del mondo occidentale; l’Illuminismo; l’avvio di una rivoluzione scientifica mai più arrestatasi e infine il consolidamento di un pensiero laico alternativo a quello religioso o da esso indipendente.
Il sonno islamico fu aggravato dal progressivo indebolimento dell’Impero ottomano in Europa e dalla rapida disintegrazione di quello mogol in India, e in questa fase di decadenza fu definitiva la stasi nello sviluppo tecnologico (in precedenza alquanto evoluto, e senza il quale gli ottomani non avrebbero potuto disporre di un’artiglieria superiore a quella europea per creare il loro impero). Tuttavia nel complesso - anche grazie al ruolo non-estremista svolto dal potere ottomano (a cui era sfuggito solo il Marocco) - l’Islam delle società musulmane fu abbastanza “moderato” con varie tendenze e scuole interpretative; e i Dottori della Legge erano sottoposti a uno shaikh al-Islam uomo del Sultano di Costantinopoli, il che ne riduceva (anche se non eliminava) velleità e prevaricazioni.

Si affaccia il problema della “modernizzazione”, bloccata dall’imperialismo
Il sonno beato di questa parte di mondo finì nel 1798, con l’invasione dell’Egitto compiuta dall’esercito francese del generale Napoleone Bonaparte. Un brusco risveglio certo, ma esso avrebbe potuto essere positivo se non ci fossero state interferenze esterne.
L’esigenza di mettersi al passo con il più progredito Occidente su vari piani non poteva che produrre l’opposizione dei settori tradizionalisti e radicali, ma ciò nonostante - e particolarmente tra le classi dirigenti turche, egiziane e tunisine - si diffuse un vivace movimento in favore di una modernizzazione che doveva investire l’apparato di Stato, il complesso produttivo e le forze armate in termini organizzativi e tecnologici. L’obiettivo era operare affinché anche l’Impero ottomano e le sue regioni più o meno indipendenti di fatto conseguissero con pari dignità un posto autonomo all’interno del più ampio mondo che si intendeva raggiungere. Dal progressivo e stabile raggiungimento di tali risultati dipendeva - in sostanza - l’acquisizione progressiva del consenso da parte dei settori tradizionalisti delle società civili coinvolte
Figuriamoci se simili progetti avrebbero mai avuto l’appoggio o quanto meno la neutralità dell’Occidente, in pieno slancio coloniale e imperialistico. Infatti si andava sempre più riducendo l’area islamica non soggetta a dominio europeo: l’India mogol non esisteva più; la Persia era prostrata e oggetto degli appetiti di Russia e Gran Bretagna; il Caucaso e le steppe dell’Asia entravano progressivamente nell’azione imperialistica russa; in Africa settentrionale l’Algeria sarebbe stata la prima a cadere, nelle mani della Francia; in seguito l’Egitto - strangolato dalla politica del debito - finiva sotto protettorato britannico, sia quando era ancora formalmente parte dell’Impero ottomano, sia quando acquisì l’indipendenza da esso; poi toccò alla Tunisia e all’Africa subsahariana, occupate dalla Francia; al Marocco, diviso fra Spagna e Francia e infine alla Libia, conquistata dall’Italia.
Ovviamente tutto questo frenò e bloccò i processi di modernizzazione autoctoni, per dare luogo a una modernizzazione sfruttatrice da parte delle potenze coloniali. Pur tuttavia il progresso dell’Occidente - sebbene detestato da molti - costituiva un “oggetto del desiderio”, produceva invidia, inconfessati e inconfessabili complessi di inferiorità e per vari settori superiori delle società islamiche restava un modello. Questo sarebbe durato fino alla seconda metà del sec. XX. Tuttavia la posizione estremamente subordinata alle potenze coloniali alla lunga per forza doveva dare luogo al diffondersi di una crisi di identità, talché l’opposizione alla modernizzazione occidentalizzante finiva con l’acquisire il valore di affermazione di identità e di esistenza autonoma. 
