Le mobilitazioni in
corso in Europa contro la crisi e i suoi responsabili stanno provocando anche
una diffusa discussione su elementi di analisi economica e politica cruciali
per qualsiasi processo di trasformazione sociale di rilievo. In generale si può
dire che si estendono positivamente argomentazioni di carattere apertamente
anticapitalistico, di rifiuto globale di un sistema considerato inemendabile, e
di ripudio anche di intere strutture istituzionali, parlamentari e politiche,
indipendentemente dai “colori” di chi le gestisce, nonché richieste di vera
giustizia sociale e di democrazia reale e sostanziale.
Tuttavia, risulta
piuttosto diffusa una vulgata sulle responsabilità principali della crisi e sui
suoi attori dominanti che ingigantisce alcuni protagonisti di essa
rimpiccolendone oltre misura altri, che poi spesso sono quelli davvero
principali; e che non riesce a dare conto del perché, a tre anni dall’esplosione
ufficiale della crisi, non solo a pagare siano stati sempre gli stessi settori
popolari più deboli e indifesi, ma per giunta senza che a livello europeo si
stabilisse una qualche forma di resistenza e difesa comune tra i settori
sociali più colpiti e tra le loro forme di rappresentanza o protagonismo
sociale, politico e sindacale.
Sarà opportuno
innanzitutto intenderci su alcuni criteri di valutazione complessiva del
funzionamento del sistema capitalistica odierno, e in particolare sul rapporto
tra Stati-nazione ed economia globale e tra capitali di Stato e capitali
privati.
Il mito
dell’esaurimento degli Stati. Capitali statali nazionali e capitali privati.
Già nel primo
periodo no-global era assai diffusa una vulgata – poi ridimensionata dalle
esplosioni di guerra e dai conflitti interstatali cruenti dell’ultimo decennio
– che vedeva gli Stati (persino quelli più potenti) come cani morti, senza
potere, in piena balia dei cosiddetti mercati mondiali (o del capitale
finanziario internazionale, come sarebbe corretto dire) o addirittura alle
dipendenze di organi transnazionali come il WTO, il FMI, la Banca Mondiale: e
qui si arrivava davvero all’assurdo, visto che tali organi sono composti da
funzionari dei principali Stati capitalistici, lì collocati dai rispettivi
governi per attaccare l’asino dove vogliono gli Stati nazionali committenti.
In genere tale
argomentazione si faceva e si fa forza su alcuni dati numerici relativi alla
sproporzione tra la massa monetaria che si muove sui mercati finanziari mondiali
e quella gestibile da ogni singolo Stato. Tale sproporzione effettivamente
esiste: ma è in realtà pura astrazione, un gioco di specchi possibile solo con
la complicità e l’assenso dei principali Stati dominanti e delle loro
istituzioni pubbliche e private, nazionali e transnazionali.
Se facciamo un
confronto non sul denaro informatico, per così dire, ma sulla base di capitali
veri e concreti, la sproporzione tra ciò che possono mettere in campo gli Stati
(ovviamente parlo di quelli più potenti, non mi riferisco al Bangla Desh o allo
Zimbabwe) e ciò che è in mano a privati,
sia per quel che riguarda il sempre più ridotto capitalismo familiare sia per
le grandi multinazionali, è del tutto a favore dei primi, in modo da rovesciare
la consolidata convinzione che la “borghesia di Stato” (tornerò poi su questo
concetto), cioè il dilagante funzionariato che gestisce il capitale
“pubblico” statale, non sia altro che un
branco di cialtroni servi del capitale privato.
Se prendiamo ad
esempio l’Italia, i dati sono lampanti. Negli ultimi 5 anni l’entrata media
annua dello Stato italiano è stata intorno ai 450 miliardi di euri; ma se
teniamo conto che, per ammissione comune, si aggira tra i 300 e i 400 miliardi
annui il bottino dell’evasione gigantesca (solo il 3% degli italiani/e dichiara
almeno 100 mila euri annui di reddito) e ad almeno 200 miliardi ammonta la
voragine causata dal sistema tangentizio e dalla corruzione nell’apparato
statale, possiamo ragionevolmente dire che, con uno sforzo neanche enorme di
“polizia finanziaria” per gli evasori e di pulizia per la corruzione statale,
lo Stato avrebbe a disposizione ogni anno almeno 700-800 miliardi di euri con
modalità assolutamente certe ed insindacabili.
Se guardiamo invece
al capitalismo privato italiano (escludendo ENI ed Enel che non considero
affatto in tale regime) l’impresa con il maggior fatturato annuo è la Fiat che
arriva a malapena a 60 miliardi (e magari il prossimo anno ne perderà buona
parte), mentre al secondo posto abbiamo Finmeccanica con poco meno di 20
miliardi di euri: dunque, seppur ragionando su indici non equivalenti appieno, abbiamo un rapporto tra
capitale di Stato e capitale fatturato dai due principali gruppi privati che è,
rispettivamente, di circa 12 a
1 e di 35 a
1.
Per giunta si potrebbe
dire che abbiamo conteggiato, per il capitale di Stato, poco più dell’”argent
de poche”. Se entrassimo nel merito delle proprietà statali immobili e di
quelle di Lor Signori privati i rapporti diverrebbero incommensurabili (100 a 1?). Lo Stato possiede
ricchezze di portata enorme, persino quello italiano non certo tra i più
potenti: strade e autostrade, porti ed aereoporti, infiniti terreni e territori
dal valore gigantesco, decine (o centinaia) di migliaia di immobili di ogni
portata e dimensione, ricchezze artistiche incommensurabili ecc..
