Le specificità del "modello turco"
Il fatto è che il sorgere del concetto di Islam "moderato" è influenzato dal cosiddetto "modello turco", vale a dire la constatazione che l'avvento al potere del partito islamico Akp [Adalet ve Kalkınma Partisi (Partito per la giustizia e lo sviluppo)] per via elettorale non ha recato nocumento al funzionamento della democrazia rappresentativa. Va peraltro osservato che la situazione turca si trova ancora in una fase processuale non conclusa (e non finirà domani né dopodomani), aperta negli esiti. Inoltre essa va contestualizzata nel quadro della storia della Turchia contemporanea. Cominciamo da quest'ultimo aspetto.
Il successo del partito di Erdoğan - che tanto piace agli occidentali, a scapito delle forze laiche - nasce da più fattori, tra i quali la perdita di mordente dei partiti laici che dagli anni '20 del secolo scorso hanno governato la Repubblica turca, e il loro aver mancato nell'affrontare crisi economiche e politiche con forte corredo di violenze; la stanchezza per i colpi di stato militari e il protrarsi della questione curda senza soluzioni all'orizzonte; nonché una riscossa della cultura islamica e del passato ottomano, senza la quale l'identità turca (obiettivamente) si riduce a un mero fatto linguistico.
Ad ogni buon conto, lo stesso Erdoğan ha avuto modo di sottolineare il carattere di insulto alla religione musulmana insito nell'espressione "Islam moderato", esistendo (a suo dire) un unico Islam.
Orbene, non va trascurato un elemento fondamentale: il tanto decantato
“modello turco” deve fare i conti con una buona metà della società turca
plasmata dalla grande rivoluzione laica e modernizzatrice di Mustafa Kemal
Atatürk che ha eliminato il califfato, sottoposto allo Stato la sfera religiosa,
introdotto un codice civile modellato su quello svizzero, emancipato la donna
(quanto meno sul piano legislativo), introdotto il divorzio, combattuto il
velo, abolito l’alfabeto arabo (sacro, perché il Corano è scritto in arabo),
introdotto il calendario occidentale, affidato alle Forze Armate la custodia
della laicità dello Stato. Si tratta di quella parte della società turca che
qualche hanno fa dette luogo a imponenti manifestazioni di massa all'insegna
dello slogan “no alla sharī'ah”. E, per quanto spiacevole possa risultare, sul “modello turco” finora è stata pendente la prospettiva di un ennesimo intervento militare contro derive islamiche.
Una volta il generale turco Büyükanit, ex Capo di Stato Maggiore, dichiarò
che «Non esiste l’Islam moderato. L’Islam è l’Islam, una religione come tutte
le altre, che non deve restare ancorata nella coscienza dei singoli. Se appare
in pubblico, confligge inevitabilmente con il destino laico della Turchia».
Ovviamente il generale Büyükanit ha centrato il problema, e sul finale si
riprenderà questo concetto. Qui però va anche detto che questo militare
difensore strenuo della laicità dello Stato e della società è forse stato
l’ultimo Capo di Stato Maggiore kemalista doc, poiché di recente Erdoğan ha
avviato un processo volto a contenere all’interno delle caserme il potere delle
Forze Armate, cercando di evitare il bis di quanto accadde al partito precedessore dell'Akp – cioè il
Refah, sciolto nel 1995 per il carattere eccessivamente marcato in senso
islamico.
Ad ogni buon conto dietro l’espressione “modello turco” si cela in Turchia
una netta spaccatura fra società islamica e società laica (forte soprattutto
nelle grandi città, a cominciare da Istanbul e Izmir), visibile anche
esteriormente appena si metta piede in Turchia. Mustafa Kemal inorridirebbe al
vedere tante donne col fazzoletto islamico attorno alla testa (il volto resta
scoperto), ma sorriderebbe beffardo per le ragazze che, pur fasciandosi la
testa, indossano – a mo’ di seconda pelle – jeans strettissimi dall'innegabile
effetto sexy.
Pur non amandosi più di tanto – laici e militari, da un lato, e islamici,
dall’altro – per il momento abitano gli uni accanto agli altri, e la cosa è
innegabilmente agevolata da una particolare coesistenza, nella componente
islamica, fra Corano e business con
l’Occidente, idonea a dare luogo a convergenze ben materiali. Che in Turchia
esista un equilibrio forse altrove non ripetibile lo dimostrano due situazioni
emblematiche: una è il persistere del controllo statale, attraverso il
Dipartimento per gli Affari Religiosi, su quello che avviene nelle moschee e
sulle attività degli Imām; l’altra è
data dall'espulsione dalle scuole statali di insegnanti colpevoli di aver
esposto la teoria dell’evoluzionismo.
Impossibile un cambiamento in sostanza della religione islamica?
