1. Le «storiche» elezioni irlandesi del febbraio 2011.
2. Gli anni della «tigre celtica» e dell’Irlanda come caso esemplare del «neoliberismo».
3. Dal boom delle costruzioni all’accordo-capestro con l’Unione Europea e il Fmi.
4. L’Irlanda come specchio delle contraddizioni dell’economia mondiale.
5. Conclusione politiche sull’Irlanda, e sulla feroce determinazione dei padroni e dei politici di eurolandia.
1. Le «storiche» elezioni irlandesi del febbraio 2011.
Mentre imponenti rivolte popolari facevano tremare la costa meridionale del Mediterraneo e cacciavano a viva forza i despoti, al di là della massa continentale e del canale della Manica, nell’isola detta di smeraldo, si verificava una piccola scossa d’assestamento. Si trattava delle elezioni politiche tenutesi in Irlanda il 25 febbraio, poco appariscenti sulle pagine dei giornali (italiani in particolare), ma qualificate, in modo pressoché unanime, come «storiche».
È importante capire se e per quali ragioni le recenti elezioni abbiano un reale valore «storico» per l’Irlanda; ma, poiché negli anni tra il 1994 e il 2007 quella irlandese fu la storia di maggior successo economico sia tra i paesi europei sia nell’intero gruppo dell’Ocse, e un esempio internazionale dei benefici del «neoliberismo» e dell’appartenenza all’area dell’euro, ad essere in causa nella crisi irlandese sono anche il significato e, potenzialmente, l’esistenza, dell’attuale costruzione europea.
Per comprendere perché si attribuisce tanta importanza a queste elezioni si consideri che il partito che le ha perse, il Fianna Fáil, ha governato per quasi i quattro quinti del periodo che inizia dal 1932 e sempre da solo fino al 1989, ottenendo alle elezioni risultati per lo più ben superiori al 40% (il 51% nel 1938 e il 50% nel 1977) anche quando costretto all’opposizione, scendendo al 39% solo nel 1992 e nel 1997. Fondato nel 1926 da Éamon de Valera, che tra il 1932 e il 1957 fu capo del governo per complessivi 19 anni, il controllo esercitato dal Fianna Fáil sull’apparato statale della Repubblica irlandese è paragonabile, quanto a durata, solo a quello della socialdemocrazia svedese, della Democrazia cristiana italiana e del Partito Liberaldemocratico giapponese. Profondissimo fu il segno originariamente impresso sulla società e sulla cultura politica irlandese nei primi decenni di potere, grazie ad un nazionalismo interclassista con tinte popolari che poté farsi forte, negli anni Venti, dell’opposizione di de Valera al Trattato con l’Inghilterra, in base al quale cinque contee del nord erano state escluse dal nuovo Stato libero, del rifiuto di giurare fedeltà alla Corona nell’ambito del Commonwealth, e dell’ambiguità nei confronti dell’Irish Repubblican Army. Il Fianna Fáil, in altri termini, si poneva come il legittimo erede della lotta armata contro il colonialismo inglese e come il custode dell’indipendenza della cattolica Irlanda.
Ebbene, nelle ultime elezioni il Fianna Fáil ha perso la bellezza di 24 punti di percentuale, ottenendo solo il 17% dei consensi; il Green Party, suo alleato nel governo, è crollato dal 4,7% all’1,8%, perdendo la rappresentanza parlamentare.
Viceversa, ottimi sono stati i risultati elettorali dei partiti all’opposizione: il 36% e il 19,4% rispettivamente per il Fine Gael e l’Irish Labour Party, che hanno costituito il nuovo governo; il Sinn Féin, partito già collegato all’Ira, ha raggiunto il 9,9%, un guadagno esattamente di 3 punti (con una forte concentrazione del voto nelle contee di confine con l’Ulster); la sinistra, presente con il cartello elettorale United Left Alliance (comprensivo del Socialist Worker Party, di People Before Profit Alliance e di Workers and Unemployed Action Group) ha raddoppiato i voti sul 2007, eleggendo cinque deputati, ma con un modesto 2%.
In una prospettiva lunga queste elezioni possono interpretarsi come l’ultima sanzione formale del declino della mentalità politica, cattolica e nazionalista, un tempo alimentata dal partito di de Valera. L’Irlanda è oramai lontana dai tempi dell’eroica battaglia per l’indipendenza, non è più una società essenzialmente rurale, il Fianna Fáil è un partito corrotto e internamente corroso; ed è sintomatico che il suo declino elettorale si accompagni al grave scandalo dei sacerdoti pedofili, coperti per un quarto di secolo da tre diversi arcivescovi dublinesi, e dalle conseguenti dimissioni del vescovo John Magee, già notevole per essere stato tra i segretari privati di ben tre papi (Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II): fatto di non poco conto per chi fa della cattolicità un elemento dell’identità nazionale.
Nell’immediato è però palese che l’elettorato ha fatto pagare duramente ai partiti al governo la grave crisi economica in cui versa l’isola e l’accordo-capestro da essi stipulato con l’Unione Europea e il Fondo monetario internazionale nel dicembre dello scorso anno.
Il terremoto elettorale è indubbio, ma l’autentica novità non sono i risultati del Fine Gael e del Labour Party, che hanno precedenti, bensì il tracollo del Fianna Fáil, che per quasi ottanta anni era stato, sempre e di gran lunga, il primo partito.
