(intervento
letto al Convegno-dibattito "Dentro la crisi del capitale", organizzato
dalla Confederazione Cobas Firenze il 15 dic. 2011 e
al quale hanno partecipato anche Guglielmo Carchedi, Domenico Moro e Roberto
Massari)
Lezione 1.
Nell’autunno 2008 molti
commentatori e politici di sinistra annunziarono la fine del cosiddetto
neoliberismo. Si facevano così due errori, tra loro connessi. Il primo errore
concerneva proprio la caratterizzazione dell’epoca, la stessa nozione di
neoliberismo. Il secondo errore concerneva il rapporto tra crisi economica,
sbocchi politici e radicalizzazione sociale.
Ora siamo nella fase in
cui governi e padronato intendono effettivamente far pagare alla classe dei
salariati i costi della crisi capitalistica e del salvataggio delle banche
private. Con l’eccezione parziale della Grecia, questo accade senza che al
momento si profili una risposta delle classi dominate europee all’altezza
dell’attacco che ad esse viene portato.
La prima lezione è che non esiste alcun nesso meccanico
tra crisi, anche crisi grave, e fuoriuscita dalla cosiddetta globalizzazione
neoliberista; e non esiste neanche nessun nesso meccanico tra crisi e rilancio
della lotta di classe.
Bisogna chiedersi perché.
Lezione 2.
La risposta alla prima questione è che la nozione di
globalizzazione neoliberista è analiticamente errata e politicamente
fuorviante. Non è vero che i poteri d’intervento economico degli Stati dei
paesi a capitalismo avanzato siano in via d’obsolescenza o di drastico
ridimensionamento. Gli Stati capitalistici hanno effettivamente dei limiti
d’azione: ma non è vero che essi siano impotenti di fronte alla cosiddetta
globalizzazione dei mercati finanziari e delle merci, o che ne siano vittime.
Questa non è altro che l’idea liberale secondo la quale a «più mercato»
corrisponde «meno Stato».
Al contrario, nonostante
la marcata instabilità finanziaria, l’epoca cosiddetta «neoliberista» ha oramai
una durata maggiore della cosiddetta «età d’oro» interventista e «keynesiana».
Se le banche centrali e i governi dei paesi a capitalismo avanzato fossero
stati impotenti a fronte dei «mercati globali», allora la «grande recessione» o
una depressione sarebbe iniziata nel 1982, oppure nel 1987, o nel 1990, o nel
1992, oppure nel 1997 o nel 1998 o nel 2001.
Il fatto è che i rapporti strutturali tra la sfera
economica e quella statale non sono più gli stessi dei primi anni Trenta del
secolo scorso. È per questo che nel 2008 le economie dei
maggiori paesi a capitalismo avanzato non sono entrate in una spirale
depressiva simile a quella degli anni 1929-1933. Ed è per questa stessa ragione
che non c’è nulla di simile a un New deal
e che, al contrario, vengono rilanciate le ricette di politica economica e
anti-sociale etichettabili come neoliberali.
Affermare che i poteri
d’intervento degli Stati a capitalismo avanzato non siano affatto in via
d’obsolescenza non significa dire che attuando una «saggia politica» la crisi
non avrebbe avuto luogo. Non significa neanche escludere che essa non possa,
infine, sfuggire ad ogni controllo e precipitare in una fase depressiva acuta e
prolungata.
Quel che è cambiato
rispetto alla «età d’oro» detta keynesiana sono gli obiettivi e gli strumenti
dell’intervento economico degli Stati, non la loro capacità assoluta
d’intervenire.
La seconda lezione è dunque che i poteri d’intervento
economico e sociale degli Stati capitalistici non sono affatto ridotti ma, nel
corso degli ultimi trenta anni, sono stati ridefiniti i termini e le priorità
della politica economica e monetaria.
Le politiche statali sono
state ridefinite in funzione della crescente concorrenza internazionale e degli
squilibri mondiali tra un polo importatore, gli Stati Uniti, e i poli
esportatori della Germania e del Giappone.
Le regole dei sistemi
finanziari sono state ridefinite in modo da permettere il flusso finanziario
dal resto del mondo in direzione degli Stati Uniti, indispensabile per
mantenere l’attuale configurazione dell’economia mondiale.
