6. Le relazioni fra Cina e Russia nella strategia americana
In linea con l’approccio teorico «realista» adottato nella NSS 2017, Cina e Russia sono definite insieme come potenze revisioniste (p. 25). La prima domanda è: di quale struttura dell’ordine internazionale si teme la revisione?
Nei primi anni del XXI secolo, la Cina è diventata il polo mondiale delle esportazioni e le ambizioni della sua politica estera sono cresciute in proporzione, sia per procurare energia e materie prime, sia in termini di rivendicazioni geopolitiche nell’Oceano Pacifico.
Tuttavia, il successo economico della Cina sarebbe stato impossibile senza la divisione internazionale del lavoro messa in atto dalle imprese transnazionali occidentali: si deve ai mercati di sbocco occidentali, in primo luogo quello nordamericano, e ai flussi di capitale e tecnologia dall’estero.
La Cina non ha alcun interesse a spodestare il dollaro dalla sua posizione di moneta chiave internazionale - il risultato sarebbe un danno irreparabile per la competitività e lo sbocco delle sue esportazioni; ci sono altre modalità di pagamento negli accordi bilaterali con la Russia - e nel destabilizzare l’economia statunitense.
La «pacifica ascesa» della Cina è avviata sulla via dell’imperialismo economico e dell’affermazione di uno status di grande potenza regionale, estendendo mezzi e sfera di sicurezza nel Pacifico - quel che in gergo si dice capacità Anti Access/Area Denial (A2/AD) - ma questa è una misura difensiva non necessariamente destinata a creare crisi maggiori. Obama aveva già iniziato ad affrontare la questione con il suo pivot verso l’Asia.
Dunque, il revisionismo cinese - se così vuol dirsi - ha i suoi limiti, e non solo in termini di capacità militari. I «compagni» capitalisti si sono integrati benissimo nell’economia mondiale capitalistica ed è assurdo pensare che intendano mettere a repentaglio la posizione raggiunta con azioni avventate nella scena politica internazionale o con decisioni di politica economica che potrebbero innescare la rivolta della classe operaia contro l’oligarchia del partito unico del capitale cinese.
Il caso della Russia è più complesso. Come un secolo fa e come ora la Cina, la Russia ha bisogno dei Paesi a capitalismo avanzato e nello stesso tempo li teme, per il semplice motivo che, relativamente a quel che erano l’Unione Sovietica e il suo gruppo di Stati satellite a sovranità limitata, si tratta di un imperialismo mutilato e debole ma in precaria ripresa.
La ricostituzione della potenza russa dipende dalle esportazioni di gas in Europa, i cui proventi Putin ha ricondotto dentro lo Stato: il settore energetico conta per il 20% del prodotto interno lordo e contribuisce a oltre metà delle entrate federali.
Questa dipendenza dalle esportazioni di energia, anomala e pericolosa per una grande potenza, segna anche le caratteristiche oligarchiche e da rentier del capitalismo russo (una delle ragioni della forte diseguaglianza sociale, giacché gas e petrolio, a differenza del «vecchio» carbone, sono industrie ad alta intensità di capitale), e quindi i limiti dell’imperialismo russo.
Con la transizione al capitalismo, la Russia si è «occidentalizzata» e all’Occidente continua a guardare: nonostante i discorsi eurasiatici, il mondo cinese gli è estraneo, mentre il paleoconservatorismo maschilista, militarista e religiosamente ortodosso di Putin si atteggia a erede dei «veri» valori del tradizionalismo a fronte della decadenza morale dell’Europa occidentale e, insieme, come continuatore dell’imperialismo slavofilo e granderusso.
Il problema della Russia è che, in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, il suo spazio geopolitico nel senso più ampio - demografico, socioeconomico, militare e culturale – è indefinito, diviso fra Stati ora indipendenti che, in diversi casi, non intendono riprodurre l’antica dipendenza imperiale dal regime sovietico, e - ancor peggio - è attraversato da conflitti e da opposti orientamenti geopolitici.
Quando si prendono in considerazione tutti gli aspetti, è la stessa identità della Russia ad essere problematica.
