(21/11/2011)
Sia pur di misura, la
casta politica italiana è infine giunta al giudizio da tempo condiviso dalla
stampa e dai governi esteri, nonché dal capitale internazionale: quella di
Berlusconi non è la «squadra» di governo né la coalizione politica più adatta a
far pagare la crisi ai lavoratori italiani. È questo certamente il significato
dell’allargarsi del differenziale dei tassi d’interesse tra i titoli pubblici
italiani e quelli tedeschi. Ma non si tratta di un’imposizione «dello
straniero»: a ben vedere a questa conclusione era giunto anche il padronato
italiano. Con ciò dovrebbero andare a
farsi benedire le farneticazioni subìte per anni circa l’esistenza di uno
specifico «regime berlusconiano». Dovrebbe, ma non sarà così, perché se i
militanti della sinistra italiana accettano di farsi dirigere da ex ministri di
governi imperialistici o da governatori regionali, figurarsi se sono in grado
di chiedere conto delle bufale con cui sono stati nutriti e illusi per anni e
anni.
Mentre la crisi si
estendeva dall’economia al campo della gestione politico-istituzionale, la
sinistra «antagonista» o d’opposizione italiana ha dato libero corso alla
propria fantasia per elaborare «soluzioni alternative», già discusse
criticamente in questo blog. Un elemento comune, espressione dello stato
pietoso, non solo politico ma anche intellettuale di questa sinistra, è la
mancanza di autocritica su categorie e nozioni ambigue o fuorvianti, ampiamente
impiegate per circa venti anni, e la persistenza del metodo dell’invenzione di
frasi ad effetto in sostituzione di un’analisi seria delle tendenze
dell’economia mondiale e, specialmente, dei rapporti tra politica, Stati ed
economia.
Aspetti decisamente
nefasti di questa situazione sono l’esplicitarsi di pulsioni nazionalistiche e
«antieuropeistiche» e di atteggiamenti ambigui, possibilisti, di «aspettativa»
o di «delusione» nei confronti del governo Monti, come se fosse possibile avere
anche il più piccolo dubbio sulla natura dell’operazione iniziata con questo
tecnocrate. Il tutto accompagnato dal rullare di tamburi che annuncia il «colpo
di Stato», l’atto «contro la Costituzione», la «presa del potere delle banche»
e cose simili.
In questo quadro di
povertà politica e intellettuale spicca positivamente un recente articolo diPiero Bernocchi, storico dirigente dei Cobas, apparso sul giornale omonimo
(«Sulla crisi», nel n. 49, ott./nov.
2011). In obiettiva convergenza con le posizioni da noi esposte nel blog di
Utopia rossa, nell’articolo di Bernocchi si discutono gli errori analitici e
politici prevalenti nella sinistra che si vuole anticapitalistica.
Ne ripercorro lo
svolgimento.
1) Innanzitutto,
Bernocchi contesta il «mito dell’esaurimento degli Stati», ovvero il mito del
venir meno delle capacità d’intervento politico ed economico anche degli Stati
meglio armati e dei capitalismi più avanzati. Com’è noto, questa è nozione
assai comune nel movimento no-global ed è un pilastro dei discorsi che impiegano
coerentemente la nozione di «globalizzazione».
Giustamente nell’articolo
si critica l’utilizzo di dati totali circa il valore dei titoli finanziari e
derivati a confronto della «massa monetaria» controllata dagli Stati (direi da
intendersi come riserve delle banche centrali e/o come volume della spesa
pubblica) per dimostrare l’esaurirsi delle loro capacità d’intervento.
In effetti, in forza
della loro istantanea mobilità, il volume delle transazioni dei titoli
finanziari a breve termine e dei prodotti derivati si presta a «provare» la
«globalizzazione dei mercati». Ma questa nozione non è altro che l’estensione
su scala planetaria del modello teorico ortodosso del mercato perfettamente
concorrenziale, nel quale l’immobilizzo del capitale produttivo in sostanza non
esiste, lo spazio è omogeneo e aperto, i prezzi convergenti (così come i
livelli di sviluppo socioeconomico). Tutto il discorso sulla «globalizzazione»
va però a rotoli se si guarda anche ad altri indicatori finanziari ed
economici: ai rapporti tra l’investimento e il risparmio interno; alla
persistenza di differenziali tra i tassi d’interesse reali; al ruolo decisivo
degli accordi tra i governi degli Stati a capitalismo avanzato, e agli effetti
delle decisioni (e delle non-decisioni) delle loro autorità monetarie,
nell’orientare l’evoluzione delle istituzioni e delle pratiche finanziarie
private; oppure se si guarda a come si distribuiscono gli investimenti diretti
all’estero (gli ide, effettuati dalle società transnazionali non-finanziarie, comportano
l’immobilizzo del capitale) tra i paesi a capitalismo avanzato e quelli «in via
di sviluppo», e quale sia la distribuzione degli ide interna a quest’ultimo
gruppo.