I sistemi pensionistici
nazionali e le normative regolanti le istituzioni finanziarie sono state
riformulate in modo da massimizzare il drenaggio del risparmio dei lavoratori
verso il mercato dei capitali.
In Europa le politiche di
bilancio e la politica monetaria sono state sottoposte a nuove regole al fine
di promuovere l’euro come moneta di riserva internazionale, a fianco ma ancora
in posizione subordinata al dollaro. Sull’onda della crisi del debito estero
dei cosiddetti «paesi in via di sviluppo» sono state abbattute le barriere
all’esportazione di capitale e di merci in questi paesi, e poi realizzati
investimenti dall’estero in occasione della privatizzazione di industrie e
servizi statali.
Tutto questo sarebbe
inconcepibile in assenza di un forte intervento degli Stati dominanti. Le
istituzioni finanziarie private e l’innovazione endogena ai mercati finanziari
certamente svolgono un grande ruolo. Ma sono le decisioni delle più importanti
Banche centrali e gli accordi tra gli Stati dominanti che hanno scandito le
grandi linee dell’internazionalizzazione del capitale monetario. L’unificazione
monetaria di gran parte dei paesi europei ne è la dimostrazione macroscopica.
Lezione 3.
Guardando all’insieme delle politiche degli Stati a
capitalismo avanzato, più che di neoliberismo sarebbe meglio parlare di
neomercantilismo: cioè di un insieme di pratiche volte ad affermare
la competitività delle esportazioni di merci e a rafforzare la capacità di
penetrazione dei mercati esteri attraverso l’investimento diretto delle società
multinazionali o transnazionali. Tutto ciò richiede, ovviamente, che i
lavoratori siano del tutto sottomessi alla logica della competizione
internazionale.
La terza lezione che bisognerebbe trarre dalla crisi è che
le diverse politiche economiche di tipo neomercantilistico non sono
semplicemente il frutto di un’egemonia politica e culturale della destra. Il
neomercantilismo è, invece, l’espressione politica di una determinata
evoluzione strutturale dell’economia mondiale capitalistica e dei rapporti di
forza tra le classi su scala mondiale, in particolare nei
paesi a capitalismo avanzato. Con una metafora si potrebbe dire che il
neomercantilismo praticato dai più potenti tra i paesi a capitalismo avanzato
non sia altro che l’insieme dei processi fisiologici necessari alla
sopravvivenza di un determinato organismo: l’economia mondiale capitalistica
così come si è configurata dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
È questo che ne spiega la
persistenza e il rilancio, pur durante la crisi.
Lezione 4.
Se quanto sopra è vero, allora bisogna anche abbandonare
la nozione di globalizzazione. La tesi globalista secondo cui
i prezzi e i livelli di sviluppo socioeconomico tenderebbero a convergere in
unico mercato globale non è che la proiezione su scala planetaria dell’assunto
liberistico di un mercato perfettamente concorrenziale in uno spazio economico
omogeneo. Ovviamente, gli apologeti liberali della globalizzazione sostengono
che in questo modo si fa l’interesse dei paesi più poveri, grazie a una
migliore allocazione del capitale e ai trasferimenti di tecnologia; i critici
del neoliberismo sosterranno, al contrario, che la convergenza sia al ribasso.
Valutazioni opposte, visione del mondo simile.
Nella maggior parte dei
casi la nozione di globalizzazione è impiegata presupponendo un’epoca nella
quale l’economia mondiale capitalistica non era altro che la sommatoria di
economie nazionali. Si tratta di una visione errata. L’economia mondiale
capitalistica è da sempre qualcosa di più della semplice sommatoria delle
economie nazionali: la dinamica dell’economia mondiale capitalistica è il
risultato dell’insieme dei rapporti tra i diversi capitalismi in uno spazio
socio-economico strutturalmente eterogeneo.
La quarta lezione da trarre dalla crisi è che occorre
tornare a discutere in termini di sviluppo ineguale e combinato del capitalismo
come rapporto sociale contraddittorio e come realtà mondiale di capitalismi in
competizione. Il concetto di sviluppo ineguale e combinato comporta
la trasformazione ma anche la riproduzione dei dislivelli nello sviluppo
capitalistico, della produttività e delle condizioni di vita; comporta la
trasformazione ma anche la riproduzione della struttura gerarchica del potere
economico e della potenza politica e militare su scala mondiale.