Un’ulteriore fase catastrofica ha avuto luogo subito dopo la Prima guerra mondiale: alla sconfitta dell’Impero ottomano fecero seguito la spartizione dei suoi residui territori arabi fra Gran Bretagna e Francia e la creazione di Stati artificiali come il Libano, la Transgiordania e l’Iraq, con altrettanto artificiali confini tracciati con la matita sulle mappe. L’appendice di questa vasta opera predatoria - foriera di enormi devastazioni nell’area - fu la creazione britannica di un “focolare” ebraico in Palestina per l’installazione di coloni sionisti di origine europea.
Dopo la Seconda guerra mondiale le potenze coloniali dovettero riconoscere l’indipendenza formale dei loro domini arabi, e finirono con prendere il potere élites in un certo senso modernizzatrici e alquanto laiche, generalmente di estrazione militare. Esse però gestirono il potere in modo autoritario o dittatoriale. La loro politica tuttavia fu poco condizionata dal fattore religioso. Almeno agli inizi.
La sconfitta araba nella Guerra dei sei giorni del 1967 può essere considerata un fattore esterno del declino dei cosiddetti “regimi arabi progressisti”, venutosi a coniugare con i fattori interni. Questi regimi - osteggiati dall’Occidente e aiutati dall’Urss solo militarmente per i propri fini geostrategici - non sono riusciti a realizzare gli obiettivi promessi, con ciò contribuendo alla crisi di fiducia popolare nei loro confronti. Corruzione governativa diffusa, compromissioni con le stesse potenze imperialistiche, persecuzioni dei movimenti di sinistra e dei sindacati, mancato decollo economico, mancata formazione di borghesie produttive e di un proletariato cosciente, sottosviluppo, miseria sociale e altro dovevano per forza risolversi in favore dell’unica alternativa disponibile: l’Islam “politico”.
E qui sono entrati in gioco vari fattori, più o meno a far tempo dagli anni ’70.

Dagli anni ‘70
Cominciamo con l’Algeria dove, sotto il regime (progressista?) di Huari Boumedienne, al fine di incrementare l’arabizzazione del paese (dove si parlava essenzialmente il dialetto locale, e non la lingua colta che consente agli arabi dei vari paesi di comprendersi fra loro) si fece ricorso alla massiccia “importazione” di insegnanti egiziani e siriani, ma per lo più legati alla Fratellanza Musulmana (al-ikhwaa’n al-muslimuu’n), di modo che il processo di arabizzazione si risolse in un’islamizzazione spinta, saldatasi col fatto che durante la lunga guerra contro la Francia per l’indipendenza in quel paese l’Islam aveva già assunto la funzione di ideologia di resistenza al dominatore straniero.
Nel quadro della contrapposizione internazionale contro il “blocco sovietico” i governi arabi in vario modo legati all’Occidente - pur perseguitando i nuclei estremisti, o ritenuti tali - optarono in favore della diffusione delle ideologie religiose nelle Università, in modo da sottrarre la futura classe dirigente alle ideologie marxiste o genericamente di sinistra. La cosa ha avuto successo, di modo che oggi la composizione sociale del mondo islamico radicale non è affatto ridotta a settori poveri, emarginati e ignoranti, bensì include fior di laureati, anche e soprattutto in materie scientifiche. E qui abbiamo il paradosso della coesistenza fra preparazione scientifica e ripudio della razionalità e del pensiero indipendente (ma non sempre ciò che è reale è razionale). Da non trascurare l’importanza dell’iniziativa assunta da Sadat nel 1980, cioè l’aver inserito nella Costituzione egiziana la previsione del diritto islamico come fonte fondamentale della legislazione statale.
La crisi petrolifera in occasione della Guerra del kippur del 1973 ha dato all’Arabia Saudita - centro del radicalismo religioso wahhabita - l’occasione per utilizzare le accresciute entrate petrolifere in una duplice direzione: ridurre il ruolo egemonico dell’Egitto nel mondo arabo e finanziare nel mondo una vasta rete di moschee, scuole coraniche e movimenti religioso-politici estremisti, in ciò favorita dall’azione di finanziamento delle banche islamiche a movimenti ed esponenti radicali.
