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© TIME Magazine/Marco Grob |
Al momento i grandi media non se ne occupano, ma sembra proprio che nuovi e pericolosi venti di guerra stiano per soffiare nel Mediterraneo orientale.
Il 15 ottobre 2016, in un discorso nell’università che (modestamente) porta il suo nome, il Presidente turco ha esposto alcune linee della nuova politica estera da lui elaborata, annunciando l’intenzione di riconquistare i territori persi dall’Impero ottomano a seguito della sconfitta nella Prima guerra mondiale, con specifico riferimento alla Tracia occidentale e al Dodecanneso, tutte zone appartenenti alla Grecia, in teoria alleata della Turchia nella Nato.
Nel dicembre 2017 gli ha fatto eco il leader dell’opposizione laica neokemalista, Kemal Kılıçdaroğlu, guida del Partito Repubblicano del Popolo (Chp), annunciando che nel 2019 la Turchia avrebbe invaso diciotto isole greche - come nel 1974 l’allora primo ministro Bülent Ecevit aveva fatto con Cipro - dichiarando che «non esiste alcun documento» comprovante l’appartenenza alla Grecia di queste isole. Questo accadrebbe - e qui sta la gravità della cosa - se il suo partito (apparentemente socialdemocratico) dovesse vincere le prossime elezioni.
Un altro segnale è venuto dal discorso pronunciato da Erdoğan il 17 febbraio a un congresso del suo partito (Akp) tenutosi a Eskişehir. Parlando dell’azione militare contro i Curdi di Siria, ha proclamato:
«Coloro che pensano che abbiamo cancellato dai nostri cuori le terre da cui cent’anni fa ci siamo ritirati in lacrime si sbagliano. In ogni occasione ribadiamo che Siria, Iraq e altri luoghi della mappa dei nostri cuori non sono diversi dalla nostra stessa patria. Ovunque venga inteso l’appello alla preghiera, noi lottiamo affinché non si brandisca una bandiera straniera. Quanto fatto sinora è niente a confronto degli attacchi ancora più imponenti che prevediamo per i prossimi giorni: Dio lo vuole!».
Infine, nella sua recente visita ad Atene, Erdoğan aveva affrontato - solo sul piano diplomatico, però - il problema costituito da quelle isole egee poste vicino all’Anatolia che il trattato di Losanna del 1923 aveva assegnato alla Grecia, esprimendo l’esigenza di una revisione di quell’accordo.
Nel frattempo, è utile notarlo, veniva perfezionata la vendita alla Turchia dell’ultramoderno sistema antimissile russo S-400, iniziativa criticatissima dalla Nato anche perché non compatibile con gli altri sistemi d’arma usati dall’Alleanza Atlantica.
Va ricordato che il trattato di Losanna - superando il precedente trattato di Sèvres, leonino e vessatorio per quel che restava dell’Impero ottomano - riconosceva la riconquista di tutta l’Anatolia da parte delle forze kemaliste, e che a fronte di ciò l’attribuzione alla Grecia delle isole e dei territori traci ora contestati era accettabile.
Era anche una sorta di contentino per Atene, rovinosamente sconfitta da Atatürk dopo essersi installata con l’appoggio britannico nella zona di Smirne, nel folle sogno di ricostituire in parte l’Impero bizantino (era la cosiddetta Megali Idea).
Gli episodi preoccupanti che si inquadrano in questo clima prebellico non sono mancati, e il recentissimo scontro nell’Egeo fra due pattugliatori, il greco 090 Gavdos e il turco Umut, è stato solo un elemento della serie. Il 28 luglio 2017, per esempio, un aereo spia turco CN-235 era stato intercettato dai Greci, e il 12 agosto seguente undici aerei F-16 turchi erano sconfinati per un periodo di dodici ore nello spazio greco, determinando per tredici volte altrettanti voli d’intercettazioni da parte dell’aviazione ellenica, oltre alla formale segnalazione alla Nato. Si è trattato di sconfinamenti nei cieli di Limnos, Lesvos, Samos e Chios.