In altri termini: occorre continuare a ragionare in
termini di imperialismo (o tornare a farlo per chi avesse smesso).
Pensare che il
capitalismo possa creare un’autentica società globale e un’umanità unita,
significa fargli il più grande regalo ideale. Se così fosse, il capitalismo non
avrebbe affatto esaurito la sua «missione storica» progressiva.
Il neomercantilismo
caratterizza anche i rapporti interni all’eurozona. Scomparse le valute
nazionali e la possibilità di svalutare, il capitalismo tedesco è partito con
un ovvio vantaggio in termini di competitività, rafforzato dalla stagnazione
quasi ventennale dei salari dei lavoratori tedeschi. Ma anche i capitalismi e
le caste politiche dei paesi oggi in crisi debitoria hanno tratto i loro
vantaggi dai più bassi tassi d’interesse e dalla maggiore disponibilità di
prestiti dall’estero. Il capitalismo non è in grado neanche di unificare
realmente l’Europa. È però in grado di far pagare ai lavoratori europei il
tentativo di fare dell’euro una moneta di riserva internazionale e il
salvataggio delle banche private.
Lezione 5.
Lo spazio sociale costruito dall’espansione mondiale del
capitalismo non è statico, dato una volta per tutte, come nelle prime teorie
della dipendenza degli anni Sessanta. È strutturalmente eterogeneo e
contraddittorio, ed è proprio questa eterogeneità che costituisce una delle
fonti dei sovrapprofitti capitalistici e del dinamismo del capitalismo come
sistema mondiale. Ma le ragioni del successo sono le stesse che creano nuove
contraddizioni e crisi.
Nel periodo 1950-1973 i
ritmi sostenuti dell’accumulazione di capitale nei paesi a capitalismo
avanzato, specialmente in Europa e in Giappone, generarono la cosiddetta «età
d’oro» dello sviluppo capitalistico. Vi contribuirono l’ampia disponibilità di
forza lavoro, qualificata ma a basso costo; la diffusione delle innovazioni
tecniche messe a punto durante la guerra; determinati rapporti tra banca e
industria; le nuove forme d’intervento statale nell’economia che si erano
delineate durante la depressione e la guerra. Per i capitalismi della Germania,
del Giappone e anche dell’Italia, furono però le esportazioni a svolgere una
funzione trainante, consentendo la forte crescita dell'investimento e delle economie
di scala, che altrimenti sarebbero state limitate dal mercato interno.
In termini marxiani fu un
periodo di alti profitti grazie ad una serie di circostanze concomitanti: alti
tassi di plusvalore, dovuti alla sconfitta subìta dai lavoratori nell’immediato
dopoguerra e non a un qualche «compromesso socialdemocratico»; la crescita del
valore dell’investimento in capitale fisso era bilanciata dal basso prezzo
delle materie prime e dell’energia, e compensata dalle economie di scala e
dall’innovazione nella produzione di mezzi di produzione e di beni di consumo.
Fu un grande successo, ma
fu proprio il successo che erose il predominio senza precedenti degli Stati
Uniti. In effetti, perché il capitalismo mondiale potesse prosperare, il
capitalismo statunitense doveva ridimensionare la propria posizione di assoluta
preminenza; per motivi sia politici che economici, un’Europa e un Giappone
prosperi erano necessari allo stesso capitalismo statunitense. Ma alla lunga
questo portò al crollo del sistema monetario internazionale di Bretton Woods,
al sistema dei cambi flessibili, al proliferare dell’innovazione finanziaria,
innanzitutto per compensare il rischio di cambio. Lo sviluppo sempre più
combinato, risultante dagli scambi commerciali e dall’esportazione di capitale,
e la riduzione dell’iniziale forte diseguaglianza tra gli Stati Uniti e gli
altri maggiori capitalismi, determinarono una condizione di sovrapproduzione e
quindi l’intensificazione della concorrenza.
