5. Il feticismo concettuale: multilateralismo/unilateralismo, unipolarità/multipolarità
La politica estera degli Stati Uniti è per lo più caratterizzata mediante dicotomie: internazionalismo/isolazionismo, multilateralismo/unilateralismo, universalismo/eccezionalismo, interventismo/non-interventismo, egemonia/impero, hard power/soft power.
L’utilizzo di queste coppie vorrebbe essere principalmente descrittivo, ma in effetti è fortemente normativo: serve a indicare quale dovrebbe essere la giusta politica. E, specialmente quando sono utilizzate come se un termine fosse l’antitesi dell’altro, spiegano poco le politiche realmente perseguite perché, in pratica, i caratteri peculiari delle amministrazioni e il loro particolare tono risultano dal modo in cui tutte le tendenze espresse da quei termini si fondono tra loro, dal loro peso relativo nelle politiche della difesa oppure dell’economia internazionale, e in momenti e situazioni diversi.
Previa critica, possono servire solo come termini genericamente descrittivi, non come concetti esplicativi.
Per esempio: Obama insisteva energicamente sul multilateralismo - sia economico che politico e militare, come per la crisi libica - e sul rispetto delle norme internazionali, ma non esitò ad agire unilateralmente, ad es. con l’uso massiccio e letale di droni in Paesi con cui gli Stati Uniti non sono in guerra (Pakistan, Somalia, Siria e Yemen), e ad autorizzare un’operazione - la liquidazione di Osama bin Laden - che violava in modo spettacolare la sovranità del Pakistan15.
Il panorama si complica ulteriormente se si considera che termini come unilateralismo e multilateralismo si riferiscono alle politiche, mentre la polarità (uni-, bi-, tri- o multi-) si riferisce alla struttura del sistema internazionale, come dato di fatto o come obiettivo delle politiche.
Logicamente, le politiche e le strutture si possono combinare in modi diversi: ad esempio, l’obiettivo di mantenere o conseguire un mondo unipolare può essere perseguito con una politica unilaterale oppure multilaterale; inversamente, l’obiettivo di un mondo multipolare può essere perseguito in modo unilaterale oppure multilaterale.
Allora si può dire che i neoconservatori americani sono unipolari e unilateralisti, ma multipolari e unilateralisti i paleoconservatori come Pat Buchanan, e unipolare e multilateralista buona parte dei neoliberali.
L’Unione europea potrebbe dirsi multipolare e multilateralista, ma come classificare Hitler o Stalin? Multipolari e unilateralisti? E la Russia o la Cina di oggi?
Si può dire che, per farsi strada nel mondo multipolare e creare delle proprie sfere d’influenza - in opposizione all’«egemonismo» degli Stati Uniti, ma anche in latente contrasto fra loro - combinino il multilateralismo e l’unilateralismo secondo la convenienza e l’opportunità di legittimare relazioni ineguali?16.
È assai dubbio che sia mai esistito o possa esistere un mondo unipolare; quanto al multilateralismo, in realtà esso è un campo di battaglia: il più forte può arrivare a sentirsi come Gulliver tra i lillipuziani, oppure i secondi possono avere una relazione del tutto squilibrata con il gigante.
Le dicotomie sono ancor più fuorvianti quando applicate come se il loro particolare significato restasse invariato se riferito a un periodo del XIX secolo, a quello fra le guerre mondiali, al secondo dopoguerra, agli anni ‘80 o alla scena internazionale più recente.
Entrano in gioco le variazioni dei rapporti di forza tra le classi all’interno dei Paesi e i processi di liberazione nazionale, i cambiamenti dei regimi politici nazionali, dei rapporti fra le grandi potenze, della letalità degli armamenti (l’arma nucleare segna una discontinuità epocale), e le trasformazioni dell’economia mondiale.
Il problema fondamentale dei concetti delle prevalenti teorie delle relazioni internazionali varianti del neorealismo è che, pur applicate a diverse situazioni storiche e alle trasformazioni del sistema internazionale degli Stati, essi sono socialmente e storicamente indeterminati.