A questo occorre aggiungere altre più importanti considerazioni.
La prima è che la coppia Fine Gael-Labour Party ha già dimostrato, stando al governo, di non essere un’alternativa programmatica al Fianna Fáil, con il quale, anzi condivide la responsabilità per la situazione nella quale ora si trova l’Irlanda.
Semmai, le elezioni aprono una fase politica nuova, perché anche questi partiti andranno incontro al logoramento ed ai conflitti conseguenti dalla contraddizione entro la quale si dibatte quella che, pochi anni or sono, era la detta la «tigre celtica»: che non è solo un fatto nazionale.
La seconda considerazione è che l’accordo sottoscritto dal precedente governo e mantenuto dal presente, analogo a quello con la Grecia, oltre a gravare pesantemente sul popolo irlandese non solo non mancherà di aumentare gli squilibri macroeconomici interni all’area dell’euro ma, a causa della volontà dei governi di tutti i paesi europei di «tornare all’ordine» pre-crisi, contribuirà alla persistenza negli anni di livelli elevati di disoccupazione, implicando un ulteriore attacco frontale ai salariati ed all’insieme dei diritti socio-economici, e la possibilità del riacuttizarsi continentale della crisi.
Infine, proprio perché negli anni tra il 1994 e il 2007 quello irlandese fu un modello di virtù «neoliberale» per l’intera area dell’euro e per i paesi aspiranti ad entrarvi, tanto che l’Irlanda è da molti anni nei primissimi posti a livello nell’indice di «libertà economica» della Heritage Foundation mondiale (nel 2011 al settimo, secondo in Europa, dopo la Svizzera), è la vicenda irlandese che meglio manifesta la contraddittorietà dell’intera costruzione europea, più delle crisi in Grecia, in Portogallo o in Spagna.
2. Gli anni della «tigre celtica» e dell’Irlanda come caso esemplare del «neoliberismo».
Negli anni novanta funzionari dei paesi dell’Europa orientale e baltica viaggiavano in Irlanda per apprendere la formula di un incantesimo: quello che aveva trasformato uno dei paesi economicamente più marginali dell’Europa occidentale in un «numero uno», nella «tigre celtica» (the celtic tiger). Speravano che la formula gaelica funzionasse anche se tradotta in estone, lituano ecc.
In effetti, l’economia irlandese della seconda metà degli anni Novanta pareva un miracolo, un nuovo «miracolo economico» da additare ad esempio dopo che i «draghi», «tigri» e «tigrotti» del sud-est asiatico avevano spuntati gli artigli nel 1997-1998, una sorta di Fenice rinata dalle ceneri.
Nel decennio precedente si era esaurita la spinta modernizzatrice degli anni Sessanta e Settanta che, andando oltre il ruralismo e la debole linea di sostituzione delle importazioni propria del periodo devaleriano, combinava un certo grado di interventismo statale con l’apertura al capitale estero. In quei decenni si arrestò la secolare emorragia che aveva disperso milioni di irlandesi nel mondo, in particolare negli Stati Uniti, mentre nell’isola di smeraldo la popolazione urbana (towns oltre i 1500 residenti) superava quella rurale, crescendo rapidamente specialmente nel 1971-1981. Una trasformazione che incideva anche sul costume e la mentalità.
Ma negli anni Ottanta i limiti della tardiva modernizzazione si rivelarono nella crescita del debito pubblico, in un tasso di disoccupazione (standardizzato Ocse) che tra il 1984 e il 1994 oscillò tra il 14% e il 17% della forza lavoro, livelli e durata da autentica depressione, e, infine, nella ripresa dell’emigrazione, nel 1986-1991 in volumi paragonabili a quelli degli anni Quaranta.
Ma «miracolosamente», nel 2004, per quanto già avesse iniziato ad ansimare, la «tigre celtica» poteva invece (ma non per molto ancora) vantare una serie impressionante di record che la ponevano in testa alle classifiche europee di diversi indicatori (se si fa eccezione del Lussemburgo):
- la riduzione del tasso di disoccupazione al 4,7%, a fronte di un tasso medio nell’area dell’euro dell’8,8%;
- con la creazione di un milione di posti di lavoro, tra il 1991 e il 2001 il tasso d’occupazione complessivo era aumentato di 12 punti, al 67%, e di 15 punti quello delle donne; il tasso d’occupazione maschile era il più alto tra i paesi europei, quello femminile aveva raggiunto la media;
- il più alto Pil per abitante in Europa, se calcolato in parità di potere d’acquisto;
- una crescita del 40% della formazione lorda di capitale fisso a partire dal 1995, e un tasso d’investimento (il 24,4% del Pil) superiore di 5 punti alla media di 25 paesi europei;
- la più alta produttività oraria per occupato, del 30% superiore alla media di 25 paesi europei;
- un volume delle esportazioni pari a più del 90% del Pil (in calo all’80% dal 2003), secondo solo a quello del Lussemburgo, da comparare al 26-27% di Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, ed al 35% della Germania;
- la riduzione del debito pubblico sul Pil da più del 70% a sotto il 30% nel 2006, a fronte di una media dei paesi dell’area dell’euro del 78%;
- un bilancio pubblico in attivo dal 1997 al 2007 (ad eccezione del 2002), con un massimo nel 2000 pari al 4,8% del Pil.