Se si guarda a quel
barometro dello stato di salute del capitalismo che è il tasso di profitto, la
maggior parte degli studiosi marxisti è concorde, fra altre discordie, sul
fatto che il tasso di profitto à la
Marx è tornato a crescere nel corso degli anni Ottanta fino a riprendere, nella
seconda metà degli anni Novanta, il livello pre-crisi degli anni Settanta, pur
rimanendo ben al disotto del picco massimo, che è il 1965 nel caso degli Usa e
il 1960 o il 1970 per il Giappone. Il punto è che se il tasso di profitto è
tornato a crescere, non è così per il tasso di accumulazione, specialmente in
Europa e anche in Giappone, dove il tasso di profitto è crollato a partire dal
1990. I tassi medi di disoccupazione si sono raddoppiati, specialmente in
Europa restando a lungo su livelli elevati.
La nuova configurazione dell’economia mondiale emersa
all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso è, in definitiva, una sorta di
adattamento alla condizione di sovrapproduzione palesatasi sul finire degli
anni Sessanta. È una condizione persistente perchè, a differenza degli anni
Trenta, non ha avuto luogo una massiccia svalutazione o distruzione di
capitale.
Questa configurazione del
capitalismo mondiale non è il mero risultato di una presunta egemonia della
finanza. Essa si radica nella contraddittorietà dei rapporti di produzione.
Essa è stata voluta anche dal capitale produttivo, sia per la possibilità di
intensificare lo sfruttamento dei lavoratori sul territorio nazionale, sia per
la possibilità di penetrare i mercati esteri con le esportazioni di merci e di capitale.
L’esportazione di capitale nella forma dell’investimento produttivo nei paesi a
capitalismo avanzato, pari a circa l’80% degli investimenti diretti all’estero
mondiali, ha per obiettivo la domanda interna nazionale e regionale;
l'esportazione di capitale nei «paesi in via di sviluppo» o «emergenti» ha come
obiettivi sia la domanda interna sia, e prevalentemente, l’utilizzo di forza
lavoro a basso prezzo per le fasi meno qualificate del processo di lavoro a
fini di esportazione, prevalentemente nei paesi a capitalismo avanzato.
Il
cambiamento della gestione delle corporations
del capitale produttivo in direzione della partecipazione a operazioni
speculative, del riacquisto di azioni proprie e della gratificazione degli
azionisti attraverso la crescita della quota dei dividendi sul profitto,
certamente riduce la parte del profitto destinabile all’accumulazione. Ma
questo può essere interpretato come un effetto delle limitate aspettative circa
il rendimento dell’investimento produttivo. Quanto alle grandi banche, la
riduzione della quota del reddito da interesse sui prestiti al capitale
produttivo sul reddito totale e, viceversa, la quota crescente del reddito
derivante dal credito al consumo, dai mutui, da commissioni per operazioni e
consulenze finanziarie, sono fenomeni complementari al conseguimento
dell’autofinanziamento delle corporations
e possono pure avere la stessa radice.
Il succo di questo ragionamento è che la crisi attuale non
è solo e soprattutto la crisi di un tipo di politica economica ma è crisi
derivante da una determinata configurazione strutturale del capitalismo. Nella
crisi, che ha dimensioni mondiali e carattere generale, non siamo entrati solo
a causa di una politica economica o monetaria errata o solo a causa
dell’evoluzione delle pratiche speculative del settore finanziario. Queste sono
cause prossime della crisi, il detonatore che l’hanno fatta esplodere.
In altri termini: una prima discriminante teorica e,
implicitamente, politica, corre tra queste alternative: o s’interpreta la crisi
come espressione di contraddizioni strutturali del capitalismo contemporaneo,
oppure la s’interpreta come conseguenza di una determinata egemonia politica e
ideologica «neoliberista».
Se questo è vero, allora la quinta lezione è che dalla crisi
non si esce in forza della sola politica economica.
Lezione 6.
Direttamente conseguente da quanto prima e dalle più
recenti decisioni di politica economica è la sesta lezione: una crisi
capitalistica è sempre occasione per un nuovo assalto padronale e statale
contro la classe dominata.
La soluzione
capitalistica della crisi comporta la ristrutturazione del capitale, e fenomeni
di centralizzazione dello stesso.
Ciò comporta
necessariamente anche la svalorizzazione della forza lavoro, ovvero un tasso di
disoccupazione che metta in ginocchio i lavoratori.