Gli Stati sono assunti come «scatole nere», la loro economia è considerata solo per quanto riguarda il contributo alla potenza militare e alla loro posizione nella struttura del sistema internazionale; e si differenziano gli Stati dominanti orientati al mantenimento dello statu quo dagli Stati revisionisti dell’ordine esistente, prescindendo dalla specificità delle loro società.
Conseguentemente, la definizione di «interesse nazionale» rimanda alla sopravvivenza e all’integrità dello Stato, assunto come un feticcio che occulta la stratificazione della società, la natura di classe del potere politico e i diversi interessi politici internazionali che possono derivare dai contrasti fra le classi sociali.
Quando si prendono in considerazione la soggettività degli statisti e la percezione delle minacce e delle opportunità, ciò è comunque posto relativamente a un «interesse nazionale» che si vuole socialmente neutrale.
Il mondo bipolare della Guerra Fredda non era semplicemente diviso fra due blocchi di Stati, ma tra due diversi sistemi sociali (il capitalismo e uno statalismo totalitario burocratico o «socialismo di Stato»). Inversamente, le grandi potenze del mondo multipolare di oggi sono diseguali, ma omogenee quanto al rapporto sociale: sono capitalismi molto diversi.
Al di là del contenuto informativo e dell’interesse di analisi parziali, le teorie prevalenti delle relazioni internazionali si basano sul feticismo dello Stato e hanno gravi limiti nella spiegazione del processo storico - ad esempio, del crollo del sistema sovietico.
Per metodo e per apparato concettuale sono agli antipodi del metodo critico marxiano e della discussione intorno all’imperialismo come modo d’esistere del capitalismo mondiale17. E quindi queste teorie neorealiste delle relazioni fra gli Stati sono politicamente opposte alla strategia di lotta della sinistra rivoluzionaria contro l’imperialismo capitalistico: quella per cui costituisce un tradimento della causa socialista prendere parte per uno degli imperialismi in lotta.
Altra schematizzazione è quella per cui la politica estera statunitense oscilla tra il fare del Paese un esempio per il mondo - quindi con limitata inclinazione all’interventismo - e l’agire come uno Stato crociato attivamente impegnato nella promozione della democrazia nel mondo.
La realtà è molto più complessa e contraddittoria di queste semplificazioni: ad esempio, si può dire che la presidenza di Bush Jr. sia iniziata all’insegna dell’esempio e di una relativa moderazione, per poi svilupparsi malamente come una crociata contro il terrorismo e per la «promozione della democrazia».
Tutte le amministrazioni statunitensi a cavaliere fra il XX e il XXI secolo hanno avuto oscillazioni notevoli, sia a fronte degli sviluppi delle proprie azioni che a causa di eventi non previsti.
Ciascuna amministrazione ha il proprio slogan caratteristico «da vendere» sul mercato politico interno e internazionale, una certa retorica con cui cerca di differenziarsi dalla precedente e che trasmette una certa visione o atteggiamento di fondo o una priorità politica.
A volte, in modo più o meno appropriato, si parla di «dottrine»: contenimento del comunismo, «mai un’altra Cuba», vietnamizzazione, «giù le mani dal Golfo Persico», rollback (arretramento del comunismo) e appoggio ai «combattenti per la libertà», «nuovo ordine mondiale», engagement ed enlargement, e via elencando.
Queste devono intendersi come dosaggi tattici dell’esercizio delle forme più o meno morbide o dure del potere, modi di articolare le relazioni fra interessi economici e geopolitica, di selezionare le priorità politiche e militari, ma sempre entro i limiti delle finalità fondamentali indicate sopra.
Tutte le amministrazioni ereditano problemi e politiche, così come tutte devono fare i conti con nuovi problemi internazionali e le loro ripercussioni interne. È così che si definiscono sia la relativa continuità dei problemi e delle politiche, sia le specificità delle diverse amministrazioni dell’imperialismo statunitense.
Si tratta in effetti di varianti all’interno di epoche storiche che, nel loro insieme, sono il risultato di sviluppi della società mondiale nei quali la superpotenza americana gioca le proprie carte - come del resto l’Unione Sovietica in passato e la Russia e la Cina oggi - che tuttavia sfuggono al controllo di qualsiasi potere politico.