Come si vedrà, ovviamente non tutto era oro luccicante, ad esempio per quanto riguarda i servizi sociali o la durata dell’impiego femminile (ed anche per quel che riguarda la questione delle contee del Nord), ma quei dati erano comunque invidiabili, il cambiamento reale.
Qual’era il segreto del «miracolo» irlandese?
La risposta è semplice: la straordinaria crescita dell’investimento diretto dall’estero (ide in entrata), ovvero dell’investimento da parte delle società multinazionali, in particolare statunitensi.
In prima approssimazione, per l’Irlanda non si trattava di una novità assoluta. Nel tentativo di sfuggire alla dipendenza quasi integrale dalle esportazioni sul mercato britannico, essenzialmente agricole, e per iniziativa del ministro delle finanze Whitaker, già nel 1957 venne promossa una strategia di sviluppo nella quale si metteva fine al protezionismo e si puntava sull’apporto del capitale estero; il piano Whitaker venne implementato dal successore di de Valera, Seán Lemass (primo ministro dal 1959 al 1966), notevole anche per il drastico ridimensionamento della retorica irredentista e per la «distensione» con l’Inghilterra circa le contee del Nord. Agevolazioni fiscali molto favorevoli all’investimento dall’estero nel settore manifatturiero erano già in atto negli anni Sessanta e Settanta, periodo nel quale la Repubblica cambiò effettivamente il suo volto. Già allora le multinazionali statunitensi avevano iniziato ad usare l’Irlanda come una piattaforma per le esportazioni nella Comunità Europea, ma l’adesione alla Cee venne troppo tardi, nel 1973, quando il boom postbellico si era esaurito e subentrava un lungo periodo critico, bloccando la possibilità di uno sviluppo centrato sulle esportazioni. Al contrario, nonostante la relativa crescita degli ide in entrata, specie dopo il 1973, l’allentamento della dipendenza dal mercato inglese, l’importanza dei finanziamenti strutturali e della politica agricola della Cee, nella prima metà degli anni Ottanta l’economia irlandese soffrì in modo particolarmente grave della recessione internazionale e dell’aumento dei tassi di interesse debitori, precipitando in una crisi profondissima, da cui si sarebbe risollevata solo nel decennio successivo.
Uno degli elementi fondamentali del «miracolo» economico della fine del secolo scorso fu il livello dell’aliquota fiscale sui profitti delle esportazioni manifatturiere e di altre attività connesse, poi estesa nel 1987 anche alle attività del dublinese International Financial Services Centre: in Irlanda era pari al al 10% (un accordo europeo del 1998 la elevò al 12,5%, ma a partire dal 2003), ma nel 2002 la media Ocse della corporation tax era il 30%, più alta per i maggiori paesi negli Stati europei occidentali, più bassa in quelli ex «socialisti».
È però da notare che l’aliquota del 10% era già stata introdotta nel 1981. Potenzialmente essa faceva dell’Irlanda un paradiso fiscale per le società multinazionali, creando non pochi problemi e conseguenti proteste da parte di altri paesi europei, ma il regime fiscale da solo non basta a spiegare il boom degli ide della seconda metà degli anni Novanta. Il punto è importante perché, in una prospettiva ortodossa e liberista, un regime fiscale minimalista è uno degli elementi che garantiscono il successo economico; ed è anche questione sulla quale il nuovo governo non vuole cedere.
Osservando i dati del flusso degli ide in entrata per l’Irlanda, si nota che nel 1985-1990 esso ammontava, mediamente, a ca. 192 milioni di dollari all’anno, salendo nei primi anni Novanta a oltre il miliardo di dollari. Ma il vero boom avvenne a cavaliere dei secoli, quando il flusso esplose a 11 miliardi di dollari nel 1998 (quasi quattro volte quello destinato all’Italia), poi 16 nel 2000, 23 nel 2003. Entro l’inizio del nuovo secolo tutti i colossi dell’industria elettronica e farmaceutica avevano filiali in Irlanda.
Dunque, la ripresa irlandese va compresa, per quanto riguarda gli investimenti dall’estero, in due contesti diversi: quello, più modesto, in vista della formazione del mercato unico europeo; e quello, imponente, del boom degli investimenti internazionali nella seconda metà degli anni Novanta, connesso all’espansione del credito privato statunitense ed alla bubble economy (scoppiata nel 2001). Il regime fiscale irlandese funse da attrattore per massicci investimenti nel quadro di due fenomeni congiunturali non ripetibili. In effetti, i limiti interni del boom emersero all’inizio del nuovo secolo con la rivalutazione del cambio reale e la crescita dei costi salariali (a partire da un livello molto basso), a cui si aggiungeva la concorrenza delle esportazioni dalla Cina popolare (che allora decollavano) e delle agevolazioni dei paesi dell’Europa orientale per gli ide. Gli irlandesi dovrebbero riflettere bene sulla non ripetibilità del «miracolo».