Bernocchi mette a nudo il
significato politico del «mito dell’esaurimento degli Stati». Dicendo:
esso «induce un senso di
frustrazione a livello popolare, lasciando capire (malgrado l’Argentina e la
Russia ieri e l’Islanda oggi ci abbiano dimostrato abbondantemente il
contrario) che nel confronto-scontro con tali mega-capitali la sconfitta è
assicurata, chiunque gestisca lo Stato: e che dunque non vale manco la pena di
porsi il problema di toglierlo di mano
alla borghesia di Stato e privata».
Ricordiamo che alcuni
anni fa, in Italia, le direzioni di Rifondazione e soci, mentre ululavano
contro la «globalizzazione neoliberista» (dittico due volte sbagliato) e si
atteggiavano a portavoce istituzionali del movimento no-global, preparavano
l’accordo col centrosinistra e il ritorno sulle poltrone e sui predellini dello
Stato imperialistico italiano.
Infine, noto che:
a) le proposte di
«politica economica alternativa», in particolare quelle che presuppongono di
«uscire dall’euro», sono in contraddizione con la tesi della «globalizzazione»
e dell’esaurimento, più o meno tendenziale, delle capacità d’intervento
economico degli Stati;
b) che è precisamente
l’intervento economico degli Stati che ha impedito il precipitare della più
grave recessione del dopoguerra in una depressione del tipo degli anni Trenta.
S’intende che con questo non si vuole affatto dire che una depressione sia
divenuta impossibile: semplicemente, l’articolazione tra Stati ed economia
mondiale e il «peso» degli Stati nelle economie «nazionali» sono ora molto
diversi che all’inizio degli anni Trenta, abbastanza da rendere più difficile
il ripetersi della catastrofe.
2) Bernocchi contesta,
ancora una volta a ragione, l’idea del «”governo unico delle banche” che
richiama alla mente il Sim, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, su cui
erano fissate le Brigate Rosse, ma anche quel “governo unico delle
multinazionali”, organizzato tramite Fmi, Wto e Banca Mondiale, che per tanti
nostri amici no-global (prima della guerra all’Afghanistan e poi all’Iraq)
sarebbe andato cancellando i poteri degli Stati e dei governi, costruendo un
surreale Impero pacificato che avrebbe posto fine a guerre e conflitti
interstatali di marca ottocentesca e novecentesca».
Egli nota che i
funzionari del Fmi, della Banca mondiale, della Banca centrale europea, ecc.,
sono nominati dagli Stati e che «non solo per l’Italia, va messo in discussione
il vero carattere privato delle banche principali, nel senso di istituzioni
davvero indipendenti e addirittura alternative e dominanti rispetto al potere
statale dei gestori del capitale nazionale “pubblico”».
Aggiungo che questa
trovata del «governo unico delle banche»:
a) rimanda a una visione
complottistica della Storia che, per anni e coerentemente con l’idea
dell’obsolescenza delle capacità d’intervento dei governi, si è espressa con
l’enfasi eccessiva posta su Davos, la Trilaterale, think tanks della «nuova destra» ecc.;
b) comporta un’estrema
semplificazione dei rapporti tra capitale produttivo di plusvalore (in termini
marxiani; ma più generalmente si può intendere l’intero settore privato
non-finanziario) e le istituzioni che gestiscono il finanziamento del capitale
e il capitale monetario.
Il risultato politico può
essere la contrapposizione tra il «buon» capitale produttivo e il «cattivo»
capitale «bancario». Naturalmente la sinistra progressista e nazionale sta con
il «buon» capitale produttivo, specialmente se quello «cattivo» è pure
«collaborazionista dell’invasore».
c) Il «governo unico
delle banche» sembra alludere a un qualche capitale «unico»: e quale sarebbe?
In quali meandri telematici o in quali segreti corridoi si nasconde questo
capitale «unico»? Le discordie tra i membri dell’eurosistema e tra questi e gli
Stati Uniti dovrebbero chiarire che non esiste un «capitale unico», né su scala
mondiale né su scala europea né un Impero unificato. Tra le classi dominanti e
i governi esistono convergenze d’interessi e preoccupazioni comuni, ma anche
contrasti e difesa del proprio «particolare» capitalismo. Tutti allegri
avventurieri «globalisti» i capitalisti, quando il vento è in poppa, e tutti che
tornano a piangere dalla mamma statal-nazionale quando la crisi esplode!