Dunque,
bisognerebbe sorridere quando si sente parlare di “fallimento di uno Stato” a
proposito della Grecia o dell’Italia, della Spagna o del Portogallo. E’
evidente che Stati con tali e tante ricchezze a disposizione possono dichiarare
fallimento solo con le stesse modalità di quei negozianti che dichiarano ogni
anno di fare saldi a prezzi stracciati per “chiusura esercizio”, finendo di
fatto con lo scaricarsi un debito consistente e fastidioso ma rimanendo con vastissime proprietà e mezzi
finanziari a disposizione.
Assecondare questa
idea di impotenza statale di fronte ai “colossi” del capitalismo privato non
può che fare un favore a questi ultimi, perché induce un senso di frustrazione
a livello popolare, lasciando capire (malgrado l’Argentina e la Russia ieri e
l’Islanda oggi ci abbiano dimostrato abbondantemente il contrario) che nel
confronto-scontro con tali mega-capitali la sconfitta è assicurata, chiunque
gestisca lo Stato: e che dunque non vale manco la pena di porsi il problema di
toglierlo di mano alla borghesia di
Stato e privata.
Il “governo unico
delle banche”?
Ma è anche figlia
di tale pessima lettura del capitalismo la teoria, altrettanto irreale, del
“governo unico delle banche” che richiama alla mente il SIM, lo Stato
Imperialista delle Multinazionali, su cui erano fissate le Brigate Rosse, ma
anche quel “governo unico delle multinazionali”, organizzato tramite FMI, WTO e
Banca Mondiale, che per tanti nostri amici no-global (prima della guerra all’Afghanistan
e poi all’Iraq) sarebbe andato cancellando i poteri degli Stati e dei governi,
costruendo un surreale Impero pacificato che avrebbe posto fine a guerre e
conflitti interstatali di marca ottocentesca e novecentesca.
Anche qui si
potrebbe comparare il capitale a disposizione delle banche centrali nazionali e
quelli delle singole banche private e rilevare lo stesso rapporto
sproporzionato a favore delle prime. E poi magari controllare le spaventose
cifre messe in campo dai capitali di Stato (Usa e Gran Bretagna, in primis) per
salvare le banche e i gruppi finanziari e assicurativi privati nel 2008,
incomparabilmente superiori alle possibilità di tutte quelle strutture salvate
messe assieme. E oggi la UE si impegna a mettere a disposizione per analoghi
salvataggi qualcosa come 3000 miliardi di euri: quale banca transnazionale
potrebbe mettere in conto somme minimamente paragonabili a queste?.
Ma soprattutto, e
non solo per l’Italia, va messo in discussione il vero carattere privato delle
banche principali, nel senso di istituzioni davvero indipendenti e addirittura
alternative e dominanti rispetto al potere statale dei gestori del capitale
nazionale “pubblico”. Basterebbe ripercorrere tutta la storia delle principali banche italiane nel
dopoguerra per vedere una costante: la dipendenza dei gruppi dirigenti dalle
strutture statali e politico-istituzionali.
E a chi volesse
sostenere che il neo-liberismo ha cambiato le cose nell’ultimo decennio,
ricordo la recentissima vicenda del “potentissimo” Geronzi, considerato fino a
ieri un dio del capitalismo finanziario privato italiano, una sorta di nuovo
Cuccia, liquidato in poche ore una volta che gli equilibri politici erano
mutati a sfavore dei suoi protettori istituzionali.
Persino più assurda
mi pare la lettura che molti danno del ruolo della Banca Centrale Europea
(BCE). Qui si ripete, ma aggravato, lo stesso bizzarro errore del movimento
no-global agli albori, a proposito del FMI, WTO, Banca Mondiale et similia. I
gestori di queste strutture non sono capitalisti privati né ci vengono
collocati da multinazionali, anche se alcuni possono in passato aver avuto
ruoli in tali ambiti. La stragrande maggioranza di essi ha sempre svolto ruoli
da “borghesia di Stato”, da funzionario del capitale di Stato, venendo
collocati in tali posti di potere rispettando una rigida alchimia (una specie
di manuale Cencelli internazionale) di rapporti di forza tra Stati e, in ognuno
di essi, tra governi e opposizioni.
Ad esempio, un
Draghi non va a dirigere la BCE perché è un agente della Fiat o della
Wolkswagen: ma perché ha il placet dello Stato e del governo tedesco di cui da
sempre è grande propagandista e che vorrebbe veder imitato, seppur da
subordinati, anche dalle caste politiche e economiche italiane. O per converso,
uno Stark abbandona la BCE non perché si è messo d’accordo con i “mercati”
mondiali per speculare ancor meglio contro i PIIGS, ma perché fa parte di
quella corrente politico-istituzionale tedesca (suo maestro l’allora direttore
della Banca Nazionale tedesca, Tyidemayer, che stolidamente si oppose
all’unificazione tedesca temendone le immediate conseguenze finanziarie e senza
guardare oltre il proprio naso) che ritiene giusto scaricare tutti i costi
della crisi sui PIIGS per evitare che la Germania debba pagare alcunché,
malgrado sappia che il tracollo della zona-euro costerebbe nell’immediato
carissimo anche al suo paese.