Sotto Putin, la Russia ha acquisito la capacità di rafforzare i legami con alcune repubbliche ex sovietiche (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan), e per prevenire il suo ingresso nella Nato e nell’Unione europea ha intrapreso una guerra con la Georgia (agevolata dall’avventurismo del presidente georgiano Saak’ašvili) e promosso e appoggiato il secessionismo delle Repubbliche popolari di Donets’k e di Luhans’k, nell’Ucraina orientale, annettendo anche la Crimea.
In altri termini, Putin ha dimostrato l’intento di creare una sfera d’influenza per l’imperialismo russo, facendo leva sulle consistenti minoranze russofone nelle repubbliche vicine. E così è entrato in contrasto con gli imperialismi europei e ancor più con quello statunitense, che non tollerano questo genere di sfere esclusive.
Tutto questo è aggravato dal fatto che la nuova Russia è nata nell’epoca della postdemocrazia: l’evento emblematico della postdemocrazia russa rimane la crisi politica dell’ottobre 1993 fra il presidente e il Parlamento, culminata con le cannonate ordinate da El’tsin contro il Parlamento russo e l’incendio dello stesso.
E, per quanto la sua politica estera appaia diversa da quella di «Corvo Bianco», l’ascesa di Putin si svolse all’interno del sistema di potere di El’tsin, e fu lo stesso El’tsin a designarlo come suo successore.
Col deteriorarsi dei rapporti con l’Occidente, il regime di Putin ha fatto sempre più leva sul nazionalismo granderusso e su un moralismo in linea con la destra tradizionalista e autoritaria. Se Putin fosse presidente di uno Stato dell’Europa occidentale, a sinistra molti di coloro che lo sostengono griderebbero al «pericolo del populismo autoritario» - o addirittura «fascista».
La seconda domanda è se Cina e Russia costituiscano o possano costituire un blocco strategico eurasiatico che si muova in una logica bipolare.
Il nocciolo di verità di questa tesi è che la situazione di questi Stati è cambiata relativamente all’ultimo decennio del XX secolo. Ciò nonostante, le loro posizioni nel sistema mondiale sono molto diverse e in nessun caso costituiscono sistemi sociali alternativi a quello capitalistico. Al più, si tratta di forme di capitalismo «differenti» dal modello «occidentale».
Le relazioni economiche tra Cina e Russia sono molto squilibrate a favore della Cina: la Russia offre energia, armi e cooperazione per mantenere la stabilità dei regimi dell’Asia centrale; per contro, la Cina esporta prodotti industriali, secondo un tipo di scambio che ricorda quello tra colonia e metropoli, con un costante attivo del saldo commerciale.
Non si deve dimenticare che per mezzo secolo - quando Mao era ancora vivo e la bandiera rossa sventolava sul Cremlino - Russia e Cina si fronteggiarono come nemici, con piccole battaglie sul confine del fiume Ussuri, nel 1969, e una guerra indiretta, nel 1978, fra la Cina e il Vietnam appoggiato dall’allora Urss.
Il problema della frontiera e del controllo delle piccole isole alla confluenza tra i fiumi Ussuri e Amur è stato chiuso fra 2003 e 2005, ma a lungo termine gli specialisti russi hanno motivo di preoccuparsi per il futuro dell’Estremo oriente russo a fronte dell’influenza di un gigante economico e demografico come la Cina.
La dirigenza russa ha bisogno dell’appoggio cinese sulla scena politica internazionale e della Cina per diversificare il proprio mercato energetico - in questo trovandosi in concorrenza con il Kazakistan - tuttavia ha anche motivo di temere la crescita della potenza militare cinese e la sua progressiva indipendenza dalle armi russe.
Dal canto loro, la dirigenza politica e gli affaristi cinesi non hanno alcun interesse a farsi coinvolgere nei tentativi russi di creare una sfera d’influenza in Europa: possono dunque appoggiare la Russia, ma certamente non fino al punto di danneggiare seriamente le proprie relazioni con gli Stati Uniti e i loro alleati.