6. Le pericolose contraddizioni della politica estera dell’amministrazione Trump
Riferendosi agli affari esteri, Teddy Roosevelt consigliava: speak softly and carry a big stick, you will go far («parla piano e porta un grosso bastone, andrai lontano»). Trump invece agita pericolosamente un grosso bastone, ma nello stesso tempo parla o «cinguetta» moltissimo, in continuazione e in modo provocatorio.
Sul terreno strategico, l’amministrazione Trump è intenzionata a rilanciare il «momento unipolare» successivo al collasso sovietico - quando l’America emerged as the lone superpower (NSS 2017, p. 2) - recuperando, a suo parere, il tempo sprecato dai primi anni ‘90 e specialmente, si capisce, da Obama, che ha permesso ad altri attori di implementare con costanza «i loro piani a lungo termine per sfidare l’America».
Una prima considerazione è che questo «momento unipolare», ammesso che sia mai esistito, è naufragato nel primo decennio del nuovo secolo. La finestra di opportunità si è chiusa e non può essere aperta col nostalgismo, ma può essere ancora pericoloso proprio perché velleitario.
Secondariamente, il mantenimento o la restaurazione di un sistema unipolare di primato indiscutibile richiede quel che in gergo si dice multilateralismo, che non significa affatto privilegiare le Nazioni Unite e l’oligarchia imperialistica del suo Consiglio di sicurezza (come piacerebbe a Cina e Russia, che in quella sede hanno potere di veto), ma rafforzare ed estendere le alleanze evitando innanzitutto di irritare e offendere in vario modo, a scopi di propaganda interna, gli alleati politici e i partner economici internazionali.
Perfino i neoconservatori più propensi all’azione unilaterale e spregiatori delle Nazioni Unite non hanno mai sottovalutato l’importanza della Nato e la creazione di alleanze ad hoc: dal loro punto di vista, la determinazione degli Stati Uniti ad agire, «se necessario» in modo unilaterale - formula onnipresente - non è l’opposto del multilateralismo, ma un modo di promuoverlo in termini corrispondenti all’«interesse nazionale» degli Stati Uniti, che sarebbe quello del mondo.
Il principio neoconservatore afferma che dev’essere la missione a creare le alleanze, non viceversa. Intanto, però, i neoconservatori repubblicani hanno almeno in parte imparato la lezione, tendendo a convergere con i neoliberali democratici nell’idea di costruire un «concerto delle democrazie» che possa agire collettivamente: in questo caso la missione coinciderebbe con la natura dell’alleanza.
Infine, il primato politico e l’interventismo militare richiedono che si facciano concessioni sul piano economico: è improbabile che si possa conciliare la pretesa di essere la guida politica internazionale di un’economia mondiale aperta con un intransigente e gretto nazionalismo economico.
Tutte le amministrazioni Usa hanno posto agli alleati il problema dei costi, e non senza risultati positivi; tuttavia la questione va trattata diplomaticamente e con delicatezza, non strombazzata ai quattro venti con toni ricattatori.
Questo spiega i duri giudizi nei confronti di Trump di tanti bellicosi neoconservatori, oltre che dei neoliberali.
Prima di assumere la presidenza sarebbe stato possibile interpretare la linea di politica estera di Trump come vagamente nixoniana, ma invertita: avvicinarsi alla Russia per fare pressione sulla Cina. Già molto problematica, questa possibile linea pare caduta e quasi rovesciata.
Richard Nixon operò in modo coerente in un momento particolarmente critico: con mossa nazionalistica, la dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro allargò la libertà di manovra economica degli Stati Uniti, sebbene anche con effetti non previsti.
Allo stesso tempo avviò la «vietnamizzazione» della guerra e iniziò una relazione particolare con la Cina di Mao, premendo così sull’Unione Sovietica, quasi un’alleanza de facto che, retrospettivamente, si può intendere come l’inizio della fine del «comunismo» di matrice staliniana.
Inoltre, dopo il crollo sovietico, una certa coerenza d’intenti fra strategia politica e strategia economica si può vedere anche nella politica di Bush senior e di Clinton nella gestione della transizione nell’Europa centrale e orientale, nell’allargamento della Nato, nella promozione di accordi economici internazionali, nella liberalizzazione delle economie - il cosiddetto Washington consensus - e negli interventi militari multilaterali.