Non va trascurato l’impatto psicologico della “Rivoluzione” iraniana del ’79 nel mondo arabo. Impatto più psicologico che politico, va detto, trattandosi di evento politico all’interno dell’area sciita (e non sunnita) e dalle caratteristiche piuttosto spurie (se non blasfeme) per l’ottica radicale sunnita. Infatti, l’Iran khomeynista ha una Costituzione chiaramente modellata sullo schema europeo e in cui - per lo meno a parole - la sovranità viene attribuita al popolo. Pur tuttavia tra i sunniti (tradizionalisti e radicali) non poteva non scattare il ragionamento “se ce l’hanno fatti gli sciiti…”.
Pure importante è stato il fallimento dei “regimi progressisti” in termini di “architettura socio-economica”, a cui si è dianzi accennato. La mancanza di un vero decollo economico endogeno ha lasciato gli strati superiori della società alle prese con ruoli puramente parassitari (le famose “borghesie compradoras”), situazione che di conseguenza ha coinvolto anche i ceti medi nella loro globalità (medio-alti, medi in senso stretto e medio-bassi), che per un certo periodo erano stati attivi e vivaci culturalmente. Questi ambiti sociali, tutt’altro che ostili alla modernizzazione, hanno perso il ruolo di punto di riferimento e modello per il resto della società. L’esempio più eclatante si ha in Egitto, dove gli standard culturali (un tempo elevatissimi) si sono qualitativamente ridotti, con ricadute sulla stessa dimensione linguistica, stante la maggiore diffusione della parlata popolare rispetto a quella colta, ribaltando la situazione precedente.
In merito al proletariato arabo (il più delle volte trattasi di sottoproletariato) è eclatante la mancanza di una classe operaia organizzata, con l’eccezione parziale di Tunisia ed Egitto. Per esempio, le lotte operaie egiziane del 2008-2009 (poco note in Occidente) avevano acceso speranze, poi dissoltesi nelle urne del dopo-Mubarak. In Tunisia la maggiore opposizione al regime islamico e all’ala salafita viene dai sindacati. Tuttavia anche qui si fa sentire la mancanza di un’ideologia davvero alternativa all’islamismo politico; un’ideologia che - stante l’ambiente circostante - sia socialmente e politicamente efficace, oltre che concretamente non tacciabile di ateismo (e quindi di blasfemia), cosa che ha tagliato le gambe al marxismo, prima ancora delle repressioni governative.
Sul nefasto ruolo esercitato dalle potenze occidentali - Usa in testa - è stato detto e scritto tantissimo. Pur tuttavia ancora non si è ben fissato nella memoria collettiva il grande contributo dato dagli Stati Uniti al rafforzamento del radicalismo musulmano, sia mediante l’alleanza con l’Arabia Saudita, sia con l’appoggio bellico ed economico alla guerriglia islamica in Afghanistan, i cui reduci poi avrebbero diffuso il virus in tutto il mondo musulmano.
La guerra contro l’Iraq del ‘90-’91 non solo fu vissuta nel mondo arabo come un’aggressione occidentale, ma produsse un effetto - poco considerato dai media - con cui poi avrebbero fatto i conti gli Statunitensi con l’invasione dell’Iraq durante il secondo conflitto: il laico Saddam Hussein in luogo della bandiera nazionalista del Partito Socialista Baath (Rinascita) aveva rispolverato e tirato fuori quella islamica della guerra santa contro gli infedeli.

Possiamo considerare “fascismo religioso” il radicalismo islamico?
Effettivamente non mancano quanti usano questa espressione qualificativa, utilizzando a supporto vari aspetti analogici. Se si cerca uno slogan a effetto capace di produrre risultati propagandistici facilmente assimilabili, l’espressione si presta più che bene. Tuttavia - se è vero che parlare male fa anche pensare male - assimilare a un fenomeno specifico (e ben definito nelle sue connotazioni) un fenomeno considerabile addirittura di altro genere (cioè da un lato un fenomeno essenzialmente politico, e da un altro lato un fenomeno essenzialmente religioso) genera delle perplessità sul piano non solo della correttezza scientifica ma anche della logica. Altrimenti si potrebbe anche parlare del Cattolicesimo medievale come forma di fascismo religioso ante litteram, ma con pesante assunzione di responsabilità culturale.