La borghesia di
Stato e il capitale nazionale
Nei sit-in sotto la
Camera e il Senato dei giorni scorsi ho sentito ripetere fino alla nausea che
il personale politico parlamentare “non conta più un cazzo” e fa solo da
passacarte delle banche e dei gruppi finanziari internazionali. Quando si parla
della “casta politica” ho l’impressione che tanti non abbiano chiare le
dimensioni del fenomeno e del ruolo e si limitino a fotografare con sdegno la
grottesca cialtroneria degli Scilipoti et similia.
Il tessuto
politico-istituzionale in realtà pervade tutto il paese come un fittissimo
reticolo che non lascia scampo o libertà quasi ad alcuna struttura sociale
pubblica. Se alle centinaia di migliaia di politici inseriti fin nelle
circoscrizioni e gli apparati rionali e in tutte le strutture
para-istituzionali, si somma l’”indotto”, cioè l’insieme di municipalizzate,
aziende pubbliche o semipubbliche, o private con presenza statale, comunale,
regionale o provinciale, calcoli attendibili dall’interno parlano di cifre
oscillante tra i 2 milioni e mezzo e i tre milioni di persone: che riportati a
dimensioni familiari ci fanno dire che almeno dieci milioni di persone traggono
proventi diretti dal mondo della politica. O, come sarebbe più corretto dire,
da quel mondo di “borghesia di Stato” fatto di funzionari che gestiscono il
capitale di Stato usandolo come se fosse loro proprietà, anche senza averne il
possesso giuridico formale come singoli individui.
Ma l’intreccio è
anche più ampio, perché capitalismo di Stato e privato, soprattutto in Italia,
si intersecano ovunque, così come il capitale finanziario e quello industriale
o “produttivo”. Ho già detto delle banche ma anche a livello commerciale,
artigianale e industriale i settori di grandi o medie dimensioni che vivano
senza attaccarsi alle mammelle del capitale di Stato (che almeno in teoria
sarebbe il nostro capitale pubblico nazionale, quello spremuto dalle tasche di
tutti/e noi), sono una vera e propria rarità. In realtà la piramide della
borghesia di Stato (ma chi preferisce la chiami pure “casta”, purché ne intenda
bene le gigantesche e ramificate dimensioni e i suoi intrecci con il capitale
privato) ha un vertice che si intravede nei palazzi principali del potere
politico ed economico di Stato ma ha una base molto più ampia di quello che si
crede di solito.
E’ esattamente
questa rete onnipresente che garantisce il consenso o almeno il controllo o
l’attenuazione del dissenso (ridimensionato a mugugno) e spiega al 50% (il
resto lo vedremo più avanti) la quasi incredibile passività di massa degli
ultimi tre anni in Italia, a parte limitate e lodevoli lotte settoriali nonché
il grande successo referendario sui beni comuni, segnale assai positivo ma a
cui purtroppo non è seguita una mobilitazione adeguata sulla generalità del
conflitto. Se davvero in questo triennio in Italia e in Europa avessimo avuto
come avversari e nemici solo le grandi banche private e i grandi finanzieri e
industriali, con le “masse” tutte egualmente spremute e messe all’angolo,
allora sì che avremmo avuto l’iradiddio. Ma così purtroppo non è.
Il cuore della
crisi per l’Europa, l’Italia e l’intero Occidente
E’ davvero
sorprendente che il punto di partenza strutturale della crisi economica e
finanziaria sia sottovalutato, se non addirittura ignorato. Esso si incentra
sulla perdita, da parte del capitalismo occidentale a guida statunitense,
dell’egemonia indiscussa e universale e della possibilità, pressoché
indisturbata fino ad ieri, di saccheggiare le ricchezze del restante mondo
senza trovare ostacoli. E’ dalla profonda crisi del dominio incontrastato
dell’imperialismo USA e dei suoi alleati subordinati che si deve partire per
intenderne le conseguenze a catena.
L’ultimo decennio
ha visto un processo inarrestabile di autonomizzazione, recupero delle proprie
ricchezze e della gestione del capitale “pubblico” statale da parte di un
numero rilevante di paesi: e nel contempo ha registrato la crescita poderosa di
economie estranee al mondo occidentale (Nord America, Europa, Giappone) che,
oltre a produrre a buon mercato e con prezzi ultra-competitivi rispetto alla
media occidentale, hanno sfondato anche il muro della qualità nelle produzioni
più importanti e innovative.
Il ruolo della Cina
è conosciuto oramai da tutti quando si parla di produzioni a prezzi stracciati
che invadono il mondo; meno noti sono i suoi enormi progressi nei prodotti di
avanguardia e tecnicamente sofisticati, nella ricerca e sperimentazione
scientifica, nel controllo monopolistico di materie prime cruciali come le
cosiddette “terre rare” e, infine, nella diffusione di un neo-imperialismo
soft, di tipo relativamente nuovo (anche se in parte somigliante a quello
sovietico d’antan) che diffonde la longa manus del capitalismo di Stato cinese
in Africa come in America Latina, sottraendo spazi consistenti alla triade
Usa-Europa-Giappone. L’India non è allo stesso livello (soprattutto per la
produzione di massa a basso prezzo e per la diffusione imperial-soft), ma
quantitativamente ha contribuito nell’ultimo decennio all’operazione di
ridimensionamento degli imperialismi dominanti e dei loro spazi di saccheggio.