Obama cercò di ridimensionare i guasti politici dell’avventurismo di Bush figlio - che per qualche anno era stato favorito da una gigantesca bolla speculativa - rilanciando il multilateralismo economico e «resettando» le relazioni con la Russia, fino all’esplosione della crisi ucraina nel 2014, rivolta popolare contro una delle oligarchie che si alternavano al potere (in questo caso quella centrata sul Donbass e più legata alla Russia) nella quale ovviamente le potenze occidentali e la Russia hanno fatto i loro interessi e giocato le loro sporche carte.
Per ultimo, Obama iniziò un riorientamento sia economico che politico-militare verso l’Asia.
Come già detto, la dicotomia unilateralismo/multilateralismo non è adeguata a spiegare la politica estera, che è sempre un impasto che varia con le situazioni, il tempo e anche i campi: realizzare mediazioni che portino a un equilibrio fra la strategia di sicurezza nazionale e la politica economica internazionale è un problema.
Trump, invece, manda all’aria accordi economici già delineati, minaccia guerre commerciali e si ritira dagli accordi sul clima. Dice di voler mandare a monte il più importante accordo strategico a cui l’Unione europea partecipa, quello con l’Iran sul suo programma nucleare (pare essere stato contraddetto dal suo segretario di Stato, Rex Tillerson).
Tratta il problema nucleare con la Corea del Nord con la brinkmanship (la politica del rischio calcolato di sinistra fama, attuata ad esempio durante la crisi dei missili nucleari sovietici a Cuba nel 1962), mentre dovrebbe coinvolgere diplomaticamente Cina, Russia e Giappone, come in passato. Riconosce perfino Gerusalemme quale capitale di Israele, mossa simbolica che è uno schiaffo all’ipocrisia della diplomazia internazionale.
La ristrutturazione della tassazione, l’aumento della spesa militare e la richiesta di finanziare un vago programma di investimenti in infrastrutture promettono un aumento del debito pubblico indigeribile per l’ortodossia fiscale dei membri del Congresso.
Trump si muove come un elefante in una cristalleria, per cui contraddizioni si sommano a contraddizioni.
Nel linguaggio delle relazioni internazionali, per quanto riguarda la strategia di «sicurezza nazionale», l’intento unipolarista è in contraddizione con la linea dell’unilateralismo; a sua volta, quell’intento è contraddetto dal nazionalismo della strategia economica che ammette un mondo multipolare, ma popolato di concorrenti scorretti da ricondurre all’ordine.
La strategia America First pare concepita essenzialmente per vincere le elezioni e da un punto di vista riduttivamente nazionalistico, non all’altezza degli interessi complessivi, mondiali e a lungo termine del capitalismo americano e dei suoi alleati.
America First è in realtà America Alone, e questo non può durare. Paradossalmente combina una linea megalomane che ignora i limiti della potenza militare americana con la sottovalutazione della forza d’attrazione del suo capitalismo.
Se Trump voleva essere imprevedibile, è riuscito nel suo intento. È la ragione dell’incertezza, della confusione e della varietà di valutazioni circa il corso della sua politica estera.
L’imprevedibilità in sé è destabilizzante e può essere intesa come una strategia efficace contro un avversario, ma nei confronti degli alleati? E per quanto tempo può funzionare? Quanto è utile alla credibilità degli intenti perseguiti? Non è forse l’atteggiamento di un giocatore di poker incline al bluff? E cosa accadrà quando gli altri giocatori vorranno «vedere» le carte?
Da più di vent’anni, il governo della Corea del Nord segue una tattica il cui schema è ormai chiaro: alzare periodicamente e in modo deliberato la tensione, poi negoziare per ottenere qualcosa in cambio di apparenti passi indietro nel programma nucleare, fino al successivo turno tensione-negoziato.
Quando Trump «cinguetta» in risposta all’erede dinastico della Corea del Nord: «Anch’io ho un bottone nucleare, ma è molto più grande e potente del suo», può far pensare a certi confronti tra ragazzini, ma mostra anche una pericolosa tendenza alla brinkmanship.