Sulla base della
svalorizzarezione del capitale e della forza lavoro potrebbe essere possibile
aumentare il tasso di sfruttamento (o di plusvalore) e il tasso di
profitto.
Non è però detto che tutto
ciò sia anche condizione sufficiente per un periodo di lunga e sostenuta
crescita economica (ovvero di alti tassi di accumulazione del capitale).
Lezione 7.
Se la crisi economica è
sempre occasione di un attacco capitalistico ai lavoratori, non è vero
l’inverso. Non è vero che dalla crisi economica scaturisca la radicalizzazione
politica o uno sbocco politico a qualche titolo definibile «di sinistra».
Questo è tanto più vero
nell’epoca attuale.
La settima lezione da trarre dalla storia di questi ultimi
venti o trent’anni e dalle posizioni espresse in questa fase è che si è
veramente conclusa, e conclusa nel peggiore dei modi, la vicenda dei partiti
politici le cui radici un tempo risalivano al movimento operaio, fossero essi
di matrice socialdemocratica oppure di matrice terzinternazionalistica o
staliniana.
Se è vero che nei
primissimi anni Ottanta l’iniziativa era in mano alla «nuova destra»
thatcheriana e reaganiana, è anche vero che i partiti di matrice
socialdemocratica non hanno
semplicemente subìto il cosiddetto «neoliberismo». Essi lo hanno fatto proprio,
differenziandosi solo marginalmente, tatticamente, per stile e retorica, e per
il tipo di organizzazioni di supporto, dai partiti e dalle coalizioni di
destra. La differenza maggiore risiede nella capacità dei partiti di
centrosinistra o di «terza via» di neutralizzare i sindacati maggiori e di
realizzare accordi neocorporativi concedendo solo briciole.
Personalmente ritengo che questa sia l’autentica e
radicale discontinuità occorsa a cavallo degli anni Ottanta e Novanta rispetto
ai decenni precedenti. È importante rendersi conto
che questo non vale solo per i partiti socialdemocratici, che hanno reciso gli
ultimi fili che li legavano alla tradizione del movimento operaio, ma anche per
i partiti cosiddetti «comunisti» e le loro dirette derivazioni. L’Italia è il
caso esemplare della degenerazione non solo politica, ma anche ideale ed
etico-politica dei partiti di sinistra. E non è un caso, perché in Italia si
trovavano il più grande e attrezzato partito comunista e la più grande e
articolata estrema sinistra dell’«occidente» capitalistico. È da non credersi
che formazioni politiche che continuano a dirsi «comuniste» (Prc, Pdci e
ramificazioni varie…) dopo l’esperienza dell’ultimo governo Prodi possano
essere ancora dirette da personaggi che sono stati ministri di un governo
imperialistico oppure da un suo governatore regionale. Ed è francamente
patetico, sintomo di un’ingenuità che è difficile capire in termini di
razionalità politica, che ci si possa ancora stupire delle giravolte di questi
personaggi.
Conclusione
In conclusione, vorrei
svolgere alcune riflessioni sulla questione del metodo di elaborazione degli
obiettivi con cui contrastare gli effetti della crisi dal punto di vista dei
lavoratori e non della borghesia italiana.
Innanzitutto, il
valore anticapitalistico di un obiettivo non è una sua qualità intrinseca.
Qualsiasi conquista dei lavoratori può essere assorbita nella riproduzione del
sistema, o neutralizzata o deformata o, infine, rovesciata al momento
opportuno. Qualsiasi conquista dei lavoratori diversa dal rovesciamento del
potere statale e padronale costituisce una riforma del sistema.
La nazionalizzazione, ad esempio delle banche (anche senza indennizzo), può
danneggiare gravemente una frazione della classe dominante, ma non costituisce
certamente l’abbattimento del potere di questa classe nel suo insieme. Ovviamente, noi dobbiamo batterci per
conquiste parziali e settoriali, ma senza elevare alcun obiettivo a feticcio
anticapitalistico.