Allora molto meglio trattare delle caratteristiche politiche e socioeconomiche del radicalismo islamico senza relazionarlo con alcunché in termini comparativi.
Politicamente si tratta di un’ideologia di dominio - innanzi tutto sulle stesse società musulmane - che indubbiamente per diffondersi fa leva su assetti oggettivi di disuguaglianze e di ingiustizie sociali, economiche e politiche, di cui a livello di massa si vorrebbe la fine. Ideologia di dominio perché portatrice di una visione dell’ordine sociale assolutamente totalitaria (definirla solo “autoritaria” sarebbe riduttivo), infarcita di odio e fanatismo ideologico. Solo chi ha deciso di abdicare all’uso della razionalità, o non l’ha mai fatto né potuto fare, non percepisce che il disegno politico del radicalismo musulmano si sostanzia in una specularità non rovesciata rispetto a ciò che combatte; vale a dire che si tratta di un disegno basato su oppressione, ingiustizia, discriminazioni, degradazione culturale e trasformazione di Allah e del Corano in feticci sostitutivi del dio-dollaro (nella forma). Ma non nella sostanza, come si dirà in seguito.  
Oltre ai giovani acculturati spesso privi di sbocchi economici, il radicalismo fa leva sugli strati più poveri della società - che vanno dai salariati di basso livello ai contadini inurbati per disperazione ma senza prospettive, piccola borghesia dei bazar e parte dei Dottori coranici. Si può dire che per molti di costoro l’appeal della religione funzionerebbe meno senza gli effetti devastanti della crisi capitalistica nelle società arabe.
Sul piano economico sociale il quadro è chiarissimo, soprattutto nel vuoto velleitarismo che anima i discorsi dei radicali: essi sono portatori di un interclassismo gattopardesco in virtù del quale tutto deve cambiare perché le cose restino come prima.
Non solo esponenti e dirigenti del radicalismo islamico si pongono come “nuova classe”, ma dai loro programmi nulla emerge circa un eventuale superamento (fuori dalla moschea) della divisione in classi e dello sfruttamento, cosicché ne risulta un sistema economico-produttivo del tutto compatibile col mondo circostante. In definitiva si tratta della vecchia bugia di un capitalismo senza gli effetti del capitalismo perseguito nel quadro di un’esaltazione religiosa di massa.
Da un po’ di tempo i media politicamente corretti, già diffusori della categoria di “Islam moderato” - in contemporanea con il giro di boa della politica di Washington che ha aperto le braccia ai regimi islamici di Tunisia ed Egitto - hanno inserito in tale categoria anche la Fratellanza Musulmana (al-Ikhwaan al-Muslimuun), che invece gli specialisti di islamologia fino a ieri assimilavano all’ala estremista dei Salafiti, che oggi invece è stata scorporata dalla Fratellanza.
Il fatto che la maggiore potenza imperialistica del mondo possa instaurare buoni rapporti con la Fratellanza e i suoi capitalisti fare buoni affari con essa non deve affatto stupire. Già era accaduto con i ben più estremisti Talebani dell’Afghanistan. La facile caduta dei regimi abbattuti dalla cosiddetta “primavera araba” non erano più né sostenibili né davvero utilizzabili, mentre i governi instaurati dalla Fratellanza in definitiva difendono la proprietà privata, il sistema del salario e la divisione della società in classi; la forza-lavoro può restare flessibile e basso costo, i sindacati correttamente islamizzati. Alla fin fine nel progetto radicale i lavoratori restano assolutamente sottomessi al capitale e col cervello “bevuto” dalla religione. Tutti genuini “valori” americani, di fronte ai quali diventano quisquilie le spinte interne teocratiche e l’oppressione socioculturale di laici e minoranze religiose. Lo ripetiamo ancora una volta: agli imperialisti non importa nulla delle violazioni dei diritti umani né della difesa delle società laiche: tant’è che l’applicazione della sharía non desta sussulti se avviene in Arabia Saudita o in Pakistan. Sempre che - è ovvio - non si sviluppino anche concreti atteggiamenti esterni contro l’imperialismo. Ma in questo caso, alle brutte, nulla vieta i bis dell’Iraq e della Libia.