Sulla visione
complottistica della storia si rimanda alle schede di psicopatologia politica
elaborate da Utopia rossa nel corso degli anni.
3) Un punto di notevole
interesse politico dell’articolo, in opposizione all’idea che il personale
politico nazionale non sia altro che un «passacarte delle banche e dei gruppi
finanziari internazionali», è la tesi secondo cui «il tessuto
politico-istituzionale in realtà pervade tutto il paese come un fittissimo
reticolo che non lascia scampo o libertà quasi ad alcuna struttura sociale
pubblica». Secondo Bernocchi sarebbero 2,5-3 milioni gli individui che traggono
reddito dall’attività politica a tutti i livelli, fino a imprese «municipalizzate,
aziende pubbliche o semipubbliche, o private con presenza statale, comunale,
regionale o provinciale». Il che, tradotto in membri di nuclei famigliari,
significa che al contributo economico derivante dall’attività politica
sarebbero interessati circa 10 milioni di persone. Un’insieme che sostanzia
l’osmosi tra capitale pubblico e privato e, specialmente, può essere una delle
cause della «quasi incredibile passività di massa degli ultimi tre anni in
Italia, a parte limitate e lodevoli lotte».
Nell’articolo di
Bernocchi non ci sono note né riferimenti alle fonti, per cui i dati non sono
immediatamente controllabili. Non ci sono dubbi però sul carattere di massa
della rete istituzionale: basi pensare ai 200-300 membri delle circoscrizioni
per ciascuna grande città.
A questo aggiungo che il
mito della «partecipazione» istituzionale ha avuto effetti particolarmente
devastanti sulla sinistra italiana, sia di estrazione Pci che «gruppettara»,
sia in termini di distorsione elettoralistica e statalistica della prospettiva
politica sia in termini di corruzione personale. Di questo mito continuano ad
alimentarsi Rifondazione, Pdci, Verdi e gruppetti e grupponi vari che gli fanno
da contorno. Il mito «partecipazionistico» si esprime ora nella forma più alta
nella «difesa della Costituzione»: che non è la difesa dei diritti democratici
costituzionalizzati (e con ciò anche limitati
entro il quadro del parlamentarismo liberale che presuppone un’economia
capitalistica), ma proprio la difesa della Costituzione borghese di uno Stato
imperialistico (che viene calpestata ad ogni piè sospinto dalle stesse
istituzioni preposte alla difesa di quella Costituzione: un serpente che si
mangia la coda…).
Un aspetto importante di
questo punto dell’articolo di Bernocchi è la stretta connessione segnalata tra
capitalismo privato e Stato, su tutte le scale.
4) Il punto debole
dell’articolo è, a mio parere, la parte dedicata alla spiegazione della crisi
economica. Bernocchi riconduce la crisi all’esaurirsi della possibilità da
parte dei capitalismi più avanzati di poter «saccheggiare le ricchezze del
restante mondo senza trovare ostacoli», il cui reciproco sarebbe, nell’ultimo
decennio, un «processo inarrestabile di autonomizzazione, recupero delle
proprie ricchezze e della gestione del capitale “pubblico” statale da parte di
un numero rilevante di paesi»: indica la Cina, l’India, il Sudafrica, la
Russia, i due terzi dell’America Latina. Il boom del debito privato e la bolla
speculativa negli Usa e in altri paesi a capitalismo avanzato sarebbero stati
reazioni compensative a questo processo, finite come sappiamo.
Discutere decentemente
questo punto richiederebbe troppo spazio ed esula dall’interesse principale
dell’articolo, che è essenzialmente politico. Noto, ma proprio en passant, che:
a) la spiegazione della
crisi attuale deve rendere conto non solo delle sue cause congiunturali o sulla
base della specifica dinamica speculativa del sistema finanziario statunitense
e di altri paesi a partire dal 2001, ma anche e specialmente dell’evoluzione
della macroeconomia mondiale a partire dal crollo del sistema di Bretton Woods.