Il risultato del flusso di ide ha comunque modificato profondamente la struttura del capitalismo irlandese. Lo stock complessivo dell’investimento estero sul Pil, che nel 1990 era pari al 7,2% (media dell’Unione Europea: 10%), nel 2000 era cresciuto al 68% (media dell’Unione Europea: 30%); il flusso dell’investimento estero relativamente all’investimento lordo totale, mediamente al 12,8% nel 1990-1995 (media dell’Unione Europea: 5,5%), nel 2000 aveva raggiunto il 107% (media dell’Unione Europea: 50%; per i Pvs era il 13%, per la Cina il 10%). Alla fine del secolo scorso l’Irlanda figurava al secondo posto nell’indice di transnazionalità della Unctad, dopo il Belgio-Lussemburgo: indice 35, a fronte dello 0,6 del Giappone, del 4,6 per l’Italia, dell’8,2 per gli Stati Uniti, del 10,6 della Germania (indice calcolato come media del peso dell’investimento diretto estero sulla formazione lorda di capitale fisso, dello stock di capitale estero e del valore aggiunto delle filiali estere rispetto al Pil, dell’occupazione nelle filiali sul totale degli occupati.
Nel corso di dieci anni, la quota delle imprese irlandesi del prodotto manifatturiero si dimezzò, scendendo al 22% nel 2000, mentre la parte delle filiali di società estere nelle esportazioni manifatturiere, già alta, crebbe al 78%. Poiché la produttività del lavoro delle filiali estere è dieci volte superiore a quello delle industrie locali si intende perché nello stesso decennio la quota dei dipendenti dalle prime aumentò solo di 4 punti di percentuale, a poco meno della metà del totale degli occupati del settore manifatturiero (48%).
La parte del leone in questo gigantesco flusso di investimenti dall’estero spettò alle multinazionali statunitensi, le cui filiali crebbero a poco meno della metà del totale e a quasi il 70% degli occupati totali delle filiali estere, in gran parte nell’elettronica, con un profitto almeno del 20% (benché occorra considerare il gioco dei prezzi di trasferimento interni alle multinazionali a fini fiscali, che comportano il rigonfiamento dei profitti delle filiali irlandesi).
Per un quadro completo occorre considerare l’attività di promozione e lobbing della Industrial Development Agency (Ireland), agenzia erede dell’omonima costituita nel 1949 ma che è ora specializzata nel campo degli ide, e la strategia volta ad attrarre investimenti nell’alta tecnologia; l’andamento del cambio reale, favorevole all’Irlanda nel secolo scorso; l’effetto cumulativo dei primi investimenti nell’attrarne altri.
Ma, specialmente, occorre considerare i rapporti tra capitale e lavoratori.
Si ricorderà l’elevatissimo tasso di disoccupazione, salito fino al 17% nel 1985 e 1986 ed ancora al 15,6% nel 1993, prima che iniziasse a scendere. Si tratta di livelli da depressione, che non potevano non influire, anche a prescindere da altre considerazioni, sui rapporti di forza tra le classi.
Questi vennero di fatto incorporati in una serie di «accordi sociali» (1987, 1991, 1994, 1997, 2000, 2003, e una legge sulle relazioni industriali del 1990), che potremmo definire «neocorporativi» nella forma ma che, mentre rafforzavano il potere delle direzioni sindacali implicavano anche una forte restrizione sulle rivendicazioni, salariali e non. Le multinazionali Usa sono inoltre quelle che prediligono forme di compartecipazione agli utili che aggirano la contrattazione collettiva; anche per questo non stupisce la riduzione del tasso di sindacalizzazione dal 61% del 1985 al 44,5% del 1999.
Il risultato si può vedere nella quota dei salari sul prodotto interno: se nel 1981 era al 77%, più alta che in altri paesi ma sostanzialmente nella media europea, dieci anni dopo era dieci punti più bassa e nel 2001 era la più bassa nell’Unione europea dopo la Finlandia, 17 punti sotto la media, al 56,6% (European Commission, EU Economy, n. 71, 2000, table 32, adjusted wage share; total economy, pp. 278-279). Da notare che la maggior parte della riduzione nella quota dei salari, poco meno di dieci punti, si verificò nella seconda metà degli anni Novanta, quando governavano il Fine Gael e il Labour Party, e questo avveniva mentre si contraeva anche la spesa pubblica.
3. Dal boom delle costruzioni all’accordo-capestro con l’Unione Europea e il Fmi.
Dall’Australia alla Svezia, dagli Stati Uniti alla Spagna, in tutti i paesi a capitalismo avanzato con l’eccezione di Giappone, Germania Svizzera e Corea, nei primi anni del XXI secolo si verificò una crescita speculativa del prezzo degli immobili, in particolare delle case per abitazione, e il boom del settore delle costruzioni (il fenomeno internazionale fu descritto con un certo allarme in Bank for International Settlements, 2006). Come è noto la particolare forma finanziaria assunta da questa bolla negli Stati Uniti fu il detonatore della crisi economica iniziata nel 2008 e ora conclusa, se si guarda alla crescita del prodotto ma non terminata nei suoi effetti sull’occupazione, i salari, le politiche di (contrazione) della spesa, nonché una delle principali ragioni della crescita dell’indebitamento delle famiglie e dell’indebitamento pubblico per «salvare» le banche direttamente coinvolte.
In Irlanda questo fenomeno ebbe particolare forza, sostituendo le esportazioni come principale fattore di crescita del prodotto interno e dell’occupazione.