Che i bellicosi propositi revanscisti contagino anche l’opposizione turca è grave sia in sé e per sé, sia per il fatto che dai neokemalisti ci si aspetterebbe che abbiano ben chiari i motivi per cui lo stesso Atatürk aveva più volte ammonito a non farsi nemici alle frontiere: il bene e la sicurezza della Turchia.
Oggi ci sono truppe di Ankara (e altrettanti nemici) fuori dai confini della Repubblica turca nella parte occupata di Cipro, nel nord della Siria e in Iraq.
Nella zona irachena di Mosul, le truppe turche sono ancora una volta presenti senza il permesso del governo di Baghdad, che infatti parla di invasione. Proprio nella regione di Mosul, secondo quanto denunciato dall’ex capo di Stato maggiore greco, il generale Fragkos Fragkoulis, la Turchia intenderebbe assicurarsi l’accesso al locale greggio iracheno. Sarebbe una sorpresa se, prima o poi, Erdoğan rivendicasse (magari ricorrendo anche ad azioni militari) l’acquisizione di tutto il territorio dell’ex vilayet di Mosul, a cui effettivamente aspirava la Turchia kemalista ma che fu assegnato all’Iraq per volere britannico?
A questo punto l’attuale operazione in Siria presenta connotati inquietanti, che potrebbero portare a complicazioni internazionali e spargimenti di sangue. Il problema è capire contro chi, realmente, vada a operare la svolta “imperiale” di Erdoğan.
Che le porte dell’Europa siano chiuse per la Turchia è ormai così evidente che in maggioranza gli stessi Turchi hanno smesso di farci conto, e forse - col vento islamista che tira - non vogliono nemmeno più entrarci.
Un altro esempio di come la miopia politica colpisca “di rimbalzo”: se invece di chiudersi (ipocritamente, senza dirlo) nella xenofobia razzista e nell’antislamismo paranoico - disponendo tuttavia di un maggior livello culturale, chiaramente deficitario - le dirigenze europee avessero colto l’occasione per ammettere quel Paese quando ancora gli islamici assertivamente “moderati” non avevano il potere, oggi avremmo forse una situazione diversa e problemi diversi.
E probabilmente l’Akp avrebbe potuto contare su una carta in meno: il pericoloso orgoglio turco ferito, che inevitabilmente ripiega sul vecchio detto «il solo amico del turco è turco».
Oggi Erdoğan, il cui consenso popolare non sembra scemato, ce l’ha con tanti: la Germania, l’Ue, la Nato e gli Stati Uniti, in parte a causa del fallito golpe contro di lui - molto probabilmente attivato dai suoi “alleati” occidentali - e con l’aggiunta che l’arcinemico Fethullah Gülen continua a vivere tranquillo negli Usa. Non si può escludere che l’atteggiamento a dir poco ostile verso la Grecia faccia parte di un disegno per mettere in difficoltà la Nato, di cui fanno parte entrambi i Paesi.
Un articolo apparso di recente sul giornale turco Yeni Şafak (perfettamente allineato con Erdoğan), se da un lato ha aumentato le preoccupazioni greche, dall’altro può fornire elementi d’interpretazione. Il suo autore, İbrahim Karagül - un “duro” dell’Akp ritenuto portavoce ufficioso del Presidente - fa capire che l’ulteriore svolta di Erdoğan fa seguito al persistere delle ambiguità occidentali e in particolar modo degli Usa, finti amici della Turchia e complici del nemico curdo.
A questo punto, una volta ricompattato il Paese attorno a sé, egli lo condurrebbe a una nuova “guerra d’indipendenza” (dopo quella di Atatürk), facendo passare per traditori della patria quanti si azzardassero a non seguirlo. In teoria fra costoro ci potrebbero essere i neokemalisti, e forse (da sottolineare il forse) questo spiegherebbe il “fare la faccia feroce” da parte di Kemal Kılıçdaroğlu. Ma non è detto che sia questo il caso, perché al contagio ipernazionalista i Turchi sono molto sensibili.