In questo schema di cose, un primo rischio è che il gioco sfugga di mano; oppure che il vantato «bottone» nordamericano si riveli una delusione, con conseguente perdita di credibilità.
Dal punto di vista degli interessi dell’imperialismo, la politica estera di Trump risulta incoerente e sbagliata nel metodo e nel merito - è il peggior Presidente del secondo dopoguerra, probabilmente da un secolo a questa parte. Gli ottimisti sperano possa essere opportunamente corretta: ma devono fare i conti con la definitiva natura imperiale che la presidenza ha assunto intorno alla metà del XX secolo.
Il potere presidenziale nei campi della difesa e della politica estera si è esteso ben oltre la lettera della Costituzione ed è difeso in termini e per situazioni che sarebbero stati inaccettabili anche per i più interventisti fra i Presidenti del XIX secolo.
La tendenza è irreversibile perché poggia su cambiamenti strutturali della società americana e dei suoi rapporti con il mondo: per questo motivo la «presidenza imperiale» si può intendere come un graduale accumulo di precedenti e una volontaria delega di poteri da parte del Congresso.
Con risoluzioni come quella sulla difesa di Formosa nel 1955, sul Medio Oriente nel 1957, in seguito all’incidente del Golfo del Tonchino nel 1964, e l’autorizzazione all’uso della forza militare del 14 settembre 2001 - per citare alcuni esempi storici - il Congresso ha volontariamente ed entusiasticamente ceduto al Presidente di turno il potere che la Costituzione gli attribuisce: decidere quando e contro chi dichiarare guerra e autorizzare operazioni militari limitate diverse dall’autodifesa.
Il fatto si spiega con la convergenza bipartisan intorno agli obiettivi fondamentali della politica estera ed è legittimato dall’estensione sempre più ampia della nozione di difesa, fino all’azione preventiva prima ancora che la minaccia si manifesti concretamente. Tesi che come minimo è costituzionalmente assai discutibile, ma materialmente coerente con la dimensione mondiale dell’imperialismo statunitense e le resistenze con cui deve fare i conti.
Tuttavia, la forza della «presidenza imperiale» non è un dato invariabile. Quando il Congresso vuole esercitare le sue competenze deliberative e di controllo, allora il carattere imperiale della presidenza si ridimensiona (come nei primi anni successivi allo scandalo Watergate), oppure deve prendere strade politicamente e penalmente rischiose.
Il momento peggiore per Reagan, ad esempio, fu lo scandalo Iran-Hezbollāh-Contra, originato dal fatto che l’Amministrazione dovette trovare il modo di aggirare limiti e divieti imposti dal Congresso al finanziamento della guerriglia antisandinista: un imbroglio intercontinentale completamente illegale, che comportava la vendita di missili antiaerei all’Iran in cambio della liberazione di ostaggi americani detenuti da Hezbollāh in Libano, per poi canalizzare i 18 milioni di dollari ricavati dallo scambio verso i Contras in Nicaragua.
La politica estera di Clinton fu assai condizionata dalla maggioranza repubblicana del Congresso: la situazione di divided government - presidenza e maggioranza di entrambe le camere a partiti diversi - è ora più frequente che in passato e può quindi indebolire la linea dell’amministrazione o rigettarne iniziative, ad esempio la ratifica di trattati.
Il contrasto riguarda i mezzi e i modi, non i fini fondamentali della politica estera e della difesa: nondimeno, in certe crisi può avere conseguenze rilevanti.
Oltre che dalla rivalità fra i partiti, l’atteggiamento del Congresso nei confronti della politica estera del Presidente dipende da fattori come il successo delle iniziative presidenziali, la popolarità del Presidente (e pertanto la convenienza per i legislatori di allinearsi all’amministrazione), e l’intensità con cui è percepita una minaccia internazionale, che permette di giocare la carta patriottica del rally round the flag, dell’unità nazionale.
Viceversa, tanto più nella società è forte l’opposizione alla guerra e tanto minori sono la popolarità e la legittimazione di un Presidente - e Trump ottenne 2,9 milioni di voti meno di Hillary Clinton, un record negativo - tanto maggiori le ripercussioni sui rapporti fra Presidente e Congresso e le divergenze fra e negli apparati statali.