Come in altri paesi, anche in Irlanda la crescita reale del prezzo delle case data dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, mediamente triplicandosi tra il 1995 e il 2005; in termini di prezzi di mercato, però, si verificò un crollo a cavaliere dei due secoli e un nuovo forte slancio tra il 2002 e il 2004. In quegli anni la crescita dei prezzi delle case in Irlanda fu la più alta nell’intera area dell’Ocse, seguita dalla Gran Bretagna e dalla Spagna; ed anche considerando tutte le componenti della nuova domanda di case, circa il 50% delle case costruite nel 2000-2003 rimasero inoccupate (Fitz Gerald et al., 2003), il 20% di quelle costruite nel periodo 2000-2006 (Conefrey e Fitz Gerald, 2009), .
Conseguentemente, mentre tra il 2000 e il 2008 gli addetti del manifatturiero si riducevano di ca. venti mila unità, quelli nell’edilizia crescevano da circa 126 mila nel 1998 a circa 415 mila nel 2007, il 19% della forza lavoro, e il settore delle costruzioni arrivava a contare per una quota quasi doppia del prodotto nazionale rispetto alla norma dei paesi avanzati, il 22% (19% sul prodotto interno, la corrispondente media europea nel 2007 era il 12%). Si può immaginare quali siano ora le ripercussioni sull’occupazione ed il reddito del tracollo dell’immobiliare.
Dietro il boom dell’edilizia c’era il boom del settore finanziario, nel quale l’occupazione complessiva raddoppiò nel periodo tra il 1988 e il 2006, in modo più graduale fino al 1997 (30% ca. dell’incremento complessivo), più veloce negli anni seguenti, specialmente nel periodo del boom immobiliare 2002-2006 (20% ca. dell’incremento complessivo). Sede ed emblema del successo del settore finanziario irlandese è il molto reclamizzato International Financial Services Centre presso Dublino.
Così come la promozione degli ide dall’estero era stato il fattore determinante della crescita delle esportazioni industriali, la liberalizzazione finanziaria, la partecipazione al sistema monetario europeo e le agevolazioni fiscali furono i fattori determinanti della bolla immobiliare e della successiva crisi finanziaria, dalla quale l’Irlanda (come il Portogallo e la Grecia, forse l’Italia) deve ancora uscire e che, nei suoi sviluppi, può coinvolgere l’intera costruzione europea.
La peculiarità della bolla immobiliare irlandese risiedeva infatti nell’intreccio di quei tre fattori che, combinandosi, consentirono una grande espansione del credito e, più particolarmente, del credito per la costruzione e l’acquisto di case e di immobili commerciali. Ma il fattore cruciale è stato la partecipazione al sistema monetario europeo: eliminando il rischio delle fluttuazioni del cambio, questo permise alle banche irlandesi di attingere al mercato europeo del capitale per finanziare i prestiti interni. Da sottolineare che, con l’eccezione della Grecia, l’indebitamento estero dell’Irlanda, della Spagna e del Portogallo ha natura essenzialmente privata, e che solo a causa della crisi, quindi dal 2008, l’indebitamento pubblico è aumentato relativamente al prodotto interno: nel 2007, ad esempio, il rapporto debito pubblico lordo/Pil era 65% per la Germania, 63% per il Portogallo e 105% per la Grecia, 104% per l’Italia, ma 36% per la Spagna, 25% per l’Irlanda (dati Eurostat).
Fatto è che il costo del «salvataggio» delle banche ricade interamente sul bilancio pubblico, cioè sui lavoratori. L’accordo con ll’Ue e il Fmi comporta una «manovra», ovvero una stangata, pari a 15 miliardi di euro entro il 2014, di cui 10 miliardi di riduzione della spesa e 5 di maggiori entrate; il 40% della manovra è prevista nel bilancio del 2011. Più significativamente, l’importo annuo della «manovra» sarà pari al 3,8% del Pil nel 2008, e 2,2%, 1,8% e 1,6% negli anni seguenti. Presupposti della stabilizzazione del debito pubblico sono però:
a) che la «manovra» abbia un impatto limitato sull’attività economica (pari a -0,46 punti di cresciuta nel 2011);
b) che la crescita economica nei quattro anni sia piuttosto sostenuta: dell’1,7% nel 2011, ma del 3% nel triennio successivo.
Ma date le condizioni della domanda internazionale, la persistente incertezza del settore bancario, l’impossibilità di svalutare e la politica della Bce, tutti quei presupposti risultano decisamente ottimisti. I tassi di crescita saranno più bassi, l’impatto della «manovra» più alto: il risultato più probabile è la depressione dell’economia, l’alta disoccupazione, grandi sofferenze e, infine, il fallimento della «manovra» stessa.
L’Irlanda si avvia verso il default, l’incapacità di pagare il debito contratto.
Discorso analogo può farsi per la Grecia, il Portogallo e, molto peggio, forse anche per la Spagna, il cui peso complessivo è ben superiore a quello degli altri paesi. A partire da uno qualsiasi di questi paesi può verificarsi un effetto domino sull’intero sistema europeo.
4. L’Irlanda come specchio delle contraddizioni dell’economia mondiale.
Lo sviluppo dell’economia irlandese nei tre lustri passati è lo specchio delle contraddizioni intrinseche agli squilibri intrinseci all’economia mondiale contemporanea ed al sistema monetario europeo.
Come si è visto, esso si fonda, nella prima e più «virtuosa» fase, su un’eccezionale successo nell’attrarre investimenti esteri, specialmente statunitensi. In effetti, per il capitale nordamericano l’Irlanda ha avuto ed ha un po’ la funzione di un cavallo di Troia dentro la cittadella europea. Con la differenza, in questo caso, che tutti erano consapevoli di quel che accadeva e, per giunta battevano le mani.