Sulla stessa scia
Sud-Africa e ovviamente Russia, una volta ripresasi relativamente dal tracollo
dell’Urss; e lo stesso vale per i due terzi dell’America Latina, che ha cessato
da parecchio di essere “il giardino Usa” e che, dal Brasile al Venezuela, dalla
Bolivia all’Ecuador, seppure in forme diverse, va recuperando i propri capitali
nazionali e le proprie ricchezze gestendoli con forme da capitalismo di Stato o
con una forte presenza di esso. E si potrebbe continuare con il Vietnam e tanti
altri stati dell’ex-Terzo Mondo e nell’immediato futuro assai probabilmente anche
buona parte dell’Africa, a partire dal Maghreb, potrebbe ridurre ulteriormente
gli spazi per lo storico saccheggio occidentale. Il tentativo Usa di fermare
questo processo con la guerra è fallito miseramente: oggi gli Usa non
controllano realmente né l’Iraq, né l’Afghanistan e men che meno hanno potuto
fermare con la forza l’autonomizzazione di gran parte dell’America Latina.
L’effetto epocale e
globale di questo processo ha innescato il processo di crisi. Ridotti i
proventi del saccheggio imperialista mondiale, e in particolare l’accesso a
prezzi stracciati alle materie prime, i singoli capitalismi nazionali (di Stato
e privati, intrecciati) hanno dovuto, per mantenere un livello di profitti
adeguato, ridurre significativamente quella parte del “bottino” che nei decenni
passati (e nei momenti migliori del welfare) era stata distribuita ai salariati
e ai servizi sociali per mantenere il controllo dei settori popolari e evitarne
la conflittualità.
Questo processo di
riduzione selettiva, se portato a fondo, avrebbe provocato però due effetti
negativi, se non opportunamente calmierato: a) la vistosa riduzione dei
consumi, con effetti depressivi sulle produzioni nazionali; b) la ri-partenza
di cicli di lotta sociale intensa modello anni 60-70. L’attenuazione dell’impatto
è stato dunque affidata all’espansione del debito: soprattutto privato nel caso
Usa, soprattutto pubblico nel caso europeo. Per un po’ la cosa ha funzionato:
ma poi la gigantesca bolla cartacea e virtuale è esplosa, non solo per il suo
lievitare continuo e oramai incontrollabile in quantità e qualità; ma anche
perché i paesi extra-occidentali che, migliorando la propria condizione media
negli ultimi anni non avevano avuto bisogno di tale indebitamento, hanno
contribuito a smontare il gigantesco bluff.
Così, anche i
migliori intenti europei e le convergenze tra i capitali di Stato e privati
delle singole nazioni, che per un certo periodo avevano fatto credere che dalla
semplice unione monetaria si potesse arrivare ad un continente davvero
unificato sul piano politico e economico, sono progressivamente venuti meno e
ognuno si è ritrovato a difendere e rappresentare soprattutto gli interessi,
tra di loro conflittuali, dei vari capitali nazionali.
In tal quadro, continuare a parlare di crisi
globale è del tutto improprio. I paesi emergenti succitati, dalla Cina
all’India, dal Brasile al Venezuela, dalla Bolivia al Vietnam e altri, in
Estremo Oriente o addirittura a due passi da noi la Turchia (che evitandosi per
sua fortuna il tanto desiderato ingresso in Europa ha registrato l’anno scorso
il record di incremento del PIL superando con uno sbalorditivo 12% anche la
Cina), e persino in molti paesi africani, hanno migliorato le proprie
condizioni, accelerato o mantenuto costante la propria crescita economica e
anche la diffusione di un certo benessere tra le classi medio-basse.
Gran parte di
questi paesi lo ha fatto affidando un ruolo centrale (o importante) al capitale
statale nazionale che ha trovato misure di alleanza efficace con il capitale
privato, basate su un keynesismo di
ritorno, che, mentre ha garantito tassi di profitto adeguato ai capitali
privati, ha distribuito reddito e servizi sociali a settori di popolazione
significativi, allargando dunque il mercato interno, anche come forma di
prevenzione da un eccesso di dipendenza dalle esportazioni e dunque dagli
effetti potenziali della crisi occidentale. Certo, l’eventuale tracollo
verticale dei paesi PIIGS provocherebbe una crisi ancora più drammatica che,
oltre l’Occidente, finirebbe per coinvolgere anche queste economie: ma ritengo
che gli effetti su di esse, proprio per le scelte compiute finora di forte
intervento statale e di allargamento del mercato interno, sarebbero ben meno
pesanti che da noi.
Il risultato finale
(ultimi tre anni) di questo processo è ora evidente: la riduzione del “bottino”
complessivo, non compensata più dal mega-bluff finanziario, ha comportato
l’esplosione del conflitto su chi debba pagare tale riduzione ad Occidente. In
prima battuta tutti gli Stati europei ed Usa hanno deciso che dovessero essere
i settori popolari a pagare e che banche, gruppi finanziari, grandi industrie e
borghesie di Stato e private dovessero essere salvati. Ma ora la cosa si sta
facendo ancor più pesante perché è evidente che l’Occidente non riprenderà più
le posizioni perse e che il “malloppo” a disposizione si andrà casomai
riducendosi ulteriormente.