Islam politico e radicalismo islamico hanno a che vedere con la lotta di classe?
La risposta non può che essere positiva se intendiamo la lotta di classe come una dialettica che coinvolge oltre al “proletariato” anche e soprattutto la borghesia - della quale deve dirsi che sa come condurre questa lotta e soprattutto possiede una coscienza di classe di tutto rispetto.
Già in un paragrafo precedente si è accennato al significato dell’interclassimo della Fratellanza Musulmana. Qui si ritiene opportuno fare un più puntuale riferimento al pensiero di uno dei maestri della Fratellanza quando era estremista, quel Sayyid Qutb (1906-1966), moderno teorico del radicalismo islamico, che fu mandato a morte da Nasser (’Abd al-Naasir). Da ciò risulterà con evidenza la motivazione della risposta data alla nostra domanda. 
Qutb ha delineato una società islamica dotata dei seguenti caratteri:
Armonica: in quanto sottoposta alla sharía, e senza classi essendo tutti uguali di fronte alla legge (!!)
Equa: perché tutela la proprietà privata (mezzi di produzione compresi) e il mercato capitalistico attribuisce all’“equità fiscale” (!) la funzione del riequilibrio socioeconomico e prevede una non meglio specificata “equa divisione del profitto” fra datori di lavoro e lavoratori (peraltro privi di potere riconosciuto).
E la rappresentanza politica? In proposito Qutb è ben distante dagli esiti della stessa rivoluzione khomeynista in Iran. Infatti niente parlamento né tanto meno soviet: la soluzione proposta sta nella shura islamica, cioè un organismo consultivo a cui tutti possono liberamente partecipare. Immaginiamo un po’! Ovviamente lo Stato viene presentato come super partes, ma comunque benevolo verso i poveri.
Se questa non è ideologia di classe dal lato della borghesia (islamica, nella specie), non sapremmo come qualificarla. E perfettamente in linea appare l’attuale posizione della Fratellanza Musulmana egiziana palesemente in favore del liberismo economico, delle privatizzazioni, come pure l’opposizione al diritto di sciopero.
Ancor peggiore è la posizione del radicalismo vero e proprio, dove ogni ipotetico discorso di rivoluzione sociale viene sorpassato dal dogma per cui l’Islam tutto risolve e al posto di qualsiasi Costituzione va messa la sharía (interpretata e imposta nel modo più rigido e ottuso possibile).
Che le classi dirigenti islamiche in Tunisia, Egitto e forse anche in Marocco e Giordania appaiano fortemente imborghesite è un fatto; e questo apre la via a un problema già anticipato nel 1992 dall’islamologo francese Olivier Roy, col libro Fallimento dell’Islam politico: il problema è se ancora abbia senso parlare di contrapposizione fra islamismo e laicità essendo venuta meno, a suo dire, il nesso fra «impegno religioso e rivendicazione politica». Questo perché Roy sostiene che saremmo ormai di fronte al fallimento dell’Islam politico anche se ciò non vorrebbe dire automatica vittoria di un mondo arabo laico. Su quest’ultima parte del suo discorso i fatti obbligano a convenire. Già sarebbe tanto di guadagnato (oggi come oggi) se nel mondo musulmano la legislazione e le autorità verso gli ambienti laici - oltre a rispettarli e farli rispettare da chi laico non è - consentissero gli spazi adeguati e pari dignità. 
Ad ogni buon conto attualmente - dopo la cosiddetta “primavera araba” - l’unico Stato arabo e musulmano laico rimasto in piedi è la Siria, ma non si sa ancora per quanto tempo.

Ha davvero fatto fallimento l’Islam politico?
A questo punto facciamo un nostro ragionamento non basato sullo scritto di Roy, di cui in buona parte non condividiamo le tesi.