Contrariamente alla vulgata corrente, la divisione «globale» del processo di lavoro tra filiali e impianti localizzati in paesi molto diversi e anche molto lontani, strutturata a seconda del loro «vantaggio comparato» e finalizzata alla riduzione dei costi di produzione, non è la strategia più innovativa né quella maggiormente seguita dalle imprese multinazionali. Molto più importante è l’investimento che ha di mira direttamente il mercato nazionale e regionale, che può realizzarsi anche mediante la divisione regionale del lavoro (ad es. all’interno dell’Unione europea, cosa diversa dalla divisione del lavoro «globale» tra aree qualitativamente diverse) o l’utilizzo di particolari impianti localizzati in specifici «distretti industriali» in funzione dell’esportazione nella più ampia regione economica.
Questo è lampante nel caso degli ide europei e giapponesi negli Stati Uniti: nel 2008 gli Stati Uniti furono destinatari del 28% degli ide mondiali e del 31% del totale degli ide in entrata nei paesi avanzati. Nello stesso anno gli investimenti diretti tra i paesi a capitalismo avanzato totalizzarono l’87% degli ide mondiali: e questi, che creino nuove attività oppure ne acquisiscano di già esistenti, hanno come obiettivo il mercato interno.
Il caso irlandese rientra chiaramente nella categoria degli ide rivolti a un mercato regionale. Per questa ragione hanno interessato settori ad alta tecnologia (specialmente informatica e farmaceutica), modernizzando parte importante della struttura produttiva, anche attraverso l’impulso dato all’indotto locale, alla formazione di sinergie territoriali e all’acquisizione di conoscenza ed esperienza; inoltre, in Irlanda hanno assunto la forma di creazione di nuovi impianti piuttosto che quella, dominante negli ide dalla seconda metà degli anni Novanta, di acquisizioni di imprese già esistenti (in particolare di imprese già statali e ora privatizzate): forma che spiega la crescita dell’occupazione.
Proprio perché obiettivo dell’ide degli ide in Irlanda era l’esportazione nell’ambito regionale europeo, il peso delle esportazioni sul Pil crebbe dal 55% nei primi anni Novanta al 92% nel 2001. Questo spiega l’enorme scarto tra il prodotto interno lordo, che misura l’insieme della produzione di beni e servizi sul territorio statale, e quello del prodotto nazionale lordo, che misura la produzione di imprese nazionali, che è senza eguali tra i paesi europei: 16 punti di scarto nel 2004, contro una norma ben inferiore ai 10, per lo più di 2. Ma si può anche dire che quello scarto esprima un marcato dualismo tra settore esportatore, dominato da impianti multinazionali ad alta produttività, e settore «nazionale», tra cui quello delle costruzioni, decisamente meno competitivo. Questo è uno dei motivi per cui, in seguito alla recessione del 2001-2003 (del 2001 se si considera la crescita del Pil gli Stati Uniti, 2001-2003 se si considera l’area dell’euro, 2003-2004 per l’Irlanda) ed alla riduzione degli ide in entrata (in effetti un disinvestimento nel 2004-2006), il settore manifatturiero abbia ceduto, mentre emergessero per dinamismo quelli dell’edilizia e della finanza: e si trattava dell’interazione fra un settore per eccellenza nazionale e locale ed un’attività bancaria che mediava tra il primo e il mercato internazionale del capitale.
Questo, però non esaurisce affatto il discorso.
Nei paesi a capitalismo avanzato con un mercato interno ristretto, come il Belgio, la Svizzera o la Svezia, l’incidenza delle esportazioni sul prodotto interno è alta, al contrario di quanto avviene per i «grandi» paesi come gli Stati Uniti o il Giappone; e, per la stessa ragione, essi sono sede di numerose e importanti società multinazionali, che da molti decenni operano su scala mondiale, in una misura che, in comparazione con i «grandi», può apparire sproporzionata rispetto al prodotto interno. Si può ben dire, e però questo è concetto diverso da quello dello «scioglimento» dei diversi capitalismi in un mercato unico «globale», che quel che contraddistingue la riproduzione allargata del capitale produttivo dei paesi imperialisti è che essa supera i confini statali e penetra, interseca e si sovrappone alla riproduzione del capitale in altri paesi. Nei paesi capitalisticamente sottosviluppati o che, a loro tempo, con l’imperialismo ruppero, come la Cina o Cuba, l’esportazione del capitale approfondisce la dipendenza trasformando o creando rapporti sociali capitalistici. Questo vale anche per i paesi «piccoli» e tradizionalmente considerati «pacifisti» come la Svizzera e, magari, non-imperialisti come la Svezia, lo Stato-modello della socialdemocrazia mondiale; peraltro, entrambi i paesi sono rinomati produttori ed esportatori di armi.
Tornando all’Irlanda: questo è un caso molto diverso dai precedenti, perché il «miracolo» economico irlandese era estremamente dipendente dall’estero sia per la realizzazione del valore della produzione attraverso le esportazioni di merci sia per la fonte dell’investimento e la destinazione finale dei profitti, una combinazione insolita che rende il caso irlandese più simile a quello dell’Estonia e della Slovenia che della Svezia o della Svizzera.