Tra il modo in cui si spiega la crisi e l’orizzonte temporale entro cui ci si
colloca esiste una relazione: più il secondo è stretto, più la spiegazione
verterà sulla speculazione finanziaria.
b) Una spiegazione basata
sul saccheggio delle risorse dei paesi «periferici» o neocoloniali presuppone
una visione stagnazionista del capitalismo. Questo è sempre pericoloso, ma è lo
è specialmente in un’epoca in cui il capitalismo ha riconquistato l’intera
Europa centrale e orientale, la parte più dinamica dell’economia cinese (ma per
molti, forse i più, l’intera Cina) e del Vietnam, si appresta a riconquistare
Cuba, se sarà portata fino in fondo la linea emersa recentemente. Questo
ovviamente implica anche la penetrazione, più o meno importante, da parte del
capitale dei paesi imperialistici.
c) Il ruolo della Cina è
certamente un fenomeno di grande rilievo ma, forse proprio in forza della sua
novità, sovente è ingigantito oltre misura, come già accadde per il Giappone
negli anni Ottanta. A maggior ragione ciò vale anche per gli altri paesi Bric
(Brasile, Russia, India, Cina). «A buon intenditor poche parole», o una singola
serie parziale di dati significativi: nel 2009 la somma del valore degli stock
degli investimenti diretti all’estero (ide) di tutti i citati paesi Bric (circa 711 milioni di dollari) era
inferiore allo stock della sola Olanda
(circa 850 milioni di dollari), era meno della metà dello stock della Francia,
poco più della metà dello stock del capitale tedesco, un sesto dello stock
degli Usa. Lo stock degli ide provenienti dalla Cina è la metà di quello
dell’Italia, 1/19° di quello Usa; viceversa, lo stock degli ide dall’estero in Cina è il doppio dello stock degli ide in uscita
dalla Cina, a loro volta concentrati in paesi sottosviluppati. Nello stesso
2009 l’89% dello stock degli ide si collocava entro i paesi a capitalismo
avanzato: alla faccia della «globalizzazione» (tutti i
dati sugli ide sono tratti dal World Investment Report 2010, Unctad, annesso statistico, table 2, FDI stock, by region and
economy, 1990, 2000, 2009).
Bernocchi cerca una causa
della crisi nella configurazione strutturale dell’economia mondiale, e questo è
metodologicamente giusto. Ritengo però che la causa vada cercata innanzitutto
nella storia delle trasformazioni dei rapporti interni (politiche economiche e
sociali incluse) e dei rapporti competitivi dei capitalismi avanzati (Stati
Uniti, Giappone, Germania), una storia che non è affatto spiegabile in termini
di «neoliberismo» (e su questo mi pare che si torni a concordare); ciò vale
anche per le contraddizioni generate dal «neomercantilismo» del capitalismo
tedesco nel quadro dei vincoli conseguenti dall’unione monetaria.
d) L’America latina è in
questo momento il continente dove più importanti e vive sono le reazioni al
capitalismo. È però molto dubbio che su scala mondiale il «saccheggio» delle
risorse sia stato sostanzialmente ridotto; ci sono, piuttosto, segni che
indicano il contrario. Inoltre, se le esportazioni dai paesi di nuova
industrializzazione creano problemi in determinati settori e aree, non bisogna
dimenticare né che il capitalismo di questi paesi dipende dalle esportazioni nei paesi a capitalismo avanzato; né che
una gran parte di queste esportazioni sono effettuate da società a capitale
estero o per conto di esse (e comportano previe importazioni di componenti,
macchine e know how dall’estero); né,
infine, che il ruolo dei paesi «emergenti» nella congiuntura attuale è piuttosto
stabilizzante che destabilizzante.
5) Il centro politico
dell’articolo di Piero Bernocchi è il paragrafo «La lotta tra penultimi e
ultimi e le divisioni “in seno al popolo”».
Il problema di partenza è
la risposta totalmente inadeguata dei lavoratori italiani (e non solo italiani)
alla crisi e al tentativo in corso di fargliela pagare. Si tratta di una
constatazione ovvia, si direbbe, ma a fronte delle religiose attese di
rinascita della lotta di classe come effetto della «morte» del «neoliberismo»,
di irrealistiche pretese di imporre i propri buoni consigli alla borghesia o di
conquistare il governo con un moto popolare di «salvezza nazionale», si tratta
di un punto di partenza prezioso. Dietro questa religiosa attesa palingenetica
c’è un rozzo meccanicismo. La verità è tutt’altra: durante una crisi economica
di norma la disoccupazione è il principale fattore che indebolisce la forza
contrattuale dei lavoratori e rafforza quella del padronato. Nella congiuntura
politica e ideologica di questi anni non ci si poteva attendere effetto
diverso, anche grazie ai sindacati neocorporativi, al centrosinistra, alla
fissazione ossessiva dell’antiberlusconismo.
Il concetto impiegato da
Bernocchi è quello della «sindrome da Impero romano in decadenza» che comporta
l’identificazione «dei settori sociali più tartassati e disagiati» con i
destini dell’economia «nazionale».