Per esempio, la Cina non ha riconosciuto l’annessione della Crimea e nel Consiglio di sicurezza dell’Onu non ha votato contro, ma si è astenuta nelle risoluzioni sulla questione; sulla Siria, Cina e Russia insieme hanno posto il veto a cinque risoluzioni, ma nel 2016 la Cina si è astenuta, mentre la Russia ha posto il veto; e a quanto pare, a causa dei loro rapporti con gli Usa, di fatto le banche cinesi hanno aderito almeno in parte alle sanzioni contro la Russia (cfr. «China to join anti-Russian sanctions?», Pravda.ru, 9 febbraio 2016).
La tendenza della NSS 2017 - e di altri osservatori, sia a destra che a sinistra - a trattare la Cina e la Russia come se formassero un unico blocco strategico è quindi un grave errore, che confonde una convergenza tattica di interessi con un’alleanza duratura. Le oligarchie di Cina e Russia hanno un solo interesse su cui è possibile una vera alleanza: la protezione del loro stesso potere dai nemici interni che possono essere sostenuti dall’estero.
Il problema è che nell’Europa orientale e negli Stati ex sovietici si confrontano due tipi di imperialismo: quello del capitalismo russo - che, per la sua debolezza economica rispetto a quello occidentale, deve sfruttare direttamente mezzi come il ricatto energetico e la pressione politico-militare, essendo anche costretta a fare i conti con il nazionalismo antirusso, sedimentato da una lunga storia di oppressione nazionale e dalle tragedie dello stalinismo - e l’imperialismo occidentale, che è molto più forte economicamente e attraente come modello politico e sociale.
7. Conclusione provvisoria
Le azioni intraprese fino ad ora dall’amministrazione Trump sono in diretto contrasto con quelle di Barack Obama, e la visione del mondo della NSS 2017 è molto diversa da quella dei precedenti documenti.
Nell’intento di mantenere il primato degli Stati Uniti nel mondo - un obiettivo indiscutibile per qualsiasi presidente Usa - Obama aveva pure riconosciuto i limiti della potenza americana, superati dalla war of choice di Bush Jr. e segnalati dal prolungarsi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, e dalla crisi economica globale nel 2008.
Obama mantenne, come sempre, l’opzione dell’intervento unilaterale «se necessario» e continuò la «guerra al terrore» a suo modo, in parte sostituendo i droni armati con gli stivali; ma l’enfasi cadde sulla cooperazione internazionale, sul nuovo ruolo assegnato al G20, sui trattati multilaterali come il Trans-Pacific Partnership (Tpp) in Asia e il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), l’accordo sul clima e il nuovo Start con la Russia.
Resta il fatto che le grandi potenze - e anche la maggiore fra queste - possono soltanto cercare di orientare i movimenti della società mondiale secondo i propri interessi, ma contraddizioni, conflitti e rivoluzioni non possono essere dominati da alcuna potenza o gruppo di potenze.
La politica estera dell’America First di Donald Trump è animata da uno spirito di rivincita che non accetta i limiti della potenza americana, che pure resta di gran lunga la prima nel mondo sotto tutti i punti di vista.
Per di più, questa riscossa pretende di esercitarsi simultaneamente in tutti i campi e aree della politica mondiale: non solo nei confronti delle «potenze revisioniste» e degli «Stati canaglia» - oltre che del terrorismo - ma, specialmente nei rapporti economici, anche nei confronti di sicuri alleati; nel frattempo getta benzina sul fuoco del conflitto israelo-palestinese e promette una linea dura verso Iran, Corea del Nord e Cuba.
Questa è una prima e gravissima contraddizione della politica estera dell’amministrazione Trump. Ed esprime un atteggiamento foriero di disastri nel caso di una nuova crisi finanziaria internazionale, oltre ad essere una catastrofe grave e reale per le prospettive del clima globale.
In secondo luogo, come indicato sopra, la NSS 2017 non distingue adeguatamente fra Cina e Russia, contraddicendo con ciò un pilastro della politica estera statunitense che risale all’epoca Nixon-Kissinger. È senz’altro possibile che a questo proposito esistano divergenze fra il presidente e altri attori di alto livello dell’Amministrazione.