Un esempio concreto di quel che intendo: nella lista delle prime 100 società multinazionali non finanziarie per assets esteri, l’Irlanda ne conta solo una (nel settore dei materiali da costruzione) tra gli ultimi posti, mentre l’Olanda ne conta tre (tra cui i giganti anglo-olandesi Royal Dutch-Shell e Unilever), la Svizzera quattro (tra cui Nestlé, Novartis, Roche), la Svezia una, ma si tratta della Volvo. Alcune delle citate sono tra le multinazionali con il maggior numero di filiali sparse nel mondo: da sempre le società multinazionali dei «piccoli» paesi sono le più «globali» anche per produzione, dipendenti e vendite all’estero. Questo senza contare le tante multinazionali «minori»: per intendersi, nei primi anni Novanta del secolo scorso l’Irlanda era sede di 39 multinazionali, l’Olanda di 1608, la Svezia di 3520, la Svizzera di 3000, la Danimarca di 800.
Se in passato l’arretrato capitalismo irlandese dipendeva dalle esportazioni agricole verso l’ex padrone coloniale, adesso, mediante l’investimento di capitale produttivo dall’estero in settori tecnologicamente avanzati, esso ha interiorizzato la dipendenza direttamente nella riproduzione del rapporto di lavoro salariale e nella dinamica dell’accumulazione di capitale.
Il cosiddetto «miracolo» irlandese non fu il frutto di un qualche automatismo del «libero mercato» e men che mai di un unico mercato «globale», ma (semplificando un processo costituito da serie di decisioni e dall’effetto cumulativo di sinergie territoriali, nei quali è compresa la decisione politica dei governi irlandesi) della «decisione» strategica del capitale statunitense di fare dell’Irlanda una piattaforma per le proprie esportazioni nel resto d’Europa.
L’affermazione precedente può ulteriormente qualificarsi comprendendo che la «tigre celtica» crebbe come pedina giocata dalle grandi imprese multinazionali sulla scacchiera della competizione internazionale, ed è una delle tessere che compongono il quadro dello squilibrio tra il polo della domanda mondiale, gli Stati Uniti, e il polo europeo, in particolare la Germania, per il quale le esportazioni devono compensare la compressione della domanda interna.
Quel «miracolo» è l’esempio più recente della centralità dell’iniziativa del capitale statunitense e della sua capacità di farsi interno alla forma politica dell’Unione europea ed all’area economica europea, sfruttandone le diseguaglianze dei livelli di sviluppo.
Infine, il dualismo macroeconomico interno al capitalismo irlandese, tra il settore «nazionale» e quello esportatore dominato dal capitale estero, si esprime anche in differenze nel rapporto tra capitale e lavoro nei due settori e nell’effetto complessivo di questa differenza sulla dinamica del rapporto salariale. Gli studi più accurati hanno da tempo appurato che lo «stile» del management delle società multinazionali e il modo in cui esso imposta il rapporto con i lavoratori non sia affatto uniforme, presentando caratteristiche distintive in base allo Stato d’origine; ma anche che quei particolari «stili» non possano essere semplicemente «esportati» ma debbano, a loro volta, adattarsi alle specificità della nazione ospitante. Concretamente il risultato finale dipende dalla forza di diverse tendenze. Il boom degli ide corrispose al ritorno alla contrattazione centralizzata nazionale, di tipo «neocorporativo», fortemente sbilanciata nel senso della limitazione di scioperi e degli aumenti salariali, della flessibilità del lavoro e della competitività delle aziende. In questo nuovo contesto, contrariamente a quanto accadeva prima, le filiali multinazionali da una parte sembrano conformarsi maggiormente agli accordi nazionali, ma dall’altra, e in modo più marcato quelle statunitensi di più recente insediamento, presentano una chiara inclinazione a non riconoscere il sindacato e a utilizzare schemi miranti a subordinare il salario alla competitività dell’impresa. In altri termini, le imprese estere sembrano valersi di un più rigido controllo della burocrazia sindacale sopra i lavoratori, mentre, nello stesso tempo, minano dall’interno lo schema «neocorporativo» di gestione delle relazioni industriali.
5. Conclusione politiche sull’Irlanda, e sulla feroce determinazione dei padroni e dei politici di eurolandia.
Il «miracolo» irlandese degli anni Novanta ha certamente sedimentato una nuova base industriale, ma esso è concluso da un pezzo.
Nei primi anni del nuovo secolo anni si poteva pensare che, comunque, gli anni dell’alta disoccupazione e dell’emigrazione per l’Irlanda fossero finiti, che la crescita del settore delle costruzioni e del settore finanziario potesse compensare l’alterno andamento dell’investimento diretto dall’estero, ma la crisi finanziaria e la crisi della domanda internazionale hanno posto fine a questa illusione. Ma se nel 2008 il tasso di disoccupazione era il 6%, nel febbraio 2011 è cresciuto fino al 15%, a fronte di una media dei paesi di eurolandia del 10%; il tasso di disoccupazione giovanile era al 9% nel 2007, ma secondo la Ilo era salito al 24% nel 2009, o almeno al 37% contando i giovani che nel frattempo avevano rinunciato a cercare lavoro. Un dato che sintetizza quanto nero si presenti il futuro, specialmente dopo l’accordo stipulato nel dicembre 2010 dal governo Fianna Fáil-Verdi, con l’ipocrita sostegno dell’opposizione, che giustamente è stato giudicato un capestro.