Noi non abbiamo dubbi sull’incapacità dell’Islam politico - per come si è finora connotato in teoria e in pratica - a gestire in maniera minimamente efficace società moderne (come quelle nordafricane e del Vicino Oriente), cioè senza produrre recessioni di tipo afghano e senza dover ricorrere agli inerenti metodi dittatoriali. Non vi è dubbio che con le vittorie elettorali in Tunisia, Egitto e Marocco (e probabilmente domani in Giordania) i partiti islamisti vittoriosi si sono messi fortemente in gioco istituzionalizzandosi, per così dire. La nostra profezia è che se non vorranno portare al completo tracollo economico e politico le loro società dovranno prendere sempre di più le distanze dai salafiti e, mancando di obiettivi definiti (al di là delle chiacchiere) e delle connesse strategie, saranno costretti a un pragmatismo politico estraneo al loro spirito originario e da esso lontano. Il che già sta accadendo in Egitto. Un altro esempio viene dalla Tunisia, dove la Costituente alla fine non ha modificato il vecchio art. 1 della Costituzione che pur sancendo l’Islam come religione dello Stato, nonostante le spinte di certi settori dello stesso Ennahda e dei  salafiti affinché nella Carta costituzionale venisse invece affermato per la Tunisia la natura di Stato islamico.
Tutto questo, ad ogni modo, non vuol dire che per i diritti umani ci saranno spazi in espansione: le norme costituzionali devono poi essere applicate dagli organismi esecutivi.
Naturalmente il quadro potrebbe cambiare qualora per ipotesi ci fossero stabili vittorie di movimenti estremisti in taluni paesi islamici. I paesi a rischio - oltre a Siria e Mali di cui qui non trattiamo per le rispettive congiunture belliche interne caotiche e in evoluzione - sono l’Algeria e gli altri Stati della ex Africa francese (in prospettiva, cioè se i radicali non venissero annientati in Mali); la Libia, destabilizzata dalla caduta di Gheddafi (Mu’ammar al-Qadhdhaafii) nelle mani di bande armate incontrollate e in buona parte piene di radicali; lo Yemen, il cui meridione è nelle mani della Aqpa, entità risultante dalla fusione nel 2009 fra al-Qaida saudita e al-Qaida yemenita.
Pur non aderendo alle tesi di Roy, va riconosciuto un dato di fatto: le rivendicazioni delle piazze tunisine, egiziane, marocchine e anche siriane non erano connotate dall’islamismo, anzi avvenivano nel segno dell’attualizzazione dell’esigenza modernizzatrice, ovviamente adeguata al contesto storico, mutato rispetto a due secoli prima. Questa volta si rivendicava una modernizzazione nel senso di una nuova e più ampia disciplina dei diritti umani, civili e sociali che riconoscesse il diritto a “pane, giustizia e libertà”. Il risultato delle urne ha frustrato le speranze dei giovani scesi coraggiosamente in piazza contro le dittature, ed ha stupito quanti avevano sopravvalutato l’influenza sociopolitica dei contestatori “laici” e ritenevano in modo a dir poco ingenuo che l’autoevidente bellezza della democrazia rappresentativa borghese in senso laico avesse già messo radici nelle società arabe.
Sembra che almeno il 70% degli arabi sia fatto da giovani e giovanissimi; per cui un domani - forse - questo dato generazionale potrebbe influire in termini innovativi rispetto alla presente situazione. Oggi invece le elezioni di cui parliamo hanno confermato un fatto comune a tutte le società, ma troppo spesso trascurato: una cosa sono i contesti urbani e altra cosa invece sono le campagne, ovvero le provincie; e che valutare un paese solo in base alle città espone a brutte sorprese. È stata dimostrata la profondità delle radici religiose nelle masse popolari, e probabilmente anche il valore antropologico del fatto religioso come elemento identitario per tunisini, egiziani ecc.
A chi osserva gli eventi del mondo arabo, la rete di organizzazioni locali in qualche modo “figlie” della Fratellanza Musulmana egiziana non deve far pensare all’esistenza di un fenomeno omogeneo. In fondo in ogni paese queste entità presentano una loro specificità e si trovano in rapporti diversi con il potere, o ancora esistente o già abbattuto. In Egitto la Fratellanza ha conosciuto periodi di legittimazione di fatto con Sadat e con Mubarak, agevolata dal non aver sviluppato un’opposizione incisiva o effettiva contro il regime. Tanto è vero che inizialmente la sua partecipazione ai moti detti di piazza Tahrir è avvenuta solo nell’ultima fase, quando cioè i suoi dirigenti hanno ritenuto di poterne ricavare dei vantaggi in termini politici.