In astratto si deve rispondere di “no”. Il problema riguarda, però, l’oggi
per il tipo di sedimento storico realizzatosi per quanto concerne l’ambito
culturale islamico. Ci spieghiamo meglio.
Le grandiose conquiste culturali delle società musulmane durante il nostro
Medioevo non si spiegano se non alla luce del fatto che almeno fino ai secoli
XI-XII della nostra era c’era stata una prevalenza delle interpretazioni
coraniche meno restrittive. Poi, col determinante appoggio del potere politico, ci fu un netto cambio di rotta, emblematizzabile nella vittoria del teologo Abu
Hamid al-Ghazali, assurto a “fonte autorevole” dell'Islam. La sua vittoria –
con quel che vi era dietro – segna anche la fine della filosofia arabo-islamica
nel mondo sunnita (in quello sciita il filosofare continuò, ma in stretta
simbiosi con la religione e in dimensioni sempre più esoteriche). Talché, alla
fin fine, un ibn Rūshd (Averroè) ha influenzato più il pensiero europeo che non
la cultura delle società islamiche. I successivi avvenimenti storici hanno poi
consolidato questa svolta.
A dire il vero nei paesi arabi più avanzati era in atto, fino ai primi
degli anni ’50 del secolo scorso, un promettente processo di formazione di una
classe media colta che avrebbe potuto fungere da punto di riferimento per una
storica svolta culturale, attirando anche gli strati più popolari della
società. Non sappiamo come sarebbe andata a finire poiché il processo è stato
poi bloccato e invertito dagli eventi politici. E oggi questa classe media
colta è solo un ricordo del passato. Senza di essa la cultura islamica resterà
avvitata su se stessa. Tra il mondo dei ricchissimi, tanto orientati
essenzialmente al profitto parassitario quanto incolti e privi d’interesse per
le dinamiche culturali, e il mondo dei poverissimi, ovviamente concentrati
sulla sopravvivenza quotidiana, c’è il deserto; c’è la mancanza di una classe
che attraverso la cultura punti alla costruzione di un futuro diverso.
Quel che accade nei paesi islamici più ricchi (per pochi) dimostra che il
“brodo di coltura” per gli estremisti non è dovuto solo alle situazioni socio/politico/economiche
dei ceti “inferiori”: una parte importante la svolge la dimensione culturale
che ingabbia le società musulmane. Se si tiene conto della grande forza di
condizionamento/controllo esistente all'interno di queste società, allora tante
cose si comprendono. E in primo luogo come e perché siano proprio le componenti
religiose musulmane a non avere vita facile. Si pensi alla fazione degli Ahmadiya,
portatrice di una posizione abbastanza aperta, bandita in molti Stati musulmani.
E lasciamo stare i veri e propri eterodossi usciti dall'alveo islamico come i
Baha’i, illegali nel luogo di origine, l’Iran. Né va dimenticata la sorte del
teologo sudanese Mahmud Taha che, per non aver considerato di essere nato dopo
il sec. XII, nel 1985 è stato giustiziato come apostata e i suoi seguaci sono
stati perseguitati.
I partiti islamici: moderati
in quanto…
… in quanto non propugnano il ricorso diretto alla violenza. Questo è
l’unico dato certo, al momento. Ne dà una conferma autorevole l’ex ministro
dell’Istruzione della Tunisia Mohammed Charfi, il quale a chiare lettere ha
detto: «Gli osservatori definiscono oggi moderato l’islamista che innanzi agli
occidentali usa un linguaggio ragionevole e che non sceglie apertamente
l’azione violenta».
In Egitto il partito della Fratellanza Musulmana ha sempre come motto il
versetto 60 della sura VIII del Corano che dice: «E preparate contro di loro
forze e cavalli quanto potete, per terrorizzare il nemico di Dio e vostro, e
altri ancora, che voi non conoscete ma Dio conosce, e qualsiasi cosa avrete
speso sulla via di Dio vi sarà ripagata e non vi sarà fatto torto».
Ai perplessi si potrebbe obiettare che il partito di Togliatti continuava a
chiamarsi “comunista” anche quando ormai era socialdemocratico di destra:
comunque fra non molto i fatti ci diranno come stanno veramente le cose.
Sta di fatto che dopo la vittoria islamica alle elezioni tunisine il
quotidiano internazionale al-Hayat si
è preoccupato. E in un editoriale dal significativo titolo “L’Occidente
confisca le rivoluzioni a vantaggio degli islamisti” ha lanciato un atto di
accusa: «Mentre l’Occidente parla della necessità di accettare il risultato del
processo democratico che ha portato gli islamisti al potere nella regione
araba, aumentano i dubbi circa le intenzioni dell’Occidente stesso che ha
avviato una nuova politica volta a favorire lo sviluppo della corrente islamica
indebolendo le correnti moderniste, laiche e liberali».