Il conflitto
inter-capitalistico tra Stati a cui assistiamo oggi è serio ma avviene,
purtroppo, in assenza di un significativo conflitto di classe che costringa Lor
Signori almeno a stringere la cinghia per sopravvivere nel loro ruolo, pagando
per una volta loro (o almeno anche loro). Le due vie che si confrontano
soprattutto in Germania (lo Stato-guida, il più forte economicamente e
strutturalmente, quello con il maggior equilibrio tra capitale di Stato e
privato: e quello da cui in gran parte sono finora dipesi tempi e modalità
della crisi in Europa) sono le seguenti: a) la crisi va pagata, più o meno, da
tutti i settori popolari e salariati europei, ivi compresi quelli dei paesi
“virtuosi”; la tentazione di far pagare solo quelli dei PIIGS è forte ma si
ritorcerebbe contro la stessa Germania , che, oltre a dover poi sopportare il
prezzo dei default PIIGS, si troverebbe (in caso di ritorno alle monete nazionali
da parte dell’area mediterranea) a vedersi ridurre assai i propri mercati
europei; b) preserviamo relativamente dalla crisi i popoli (ivi compresi
salariati e settori più deboli) “virtuosi”, e quello tedesco in primis, e
scarichiamo tutto il prezzo su quelli mediterranei; ci sarà una fase di
turbolenze, qualcosa pagheremo come capitale di Stato e privato, ma poi
ripartiremo senza una zavorra oramai irrecuperabile.
La lotta tra
penultimi e ultimi e le divisioni “in seno al popolo”
Forse mai i settori
popolari e disagiati avevano tanto pagato (in parte qualcosa di equivalente si
è avuto in Italia durante il processo traumatico di ingresso nell’euro) una
crisi. E, peggio, la risposta non è stata minimamente adeguata alla tregenda, e
di certo molto più flebile di quanto noi stessi nel 2008 potessimo prevedere.
Ho già segnalato
nel controllo assillante delle caste di Stato, con le loro poderose strutture
di assorbimento della conflittualità (l’intero sistema partitico, schierato
tutto nello stesso modo in ogni paese europeo; la gestione oligarchica
dell’informazione; la diffusione clientelare di piccoli e grandi ammortizzatori
sociali, individuali o di gruppo, di clan o di mafia; l’economia criminale,
soprattutto in Italia, più che mai efficiente e in salute malgrado la crisi; la
struttura di compensazione familiare ecc…) una gran parte delle ragioni di
questo assopimento.
Ma un ruolo quasi
equivalente lo ha giocato quella che ho definito sindrome da Impero romano in decadenza, cioè la forte identificazione
nazionale anche dei settori sociali più tartassati e disagiati nella
convinzione, diffusa dal padronato privato e di Stato, che siamo tutti sulla stessa barca, che è, a mio parere, l’altro grande
elemento che spiega il vistoso arretramento dell’anticapitalismo, dei conflitti
del lavoro e dei livelli di difesa e di garanzia per i salariati e i settori
popolari in Italia e in gran parte d’Europa.
Si tratta in
definitiva di profonde motivazioni di tipo strutturale, legate allo smottamento
avvenuto nelle economie capitalistiche
europee che, ancora una decina di anni fa, sembravano poter giungere ad
una integrazione continentale per rendere l’Europa una potenza unita,
economicamente e politicamente, in grado anche di superare il dominio degli USA
e lasciare a debita distanza le nuove economie emergenti affacciatesi alla
competizione capitalistica mondiale.
Elemento rilevante
nell’ultimo quinquennio è stata invece la disgregazione di questa prospettiva
pan-europea e la ri-chiusura nell’ambito nazionale degli orizzonti delle classi
e dei ceti sociali e politici. Il venir meno dell’obiettivo di una reale
unificazione politica, economica e sociale, dopo quella fittizia della moneta
unica; il declino dell’egemonia economica statunitense con l’irrompere nella
competizione tra le potenze capitalistiche di nuove forze rampanti, in grado di
ridurre gli spazi per l’Europa o meglio per una parte dei suoi Stati; i
processi di de-localizzazione produttiva ad Est e a Sud e di dumping sociale,
operato malgré soi dalla dilagante
migrazione umana dal Sud del mondo; la profonda debolezza strutturale di molti
capitalismi privati europei, e di quello italiano in particolare, una volta
ridottosi il sostegno delle stampelle del capitale di Stato e la possibilità di
spoliazione dei paesi del Terzo Mondo: tutti questi potenti elementi, frullati
in un triennio di traumatica crisi economica e finanziaria, hanno favorito
enormemente il ri-affermarsi in Europa del concetto di comunità nazionale come entità inter-classista e a-conflittuale di
milioni di individui collocati sulla stessa barca dei capitalismi nazionali,
sballottata nel tempestoso mare della feroce concorrenza inter-capitalistica,
nel bel mezzo di un universale “mors tua vita mea” per uscire dalla crisi a
scapito degli avversari/concorrenti delle altre nazioni.
Ad esempio in
Italia, negli ultimi anni il leit-motiv comune e bipartisan di Confindustria e
governo Berlusconi, da una parte, e del centrosinistra e dei sindacati
confederali dall’altra (malgrado le polemiche, i battibecchi e la
conflittualità a puro fine di egemonia politico-sindacale tra Cisl-Uil e Cgil,
e nonostante l’antiberlusconismo di facciata dell’”opposizione” parlamentare) è
stato quello della coesione nazionale,
della difesa del sistema Italia, del
pieno coinvolgimento collettivo –escludente dunque conflittualità sociale e
scontri di classe – nella difesa e rilancio del capitalismo nazionale,
“pubblico” e privato, come unica arma per sopravvivere nello scontro mondiale
tra capitali e potenze statuali esploso fragorosamente dopo l’esplicitarsi
della crisi del sistema.