I livelli insuperati dei picchi di popolarità per Bush padre all’inizio dell’attacco all’Iraq e di Bush Jr. dopo gli attentati del 2001 non impedirono al primo di perdere le elezioni presidenziali del 1992 e al secondo di affondare nell’impopolarità, anche questa insuperata.
Trump non ha potuto impedire che alla fine di luglio 2017 il Congresso approvasse una legge che prevede nuove sanzioni contro la Russia (e l’Iran e la Corea del Nord). Al capo dell’esecutivo rimane ovviamente una certa libertà di manovra nell’applicazione più o meno celere ed efficace di queste sanzioni, ma l’obbligo rimane: su questa base, infatti, viene criticato.
Si tratta di un vincolo determinato da una schiacciante maggioranza bipartitica che è un chiaro segnale: 98 favorevoli e 2 contrari al Senato, 419 contro 3 alla Camera dei rappresentanti. Curiosamente, questi voti sono quasi identici a quelli per le risoluzioni sul Golfo del Tonchino (88 contro 2 al Senato, 416 a 0 alla Camera) e del 14 settembre 2001 (98 a 2 al Senato, 420 contro 1 alla Camera).
Di conseguenza, le speranze degli ottimisti non sono prive di fondamento; tuttavia sono assai precarie e incerte. Gli aggiustamenti alla visione del mondo, alla retorica e alle promesse elettorali dovrebbero essere così importanti da risultare in una politica estera decisamente non-trumpiana. Sarebbe un bel problema per la coerenza e la credibilità del Presidente della maggior potenza mondiale, che non può essere rimosso agevolmente né pare avere, al momento, gravi problemi di salute.
Dal punto di vista degli oppressi e degli sfruttati, è questa una buona notizia? Non proprio, perché alle «normali» nefandezze dell’imperialismo si aggiungono i pericoli che possono scaturire dall’incoerenza e dall’impopolarità.
Dai sondaggi Gallup risulta che il tasso d’approvazione per Trump è al livello di quello del secondo mandato di Bush figlio: una media del 39 e 37% rispettivamente - un disastro che è tanto più significativo perché in questo momento gli Stati Uniti non sono in recessione e il tasso di disoccupazione è al minimo dall’inizio del secolo.
La considerazione finale è questa: se l’idea che gli attentati dell’11 settembre siano stati fabbricati da qualche entità del governo statunitense è un’idiozia, non si può escludere che Trump arrivi a fabbricare una qualche crisi internazionale nella speranza che il popolo si unisca intorno alla bandiera da lui agitata.
1 «We are totally predictable. We tell everything. We’re sending troops. We tell them. We’re sending something else. We have a news conference. We have to be unpredictable. And we have to be unpredictable starting now». Cit. da «Transcript: Donald Trump’s foreign policy speech», The New York Times, 27 aprile 2016 (corsivo mio).
2 Quasi una vendetta che ribaltava su Trump la campagna complottistica di cui era stato un protagonista, mirante a negare a Barack Obama il diritto di accedere alla Presidenza in quanto nato - così erroneamente asserivano - all’estero. Si vedano: «Open letter on Donald Trump from GOP national security leaders», War on the Rocks, 2 marzo 2016 e l’impressionante elenco di repubblicani - in precedenza funzionari della National Security - che si sono opposti alla campagna presidenziale di Trump.
3 Il testo classico sull’argomento è di Arthur M. Schlesinger Jr.: The imperial presidency, Houghton Mifflin, Boston 1973 [La presidenza imperiale, Edizioni di Comunità, Milano 1980]. La presidenza di Bush figlio - e le implicazioni nazionali e internazionali della «guerra al terrore» - ha originato molti studi polemici. Al riguardo segnalo: Andrew Rudalevige, The new imperial presidency: renewing presidential power after Watergate, University of Michigan Press, Ann Arbor (MI) 2005, che ricostruisce tutta la questione dalle origini in modo molto dettagliato, sia per gli affari interni che internazionali; William F. Grover-Joseph G. Peschek, The unsustainable presidency: Clinton, Bush, Obama, and beyond, Palgrave Macmillan, New York 2014; Ryan C. Hendrickson, Obama at war: Congress and the imperial presidency, University Press of Kentucky, Lexington (KY) 2015; Michael A. Genovese e David Gray Adler, The war power in an age of terrorism: debating presidential power, Palgrave Macmillan, New York 2017.