Diversa la situazione in Tunisia, dove il movimento Ennahda (Rinnovamento) era stato costretto alla clandestinità da una repressione durissima, ponendosi in tal modo come alternativo al potere di ben ‘Ali tanto da riceverne il riconoscimento dall’elettorato.
In Marocco la situazione è complicata dalla scissione avvenuta nel movimento islamista con la formazione di Giustizia e Libertà entrata a far parte del gioco politico monarchico (la dinastia è discendente dal Profeta) e vincitrice delle elezioni; e della più radicale Giustizia e Carità, rimasta estranea alla dialettica “democratica”.

Considerazione provvisoria
Non si può aprioristicamente escludere che in certi paesi l’avvento al potere dei partiti islamisti non comporti affatto il loro schierarsi su un fronte antioccidentale alla maniera di al-Qaida né la talebanizzazione delle rispettive società. Ma che questo implichi pure un periodo di stabilizzazione è altra cosa: i nuovi regimi islamici non dispongono né degli stati di fatto né dei vincoli socio-culturali lasciati in Turchia al partito di Erdoğan dall’opera laicizzatrice di Mustafà Kemal, per cui molto dipenderà dal fatto che i salafiti (di cui non c’è da attendere la moderazione) riescano o no a rafforzarsi e a diventare pericolosi anche per il potere islamista. Comunque, per chi ci ha creduto e ha votato quei partiti, addio sogni di rivoluzione islamica, giacché sembra ormai in atto un’avanzata trasformazione dei partiti al potere nel segno della loro “normalizzazione” formale e dell’inserimento - naturalmente in posizione subordinata - nel sistema internazionale vigente. Al riguardo, come già detto, l’atteggiamento degli Stati Uniti è assai rivelatore.
In siffatta situazione le minoranze religiose e i settori laici restano abbandonati a se stessi, e in definitiva con scarse prospettive, almeno a parità di situazione. Ma questo non sembra interessare nessuno.
Fare previsioni è troppo azzardato e quindi inutile. Semmai si può porre un problema, lasciando che siano gli avvenimenti futuri a darvi una soluzione: che accadrebbe se un fallimento delle politiche dei governi islamisti e/o un loro sprofondare nella corruzione desse luogo a nuove reazioni popolari di massa? Questa volta ad approfittarne sarebbero i salafiti e di nuovo l’opposizione laica e/o di sinistra resterebbe al palo? Poiché i vuoti politici (repentini e non) sono in genere colmati dai gruppi veramente organizzati e forti, sullo sfondo resta impregiudicata - e non è confortante - l’eventualità di ritorni a dittature militari.
Sotto questo profilo il paese più esposto sembrerebbe essere la Tunisia, dove sono all’ordine del giorno le aggressioni salafite a sindacati, a venditori di alcoolici, a donne senza il velo islamico in testa, a riunioni private con musica e perfino a poliziotti e guardie nazionali che intervengano contro gli squadristi barbuti. Sicuro indice del malessere tra le forze dell’ordine è il fatto che in certe località abbiano indossato un bracciale rosso per protesta contro il lassismo governativo verso le violenze e prevaricazioni dei salafiti.
Pur essendo diverso il grado di gravità sociale delle intolleranze islamiche nei vari paesi musulmani, tuttavia è indubbio che la tanto decantata “primavera araba” ha sdoganato pericolose forze propense al totalitarismo, con l’aggravante che nell’attuale fase di transizione i governi uniscono alla debolezza fisiologica in periodi siffatti l’ulteriore debolezza derivante dall’eventualità di doversi mettere in urto con una parte del loro stesso elettorato, oltre che con l’estremismo salafita, le cui reazioni rabbiose troverebbero alimento nel sentirsi traditi dai confratelli “moderati”(?).

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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.