Tutti insieme, i
poteri economici, politici e mediatici, di Stato e privati, hanno lavorato
convergentemente per far prevalere a livello popolare la sindrome da Impero Romano in decadenza. Se osserviamo con
attenzione il pauroso dilagare in Europa di partiti nazi-fascisti,
ultra-razzisti, xenofobi, islamofobici e reazionari - che oramai la infestano
tutta, dall’ex-civilissimo Nord Europa scandinavo, passando per un
centro-Europa sempre più “bruno” e un Est dove il tradizionale antisemitismo è
stato riciclato in chiave anti islamica, fino ai paesi mediterranei che, con
l’Italia leghista e la Francia di Le Pen, non sono secondi a nessuno - possiamo
vedere che, pur con le dovute differenze, alla radice di tale devastazione c’è
proprio una sindrome del genere.
E cioè la diffusa
convinzione che ci sia una comunanza di interessi tra patrizi e plebei di ogni
nazione nella spietata concorrenza internazionale e nella difesa di alcuni
benefici da civis romanus, ostile
alla pressione di chi spinge alle porte dell’Occidente per entrare a godere di
alcuni di questi benefici: quei barbari extracomunitari
migranti che dal Sud e dall’Est premono su una Europa che si vive sempre più
come fortezza assediata non già, come
nel precedente storico dell’Impero romano, da forze aliene che intendono
distruggerla ma di masse di diseredati che vogliono reclamarvi la propria parte
di ricchezza e di beni sociali.
In tale direzione,
non possiamo sottovalutare il fatto che in questi due ultimi decenni, in Europa
e in Italia, settori consistenti di salariati e di ceti popolari hanno
approvato, o non hanno contestato, le politiche razziste e xenofobe. Milioni di
lavoratori dipendenti europei sono stati parte attiva di una terrificante lotta tra penultimi e ultimi della
società, cercando di fare barriera contro i più sfortunati omologhi del Sud del
mondo e dell’Est europeo, nel timore di essere da questi ultimi scavalcati
nella scala sociale e precipitati nei posti più infimi di essa.
Il grande terremoto
produttivo degli anni Ottanta e Novanta, lo sgretolarsi delle roccaforti
industriali proletarie, la trasmigrazione di campo in massa delle forze
politiche e sindacali che avevano sostenuto ed organizzato la classe operaia e
i salariati nel Novecento, il conseguente venir meno della solidarietà di
classe e di ceto, assieme ad un vasto lavorio ideologico e culturale dei mass
media, hanno progressivamente tolto al lavoro dipendente e subordinato le
speranze di poter ottenere vittorie nel conflitto sociale con il padronato
privato e “pubblico”.
Anzi, via via – e
in Italia a partire dal Nord e dall’affermarsi della Lega come partito al tempo
padronale e popolare – molti salariati
hanno interiorizzato la convinzione che tale conflitto finisse per essere
esiziale per la già scassata e pencolante barca
Italia: se mettete in difficoltà i conduttori della “barca” – è stata la
litania dei corifei del Capitale nazionale – essa affonderà, dovendosi già
destreggiare a fatica nei marosi dei conflitti economici mondiali e non
potendosi permettere una ciurma insubordinata e non collaborativa; ma i padroni
della barca si metteranno comunque in salvo con i loro potenti motoscafi e si
dirigeranno verso altri lidi, mentre voi, forza-lavoro subordinata, non avrete scampo
e affonderete con la barca.
Dunque, convinti a
non dirigere la lotta di classe verso chi stava sopra di loro, molti settori
popolari hanno riversato la propria impotenza contro chi stava sotto, gli
ultimi arrivati. Ed è forse questo il segnale più rilevante della pesante
sconfitta degli antagonisti del Capitale, dei difensori della forza-lavoro
salariata, dei sostenitori dell’egualitarismo, della solidarietà sociale, della
prevalenza dei beni comuni sull’accumularsi dei beni privati: non aver saputo impedire
il manifestarsi di questa suicida lotta “in seno al popolo” e tra i ceti più
diseredati timorosi di scendere ulteriormente nella scala sociale.
Però, l’acutizzarsi
ulteriore della crisi potrebbe modificare radicalmente questo panorama: e
lavorare per ricostruire la più ampia alleanza possibile tra i salariati
(precari e “stabili”, stanziali e migranti) e tra i settori popolari più deboli
e indifesi in particolare, dovrebbe essere in cima a tutte le nostre
preoccupazioni, programmi ed iniziative.
A proposito di
alcune proposte di uscita dalla crisi
Con l’accelerare e
l’acutizzarsi della crisi, nelle ultime settimane in Italia si è accesa una
vivace discussione sulle possibili vie d’uscita. Ma la cosa piuttosto
sorprendente è che alcune delle proposte più impegnative sono state avanzate
come se, malgrado l’universale riconoscimento della attuale vistosa debolezza
delle forze anticapitaliste e antisistema, la possibile gestione di passaggi
anche assai traumatici sia alla portata di mano di queste ultime. Mi riferisco
in particolare alle proposte, necessariamente connesse, del non pagamento del debito “sovrano” e
della inevitabile uscita (o espulsione)
dall’euro.