Ogni dubbio è fondato alla luce del democratismo europeo, se si guarda alle più recenti elaborazioni teoriche del tunisino Rachid Ghannouchi, vincitore delle citate elezioni, che illuminano su come il partito Nahda intende il suo Stato “democratico”. Il rischio della teocrazia non appare, però… resta il ruolo base della sharī'ah, con quel che ne consegue.
Il particolare “moderatismo”
di Ghannouchi
Ghannouchi è un altro che si richiama al “modello turco”, ma il suo
programma in Turchia porterebbe dritti dritti alla guerra civile: secondo lui «Lo
Stato islamico è uno stato di diritto per eccellenza ovvero l’autorità della sharī'ah prevale su quella dello Stato»! Il quadro si completa attraverso un suo precedente libro del 1993 (Al-hurriyat al-‘amma fi al-dawla al-islamiyya, ovvero Le libertà generali nello Stato islamico) poiché, pur trattandosi di opera del passato estremista
dell’autore, le sue posizioni attuali non sono antitetiche. E infatti, circa il
ruolo del capo dello Stato si dice chiaramente che egli deve sviluppare la
politica statale nei limiti dell’Islam, educare la nazione islamica secondo i
precetti della religione, essere la guida nella preghiera e un esempio da
imitare. Il che vuol dire che deve essere un buon musulmano praticante e si
stretta osservanza.
Inoltre, quale spazio possa avere nella concezione di Ghannouchi la libertà
di pensiero – senza la quale non si ha democrazia, nemmeno in senso borghese –
lo rivela la sua posizione (che non risulta mutata) sull'apostasia, ovvero
sull'abbandono dell'Islam da parte di un cittadino. Qui il nostro
“candidamente” prende atto che una tale libera scelta è sanzionata dal Corano col
castigo senza però stabilire le pene terrene; tuttavia egli si rifà alla
tradizione islamica (quindi a un mero dato storico) che sceglie la pena di
morte!
Le manovre dell'imperialismo
statunitense
Equivale a sfondare una porta aperta il rimarcare il ruolo negativo
dell’immischiarsi della politica estera degli Stati Uniti comunque e dovunque,
al pari di quella di Londra negli anni d’oro dell’imperialismo britannico. Vale
però la pena di soffermarsi su una caratteristica pressoché costante di questa
vasta serie di interferenze: le azioni scarsamente logiche se viste nell'ottica
del “buon padre di famiglia” sia pure familisticamente amorale, o dell’accorto
stratega che mira a risultati stabili, se non necessariamente stabilizzanti. Il
mondo arabo – ieri come oggi – ne è un esempio. La pertinente osservazione del
giornale al-Hayat, già citata, coglie
il punto finale di una politica di interferenze che ha portato all'avvento di
una serie di dittature filo-occidentali, la cui durata peraltro non poteva che
avere una scadenza, quand'anche aprioristicamente non determinabile. In vigenza
di tali dittature nulla è stato fatto dall'esterno per rafforzare le componenti
laiche in previsione degli inevitabili cambi di regime, giacché - e qui calza
appieno l’osservazione del generale turco Büyükanit - solo se staccata dalle
strutture di potere, o priva di esse, la religione è socialmente innocua.
Conclusione ovvia; eppure…
Quando poi dalle urne, dopo sommosse di segno laico, esce fuori – quasi facendo cucù – la vittoria dei partiti islamici (fino a poco prima fuorilegge per i despoti locali amici dell’Occidente) ecco che lo stesso imperialismo dà per buona la loro moderazione ed è pronto a fare lucrosi affari con essi. Allora la conclusione non può che essere una, molto “logica”, seppure di una logica perversa, e comunque in linea con la dinamica dello “spirito” capitalistico: non si tratta di interferire per stabilizzare, sia pure a proprio vantaggio, bensì – e in continuazione – di creare, o permettere, situazioni instabili, conflittuali, esplosive non solo potenzialmente, che consentano la riproduzione di processi, sempre lucrosi per l'economia e la finanza (innanzitutto statunitense), di intervento esterno/distruzione/ricostruzione. E così continuando.
Tutto il resto non può contare. In questo scenario, le componenti laiche
delle società musulmane restano una nicchia innocua, a volte utilizzabile per
la propaganda. Oggi come oggi i laici da soli non ce la fanno a motivo delle
condizioni difficilissime in cui operano. Sono soli e soli restano. Per esempio
è interessante (oltre che deprimente) constatare la rilevante entità di voti
ricevuti dal partito di Ghannouchi tra gli immigrati tunisini in Francia: è il
segno del persistere di mentalità non facilmente sradicabili. C'è solo da
vedere se un minimo di “vaccinazione” non verrà proprio dai governi degli
islamici vincitori, così come il regime iraniano ha involontariamente vaccinato
tanti giovani. È pochissimo, ma che c'è di altro sullo scenario arabo?