Fatto è che, nonostante il suo asserito realismo, nella logica hobbesiana e competitiva dell’America First esiste poco spazio per le sottigliezze di nixoniana memoria.
Dal punto di vista di Trump, la Cina è innanzitutto un avversario economico, non cogliendo l’integrazione della Cina nei flussi della divisione internazionale del lavoro della stessa economia nordamericana (un problema analogo si pone nei confronti del Messico) e nella fornitura di prodotti meno costosi per i lavoratori statunitensi; allo stesso tempo, gli imperialismi occidentali non possono accettare le pretese di esclusività dell’imperialismo russo nel suo «estero vicino».
Si tratta di un contrasto fra imperialismi sulla pelle dei popoli interessati, che alimenta il fuoco dei nazionalismi a danno di una lotta unitaria contro le oligarchie capitalistiche locali e di ragionevoli soluzioni al difficile problema delle nazionalità nei Paesi post-sovietici.
E per quanto il presidente Trump possa pensare a un riavvicinamento con Putin, egli si trova con le mani legate. D’altronde, i piani di sviluppo della forza militare convenzionale e nucleare, imprescindibili nella strategia America First, non sono propri di chi punta alla distensione.
In terzo luogo, la logica della NSS 2017 rende molto difficile risolvere il problema dei programmi nucleari di Iran e Corea del Nord, per il quale è importante la collaborazione fra Stati Uniti, Cina e Russia. L’alternativa è molto pericolosa, in questa come in altre possibili aree di crisi.
In quarto luogo, in modo molto più marcato delle precedenti, la politica estera trumpiana appare concepita essenzialmente in funzione della politica interna e finalizzata al consolidamento politico della cricca intorno alla sua persona. In questo presenta una strana similarità col ruolo della politica estera russa nel consolidare il regime di Putin, che ha progressivamente esaltato la «missione di civiltà» della Russia.
Tuttavia, mentre il nesso fra politica interna e politica estera nel regime di Putin ha una sua coerenza, adatta alle particolarità del capitalismo russo, la strategia di Trump non pare adeguata agli interessi complessivi e planetari del capitalismo statunitense; non sembra neppure appropriata alle esigenze della legittimazione interna in un Paese culturalmente più moderno e variegato della Russia.
A questo proposito, si deve ricordare che l’istituzione del rapporto sulla sicurezza nazionale non è l’aspetto più importante del Goldwater-Nichols Act. Quella stessa legge riorganizzava il Dipartimento della Difesa, snellendo e centralizzando la catena di comando e conferendo nello stesso tempo più autorità ai comandanti sul campo; secondariamente, promuoveva l’integrazione operativa tra le forze dell’esercito e dell’aviazione secondo la dottrina dell’AirLand Battle.
Oltre che per i suoi effetti nella pianificazione e conduzione delle operazioni, il punto è importante perché, portando i comandi militari - sia funzionali che nelle diverse regioni del pianeta - a rispondere direttamente al Segretario della Difesa e per questa via al Presidente, rafforzava ulteriormente l’autorità del potere civile nei confronti dell’apparato militare.
Tuttavia, non è affatto detto che i vertici del potere civile siano meno propensi all’uso della forza di quelli dei militari, e non è raro che sia vero il contrario; è importante ricordare che il comandante in capo delle Forze armate degli Stati Uniti è il Presidente.
E quando il presidente è un personaggio programmaticamente bellicoso come Donald Trump, esiste qualche motivo di preoccupazione: non è detto che ascolti i consigli dello Stato maggiore congiunto.
Infine, si può dire che per certi aspetti la NSS 2017 costituisce un ritorno all’epoca di Bush figlio, ma in un contesto internazionale assai mutato rispetto ai primi anni del XXI secolo.
Quanto a visione del mondo, essa è perfino più arretrata di quella dei neoconservatori di seconda generazione. Esprime una mentalità paleoconservatrice densa di contraddizioni che possono sfociare in nuove, pericolose avventure.