In quanto alla
proposta del non-pagamento dell’euro essa è stata per lo più accompagnata da
vari distinguo o graduazioni diverse di tale non pagamento. Senza seguire tutte
le sfumature, possiamo dividerla in tre filoni: a) una “semplice” moratoria nel
pagamento, una forma aggiornata di consolidamento del debito; in altri termini
non un rifiuto di pagare ma il rinvio del pagamento a tempi migliori; b) un
non-rimborso parziale che faccia distinzione tra i possessori dei titoli di
Stato e escluda da esso i titoli in mano alle famiglie, ai piccoli possessori;
c) un non-rimborso che però escluda, oltre le fasce succitate, almeno una parte
dei titoli interni ai fondi-pensione e anche in certi casi ai fondi di
investimento a carattere nazionale, o prevalentemente tale.
Si potrebbero già
fare osservazioni rilevanti su queste tre opzioni, anche se, come vedremo,
l’obiezione principale riguarda l’inevitabile uscita (o espulsione) dall’euro
che almeno le soluzioni “b” e “c” comporterebbero di certo. Sulla opzione “a”
direi che appare del tutto inutile non solo per risolvere ma anche per
attenuare la crisi. Non va dimenticato che la premessa per non pagare un debito
dovrebbe essere almeno il non dover essere costretti a rifarne un altro, e
persino più grosso, il giorno dopo che ti sei dichiarato insolvente. Ora, delle
due l’una: o la moratoria/consolidamento riguarda tutti (anche i piccoli
risparmiatori e possessori di titoli di Stato, quelli che sono inseriti nei
fondi-pensione ecc..) e allora con altissima probabilità ci si ritroverebbe con
una possibile rivolta anche di fasce popolari; oppure si restituiscono quelli
ma al momento di ristipulare il debito per coprire il mancante, le condizioni
sarebbero ancora peggiori.
E’ bene ricordare
che secondo i vari calcoli che abbiamo letto, la fascia del debito in mano alle
famiglie italiane sembrerebbe avere un margine di oscillazione non piccolo: c’è
chi dice 8-9% e chi arriva al 15%. Ma se ci aggiungiamo le parti che riguardano
i fondi-pensione e anche alcuni fondi di investimento minori credo si vada ben
oltre e si possa arrivare realisticamente almeno intorno al 25%, al cui interno
fare distinzioni di reddito, per escludere o includere nel pagamento del
debito, mi sembrerebbe assai complicato.
Comunque sia, le
soluzioni “b” e “c” comporterebbero inevitabilmente l’uscita/espulsione
dall’euro: e credo dunque che sia inevitabile prendere in considerazione cosa
possa significare un tale passaggio indubbiamente a forte traumaticità. Ho già
detto all’inizio che è singolare come, tra chi avanza esplicitamente tale
proposta oggi per niente fantascientifica (la disgregazione dell’euro è
comunque una delle possibili ricadute della crisi in Europa, che ovviamente
comporterebbe o il ritorno di ogni paese alle monete nazionali o un
complicatissimo ventaglio di euri di serie A, B e magari anche C) ci sia sullo
sfondo quasi la speranza che il trauma potrebbe essere attenuato, o almeno
avere effetti positivi a medio e lungo termine, attraverso una gestione governativa pressoché
anticapitalista o almeno antiliberista.
E’ evidente che se
una chance del genere fosse nel novero delle cose possibili (e oggi vi siamo a
mille miglia, almeno in Italia) l’uscita dall’euro sarebbe inevitabile, nel
senso che un governo del genere, che non rispettasse i diktat dei capitalismi
di Stato e privati europei, verrebbe semplicemente espulso non solo dall’area
monetaria-euro ma dall’intera Unione Europea.
Ma se escludiamo,
almeno tra gli orizzonti oggi realistici, questa ipotesi, dobbiamo valutare
cosa significherebbe l’uscita dall’euro con un governo capitalista e borghese,
che sia gestito in Italia magari dall’attuale centrosinistra.
1) Il ritorno alla
moneta nazionale, collegato al non-pagamento di gran parte del debito sovrano,
comporterebbe innanzitutto una fortissima
svalutazione della nuova moneta. In prima battuta tale svalutazione
colpirebbe soprattutto i piccoli e medi risparmiatori: e se è vero che negli
ultimi anni i possessori di titoli di Stato tra questi ultimi sono calati a
causa dei bassissimi rendimenti, il risparmio delle famiglie a medio-basso
reddito non è sparito. Il grande punto di forza e di tenuta del sistema
italiano è sempre stato il nucleo
familiare: è quello che sostiene il precario a bassissimo reddito, quello
che attenua la disoccupazione di un membro della famiglia, quello che ha
proprietà immobiliari magari di origini contadine o tramandatesi nel tempo. Se
non osserviamo i singoli ma, per così dire, le
famiglie allargate, appare impossibile che la maggioranza di esse non abbia
nulla da perdere in un vistosa svalutazione.
2) Certamente la
forte svalutazione comporterebbe l’accresciuta competitività dei prodotti
italiani venduti all’estero: ma altrettanto (e forse di più vista la grande
dipendenza italiana da materie prime straniere) in crescita sarebbero i costi
delle importazioni. Questi verrebbero scaricati da chiunque abbia qualcosa da
vendere (forza-lavoro esclusa) sui consumatori, aggravando penosamente le
condizioni di tutti quelli a (basso) reddito fisso e ancor più di coloro che
redditi stabili non ne abbiano. Né il ripristino (che peraltro solo un governo
popolare accetterebbe) della scala mobile così come è esistita in passato
risolverebbe il problema, perché creerebbe una ulteriore divisione nei
confronti di coloro senza lavoro stabile, stanziali e migranti, giovani e meno
giovani. Il risultato finale, in qualsiasi caso, sarebbe una fortissima inflazione a due cifre (e pure alte) e conseguenti
ulteriori divisioni tra i settori popolari e un malcontento generalizzato più o
meno nella gran parte della società.