Direi che questo è uno
dei modi tradizionali e «spontanei», obiettivamente conseguenti dalla divisione
del capitalismo in imprese private in competizione e in distinti Stati (più o
meno) nazionali, con i quali il sistema riesce a dividere i lavoratori e a
neutralizzare la lotta contro il dominio capitalistico.
Ma nel nostro caso,
osserva giustamente Bernocchi, il fenomeno non è affatto solo spontaneo, né
imputabile al solo centrodestra e alla Confindustria. Ad esso hanno invece
contribuito, proprio per i lavoratori e i settori sociali più colpiti dalla
crisi, e in modo molto più efficace e convincente di quanto possano mai fare il
centrodestra e la Confindustria, i partiti di centrosinistra e i sindacati
confederali. Posto che occorre «coesione nazionale» e difendere il «sistema
paese», affermare la «comunanza di interessi tra patrizi e plebei di ogni
nazione nella spietata concorrenza internazionale e nella difesa di alcuni
benefici da civis» ha come logica
conseguenza che si alimenti la xenofobia e si ostacoli la solidarietà
internazionale tra i lavoratori.
Una situazione già
difficilissima è aggravata da proposte circolanti nella sinistra ex «estrema»
circa confuse proposte di «non pagamento del debito» o l’uscita dall’euro, a
volte condite da un abbondante salsa nazionalistica del tipo «salviamo
l’Italia!». Prospettive del genere fanno leva proprio su quel senso di
decadenza imperiale e di difesa xenofoba dai «barbari» del Sud e dell’Est
alimentata dai discorsi sulla «coesione nazionale». Bernocchi critica in modo
articolato le proposte correnti, in termini convergenti con le posizioni già
espresse in vari articoli di Utopia rossa, più o meno recenti. Alla moratoria o
al non-rimborso parziale del debito, che comporterebbero l’uscita
dall’eurosistema gestita da un governo borghese, di centrosinistra o
centrodestra, oppone il principio «noi la crisi non la paghiamo», da intendersi
come lotta alle misure governative e padronali, che mi trova completamente
concorde.
Sono invece perplesso su
un aspetto «propositivo» della posizione di Bernocchi: quando scrive che «la
crisi va pagata da chi l’ha provocata», Bernocchi indica una serie di obiettivi
di politica fiscale e di spesa pubblica (patrimoniale incisiva, tassazione
progressiva sui redditi, tassazione delle transazioni finanziarie, drastica
riduzione delle spese della politica istituzionale, recupero dell’evasione
fiscale, abbattimento delle spese militari, riassorbimento dei capitali dei
Fondi pensione nel sistema previdenziale pubblico). Non è che queste misure
siano sbagliate, anzi. Se ne potrebbero aggiungere altre. Ma, in questo come in
altri casi, il rischio è confondere la
politica economica e la critica della politica economica con la definizione degli obiettivi di lotta
di un movimento di massa.
Per trasformare in pratica la critica della politica
economica occorre prima conquistare il potere: altrimenti piani più o meno
elaborati o restano solo sulla carta o risultano come consigli rivolti a
«governi amici»: ma questo non è certo nelle intenzioni di Bernocchi. La critica della politica economica, svolta
anche «internamente» mostrando quali potrebbero essere misure e linee
alternative, è utile sul piano formativo e propagandistico, ma non coincide con
il processo di formazione e
radicalizzazione degli obiettivi di un movimento di massa, la cui natura
sociale lo radica intorno a obiettivi settoriali e parziali determinati, non di
interesse macroeconomico generale. È a partire dalla lotta intorno agli
obiettivi specifici che il movimento può sviluppare una dinamica di scontro
politico complessivo, anche contro il governo.
Torno a concordare con
Bernocchi sul fatto che la convergenza e la radicalizzazione politica di
movimenti di massa che, finalmente, dovessero sorgere in Italia, presuppongono
un processo di conquista dell’indipendenza «rispetto a tutte le caste dominanti
nei Parlamenti e nelle istituzioni europee». Aggiungo che nella casta politica
rientra anche la sottocasta «marginale» dei «forchettoni rossi» della ex
estrema sinistra o della sinistra post-Pci. E che questa indipendenza da
conquistare con la lotta – in netto contrasto con le esigenze inglobatici della
società dello spettacolo - è la forma in cui oggi possiamo costruire la
democrazia reale, non solo fuori dai Parlamenti ma anche contro i Parlamenti
nei quali regna la casta partitico-statale, l’autentico sovrano politico negli Stati capitalistici.
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