A fronte delle grandi
questioni sociali e dei movimenti di massa, il criterio con il quale gli
anticapitalisti dovrebbero formulare e valutare un obiettivo di lotta è quello
della capacità dello stesso di rispondere ai bisogni da cui scaturiscono i
movimenti e di favorirne nello stesso tempo la crescita della
coscienza politica in senso anticapitalistico. Se ci si ferma alla difesa degli
interessi immediati di classe avremo un onesto sindacalismo e un onesto
riformismo politico, quest’ultimo pressoché inesistente nei sistemi politici
dei paesi a capitalismo avanzato. Ma se si prescinde dagli interessi immediati
di classe allora non si avrà null’altro che la velleitaria rivendicazione
propagandistica della rivoluzione o, peggio, la rivendicazione di un governo di
sinistra od operaio in un’epoca in cui i partiti operai sono estinti. A mio
parere, nei paesi a capitalismo avanzato i partiti operai novecenteschi non
possono più risorgere: l’avanguardia politica deve trovare strade diverse da
quelle postulate dal leninismo, dal tardoleninismo, dal trotskismo, dalla varia
gruppettistica gerarchizzata.
L’effettivo valore anticapitalistico di un obiettivo
risiede nel suo essere motivo di contrapposizione tra le classi, nella sua
capacità di acutizzare tale contrasto: cioè nella dinamica di lotta e di
autorganizzazione che esso mette in moto.
Non è difficile elaborare
a tavolino una lista di obiettivi settoriali e parziali anticapitalistici.
Questo, però, è solo un esercizio formale e di mera propaganda che vi
risparmio.
I grandi movimenti
sociali, come quelli che occorrerebbero in questo momento, esplodono, se
esplodono, non per decisione dell’avanguardia politica ma in seguito a processi
spontanei di radicalizzazione che si trasformano in lotta. Non a caso parlo di
movimenti sociali e non di
manifestazioni/corteo nazionali simboliche o dimostrative o più o meno
spettacolari, che possono essere promosse e organizzate da partiti,
associazioni o sindacati. Di queste manifestazioni ne vediamo periodicamente da
anni e a volte con dimensioni enormi, ma non hanno portato ad alcun risultato
concreto.
I grandi movimenti
sociali in genere elaborano autonomamente le proprie parole d’ordine, i propri
obiettivi parziali. Il compito dell’avanguardia politica e sindacale è
radicalizzarli, chiarire la dinamica dello scontro, dissipare le illusioni. Tra
questi compiti c’è anche quello di spiegare le sconfitte, di sedimentare
l’esperienza, di creare le condizioni per cui non si ripetano gli stessi
errori.
Tra le illusioni correnti
c’è quella che si debba formulare un programma di politica economica
alternativa, o sottoporre ad esame il debito sovrano per decidere cosa si debba
pagare e cosa no, o addirittura uscire dall’eurosistema o, più modestamente,
puntare su un qualche improbabile referendum.
Questo significa mettere
il carro davanti ai buoi. Per operazioni del genere occorre avere già il potere
politico oppure contare su un «governo amico» di triste memoria. Per inciso,
noto che proposte di politica economica «alternativa» su scala nazionale sono in contraddizione
con la tesi della «globalizzazione» e dell’obsolescenza delle capacità
d’intervento economico degli Stati.
Mettersi
poi a dare consigli alla borghesia su come risolvere la propria crisi e
smussare le contraddizioni del sistema, o anche volerle imporre un qualche
compromesso progressista, sociale ed ecologico tra capitale e lavoro è
esattamente quel che non bisogna fare.
Non abbiamo bisogno di campagne d’opinione e neanche di
manifestazioni-spettacolo. Non abbiamo bisogno di velleitarismi politicistici.
Dobbiamo rifuggire dai surrogati referendari e istituzionali.
Tutto ciò costituisce un diversivo rispetto al compito
prioritario e una sostituzione di ciò che non si può inventare ma che è il solo
mezzo per iniziare ad aprire delle possibilità: lotte di massa su obiettivi determinati e specifici con l’obiettivo di
non cessare il conflitto finché non si conseguono concretamente, in tutto o in
parte.
Che possano confluire insieme in un movimento antigovernativo
e antipadronale che concretizzi, settore per settore, situazione per
situazione, l’indicazione politica centrale del momento:
NOI NON PAGHIAMO I COSTI SOCIALI DELLA CRISI E DEL DEBITO
CONTRATTO DA PADRONI, BANCHE E GOVERNI.
E NON VOGLIAMO NEMMENO CHE PER NOI LO PAGHINO I LAVORATORI
DI ALTRI PAESI.
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