3) La fuoriuscita,
di propria iniziativa (ben altro sarebbe una vera e propria espulsione),
dall’euro e il non pagamento di un debito sovrano in buona parte sì in mano a
banche e gruppi finanziari esteri, ma che a loro volta coinvolgono anche
settori non trascurabili di cittadini europei salariati o a medio reddito, accentuerebbe le divisioni europee, già
forti per quanto fin qui detto, anche tra i settori potenzialmente ostili alla
gestione neoliberista della crisi. In ogni caso un panorama di alleanze a
livello continentale di certo non ne sarebbe agevolato ma reso ancora più
difficile.
La crisi va pagata
da chi l’ha provocata
Tutte le
considerazioni precedenti portano a dire che non possa essere questa la via
maestra: nella migliore delle ipotesi cadremmo dalla padella nella brace, e per
giunta saremmo stati noi ad aver auspicato qualcosa del genere, che poi nei
fatti verrebbe affidato alla gestione di governi per nulla dissimili da quelli
attuali, a meno di insurrezioni di portata epocale che vadano persino oltre i
livelli delle rivoluzioni/rivolte del Maghreb, e delle quali per ora non
abbiamo serio sentore.
Il che lascia
credere che si debba affrontare di petto quella che al momento è la difficoltà
maggiore: e cioè la necessità di una vastissima
alleanza sociale, politica, sindacale e popolare, a livello nazionale e
internazionale, che modifichi radicalmente i rapporti di forze tra classi e
ceti nel nostro continente (e comunque in Italia) e faccia diventare
realistica l’unica parola d’ordine che finora ci ha visti tutti uniti, a
livello nazionale ed europeo, e che abbiamo modulato in varie forme ma non
dissimili: “noi la crisi non la paghiamo” e, conseguentemente “la crisi va pagata da chi l’ha provocata”.
Questo significa
imporre rapporti di forza che rendano realistici e attuabili:
1) una vera patrimoniale incisiva che,
tenendo conto di calcoli pur prudenti che parlano di almeno 5000 miliardi di
patrimoni in mano alle fasce più ricche della società italiana, darebbe un
gettito vistoso: anche una tassazione assai ridotta al 2% fornirebbe 100
miliardi annui, circa il doppio dell’attuale Finanziaria;
2) il ripristino di
una vera tassazione progressiva sui
redditi, che incida almeno tra il 40 e il 50% sui redditi più alti,
sgravando sensibilmente quelli più bassi;
3) una seria tassazione delle transazioni finanziarie,
quella Tobin Tax (ma con ben altre quote di tassazione) che, auspicata
fortemente dal movimento altermondialista, oggi pare si stia facendo strada
anche nelle intenzioni dei principali Stati, anche se, almeno da quanto
dichiarato, con quote irrisorie rispetto alle necessità di tagliare le unghie
sul serio alla speculazione internazionale;
4) la drastica riduzione delle spese della
politica istituzionale (strutture amministrative inutili, stipendi di tutta
la casta da tagliare vistosamente, benefit e pensioni “d’oro” da eliminare,
consulenze e appalti politici da cancellare, mafie politiche e corruzione
dilagante da portare a livelli minimi);
5) il recupero almeno di una parte
significativa della gigantesca evasione fiscale, che si aggira secondo stime
attendibili intorno a 400 miliardi annui: anche qui mettere mano fosse pure
solo sul 20% di tale evasione garantirebbe un valore pari ad un paio di
Finanziarie annue medie;
6) l’abbattimento delle spese militari,
con l’eliminazione delle missioni di guerra e la riduzione ai minimi dei
bilanci delle strutture interne;
7) il riassorbimento dei capitali dei Fondi
pensione nel sistema previdenziale pubblico, da considerare anch’esso bene
comune, per permettere la restituzione di pensioni dignitose a tutti/e.
Sarebbero
sufficienti anche solo questi interventi per recuperare cifre colossali,
oscillanti intorno ai 400 miliardi annui con i quali reinvestire pienamente in servizi sociali e beni comuni, introdurre
forme di reddito minimo garantito, restituire pensioni decenti. Programmi
simili potrebbero essere fatti propri da molte aree conflittuali negli altri
paesi europei e non dovrebbe essere difficile nei prossimi mesi arrivare a
piattaforme convergenti, a partire dall’auspicabile e cruciale successo della giornata
del 15 ottobre, la prima dall’esplosione della crisi che registri una vera
convergenza europea di mobilitazione significativa con milioni di persone
probabilmente in piazza in contemporanea.
Ma, oltre al
programma economico-sociale, altrettanto cruciale è il tema della democrazia reale. Smettere di affidare
ad improbabili opposizioni di “sinistra” o centrosinistra la soluzione dei
problemi della crisi è oramai un invito che viene da tutte le piazze
“indignate” di Europa. Le forme di una democrazia reale, che scavalchi le
borghesie di Stato europee convergenti e colluse sul piano della rappresentanza
politica nel balletto tra destre e sinistre, sono tutte da inventare e da
sperimentare. E’ decisivo però che si instauri una vera indipendenza politica, rispetto
a tutte le caste dominanti nei Parlamenti e nelle istituzioni europee, da parte
dei movimenti e delle reali opposizioni sociali antiliberiste e
antisistema.