Il punto di vista imperiale è invece difeso da John Yoo in The powers of war and peace: the Constitution and foreign affairs after 9/11, University of Chicago Press, Chicago 2005. Mentre lavorava nell’Office of Legal Counsel del Dipartimento di Giustizia, Yoo fu autore di alcuni dei più memorabili memorandum di consigli legali per l’amministrazione di Bush Jr., in particolare in materia di iniziativa militare, di standards for interrogation, di leggi tortura, di modi per aggirare la Convenzione di Ginevra sul trattamento di prigionieri e civili in guerra e sotto occupazione.
4 Cfr. l’archivio dei rapporti sulla National Security Strategy.
5 Cfr. Perry Anderson, The H-word: the peripeteia of hegemony, Verso, London/New York 2017.
6 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, Einaudi, Torino 1975, pp. 1638 e 2010.
8 La responsabilità di proteggere è un principio in linea di massima ampiamente condiviso che prevede che la comunità internazionale si attivi nel caso uno Stato metta in atto o non sia in grado di impedire genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica o crimini contro l’umanità. È stato impiegato in diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, quindi approvate anche da Russia e Cina, ad esempio a proposito della Libia nel 2011 e 2012. Come è ovvio, i problemi nascono al momento di valutare le situazioni e i modi d’applicazione del principio.
10 Ibid., p. 21 (corsivo mio).
12 George Washington, Farewell address, 19 settembre 1796; cfr. la sua analisi da parte di Felix Gilbert in To the Farewell address: ideas of early American foreign policy, Princeton University Press, Princeton (NY) 1961.
13 Susan Strange, Capitalismo d’azzardo, Laterza, Roma/Bari 1988, p. 71.
14 Sulla crisi terminale dell’Urss e l’utilizzo dei poteri dell’élite «comunista» per convertirsi in classe capitalista: David M. Kotz-Fred Weir, Russia’s path from Gorbachev to Putin: the demise of the Soviet system and the new Russia, Routledge, London/New York 2007; Simon Clarke-Peter Fairbrother-Michael Burawoy-Pavel Krotov, What about workers? Workers and the transition to capitalism in Russia, Verso, London 1993; Simon Clarke, The development of capitalism in Russia, Routledge, London/New York 2007. Sulle contraddizioni dei rapporti di produzione sovietici ritengo indispensabili due lavori di Donald Filtzer, entrambi pubblicati da Cambridge University Press: Soviet workers and de-stalinization: the consolidation of the modern system of Soviet production relations, 1953–1964 (Cambridge 1992) e Soviet workers and the collapse of perestroika: the Soviet labour process and Gorbachev’s reforms, 1985–1991 (Cambridge 1994).
15 Per comparazione: secondo una stima, gli attacchi mediante droni in Pakistan durante l’amministrazione Bush furono 45 - di cui 35 nel 2008 - e 1 in Yemen; durante il primo mandato di Obama, rispettivamente, 280 e 58 (Ryan C. Hendrickson, Obama at war: Congress and the imperial presidency, cit., p. 30).
16 Trovo particolarmente utili per la ricchezza informativa, a prescindere dalle valutazioni degli autori: per la storia delle fasi della politica estera russa, con riferimento anche ai diversi orientamenti geopolitici, Andrei P. Tsygankov, Russia’s foreign policy: change and continuity in national identity, Rowman & Littlefield, Lanham (MD) 2006; per l’analisi dettagliata della politica estera russa regione per regione, in tutti i campi e per ciascuno Stato ex sovietico, Bertil Nygren, The rebuilding of greater Russia: Putin’s foreign policy towards the CIS countries, Routledge, London/New York 2008; per l’analisi dei rapporti fra Cina e Russia, della cooperazione e del reciproco opportunismo, Bobo Lo, Axis of convenience: Moscow, Beijing, and the new geopolitics, Chatham House, London 2008.
17 Cfr. Michele Nobile, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari ed., Bolsena 2006.