A latere ci sono le strizzatine d’occhio del nostro alla Russia, fermo restando che a Mosca si sa bene quanto sia inaffidabile il Presidente turco. Ma anche verso la Russia egli non si sta comportando bene, come dimostra l’operazione «Ramo d’ulivo», che può anche essere vista come parte di una più ampia strategia in cui i sogni neo-ottomani dell’islamico “moderato” Erdoğan possono tramutarsi in un incubo per gli altri.
I recenti eventi sul campo di battaglia di Afrin rendono tutt’altro che irrealistiche le possibilità di un ampio scontro fra truppe turche e siriane.
Poiché non sembra che le recenti epurazioni di massa nelle Forze armate ne abbiano rafforzato l’efficienza, se la Siria reagisse aiutata da Mosca, Erdoğan potrebbe finire col chiamare in aiuto la Nato, indipendentemente dall’aver in precedenza pontificato che gli obblighi dell’Alleanza Atlantica non si estendono al Vicino Oriente.
Finora i Russi hanno mantenuto un atteggiamento prudente, ma come proficui alleati di Assad non potrebbero perdere la faccia lasciando campo libero alla Turchia. Sta di fatto che non sarebbe la Turchia ad essere aggredita - si tenga a mente che si combatte in territorio siriano e non turco - ma non ci sarebbe nulla di strano se Erdoğan, rigirando la frittata, arrivasse a sostenere (alla maniera israeliana) che la sua è stata un’azione di difesa preventiva per evitare l’aggressione curda.
Il Presidente turco si rivela un buon allievo della scuola statunitense di politica internazionale - per la quale il diritto internazionale, quando conviene, è carta straccia - nelle disinvolte violazioni dei confini altrui, come dimostra il caso dell’intromissione armata nelle prospezioni energetiche nel mare attorno a Cipro, Paese sovrano e membro dell’Ue, alla cui porta Erdoğan fa finta di continuare a bussare.
Da parecchi giorni la Turchia tiene bloccata la nave Saipem, noleggiata dall’ENI e regolarmente autorizzata dal governo cipriota, adducendo pretese destituite di ogni fondamento in base ai trattati internazionali.
Il trattato di Montego Bay (1982) stabilisce che la sovranità di uno Stato si estenda fino a 12 miglia marine dalla sua costa, tuttavia per il caso specifico dello sfruttamento esclusivo di minerali ed idrocarburi viene estesa a tutta la sua piattaforma continentale, da intendersi come naturale prolungamento della terra emersa sino a che essa si trovi ad una profondità più o meno costante prima di sprofondare. Ma la prepotenza paga sempre.
E la povera e disastrata Grecia, lasciata in braghe di tela dall’Ue? Ha chiesto protezione agli Stati Uniti! In effetti il suo destrorso ministro della Difesa, Panos Kammenos, ha offerto agli Statunitensi nuove basi nell’Egeo; mossa arrischiata per il notorio alto tasso di tradimento verso gli alleati da parte di Washington nel momento del loro bisogno, e poi perché è stata messa in atto apposta per far infuriare i Turchi.
Nel peggiore dei casi sperare non costa niente, ma in questo caso non è chiaro quale potrebbe essere l’oggetto della speranza. Sperare nell’impantanamento turco in Siria? Ma quand’anche così fosse, possiamo stare sicuri che Erdoğan non cercherebbe la rivincita sulla debolissima Grecia?
Sperare che intanto egli soddisfi i suoi appetiti imperiali nel Vicino Oriente? A parte il fatto che non è detto che ciò accada, tuttavia, se anche ciò avvenisse, niente garantisce che così si plachi il suo appetito imperiale, soprattutto se fosse davvero intenzionato a riconquistare vecchi territori ottomani perduti nel Vicino Oriente e in Europa.
Un disegno in apparenza folle, ma considerati tutti i fattori in campo - fra cui la sperimentata natura imbelle di vari soggetti in gioco - non è sicuro che lo sia veramente, anche se folli ne sarebbero le conseguenze.