Sulla lunga durata, la fine del «miracolo» rivela il fallimento storico della borghesia irlandese e del partito che più a lungo ha governato il paese, il Fianna Fáil, nel costruire un capitalismo autoctono, che sostanziasse l’indipendenza politica del nuovo Stato (ma non la completa unità politica) con un proprio autonomo dinamismo nell’economia mondiale, come è il caso per altri «piccoli» paesi europei. La questione cruciale, a questo proposito, non è la rilevanza del mercato interno ma l’estensione della riproduzione allargata del capitale autoctono su scala internazionale. Non si tratta di una pretesa impossibile: esistono esempi europei, come la Svezia, o quello (più controverso) della Corea del Sud. Ma questo in Irlanda non è accaduto. Sicché, paradossalmente, l’ultimo paese europeo occidentale a conquistare l’indipendenza politica, armi alla mano, ha riprodotto, con due modalità diverse, la dipendenza economica dal mercato e dal capitale estero, prima essenzialmente britannico poi principalmente statunitense.
Se il tracollo elettorale del Fianna Fáil ha significato storico, può essere questo.
Il punto, però, è che il Fianna Fáil non è l’unico responsabile politico.
L’orientamento politico-economico che avrebbe dato i suoi frutti a metà anni Novanta, dopo la fine della recessione internazionale di inizio decennio, emerse nel 1987, con il Programma di ripresa nazionale del governo Fianna Fáil. Ma questo venne condiviso e sviluppato da tutti i partiti nelle successive coalizioni di governo: quelle del Fianna Fáil con i Progressive Democrats e poi, si faccia attenzione, dal 1992 al 1994, con il Labour Party. E venne continuato anche senza il Fianna Fáil, dal governo di coalizione del Labour Party e del Fine Gael dal 1994 al 1997 (con la Democratic Left, scissione del Workers Party, confluita nel Labour nel 1999), quindi dagli stessi partiti che, per tanti commentatori delle ultime elezioni, dovrebbero essere alternativi al Fianna Fáil. Il Labour Party ha avuto responsabilità di governo in anni cruciali, fungendo da alleato minore in coalizioni con i due partiti maggiori. A dicembre 2010 Labour Party e Fine Gael «scambiarono» con il governo l’approvazione del bilancio d’austerità conseguente dall’accordo-capestro con la convocazione delle elezioni anticipate. E nelle trattative europee del marzo scorso il nuovo governo non è riuscito a spuntare neanche la riduzione di un punto di percentuale sul pagamento degli interessi del prestito (a differenza del governo greco, che ha promesso nuove privatizzazioni) perché si è rifiutato di aumentare la corporation tax. In altri termini: non solo il governo Labour Party-Fine Gael amministrerà lo strangolamento dei lavoratori e dei servizi pubblici irlandesi, ma si è rifiutato di ridurre, sia pur minimamente, il peso della crisi fiscale conseguente al «salvataggio» delle banche (non solo irlandesi ma anche, indirettamente, estere), pur di garantire i profitti delle multinazionali (specialmente statunitensi). Più chiaro di così...
Obiettivamente è già stato dimostrato che all’interno del sistema dei partiti irlandesi non esiste una prospettiva alternativa.
Ma l’asfissia di quella che una volta era la «tigre celtica» non è solo questione irlandese. Si tratta anche del fallimento dei pretesi obiettivi di convergenza e prosperità a monte della costruzione del sistema monetario europeo, fallimento tanto più grave in quanto la politica economica irlandese era un esempio «virtuoso» di apertura e liberismo, di flessibilità e moderazione sindacale, di modernizzazione e competitività.
La specificità irlandese è che, come in un microcosmo, essa concentra le contraddizioni inerenti alla struttura ed al funzionamento dell’area dell’euro, manifestandole in due fasi diverse e nel quadro di un’economia relativamente «periferica»; e queste ultime contraddizioni, a loro volta si presentano come una internalizzazione della contraddizione di fondo dell’economia mondiale capitalistica.
Nei termini più essenziali, da trent’anni a questa parte l’economia mondiale contemporanea si struttura intorno a un polo importatore, gli Stati Uniti, che sostiene la domanda mondiale. La dinamica di questa struttura dipende dall’espansione del credito statunitense (e della spesa pubblica, con i repubblicani Reagan e Bush jr. e ora, per causa di forza maggiore e temporaneamente, con il democratico Obama), che alimenta il consumo (meno l’investimento produttivo) e che dà luogo a periodiche «bolle» speculative, finanziarie e immobiliari; all’altro lato ci sono gli esportatori, Giappone, Cina e Germania in primo luogo, per i quali la compressione dei costi salariali è indispensabile e che, come «contropartita» delle esportazioni di beni (essenzialmente), fanno affluire verso gli Usa un torrente di investimenti finanziari a breve termine e di investimenti diretti a lungo termine.
Una struttura simile si è consolidata nell’economia europea, approfondendosi ed estendendosi negli anni Novanta del secolo scorso, intorno alla costruzione e all’estensione dell’area dell’euro.
Invece della convergenza si è verificata una divergenza sempre più accentuata, da una parte tra la Germania, grande esportatrice della e nell’area, il cui saldo delle partite correnti tra il 2000 e il 2007 crebbe dal pareggio ad un attivo pari 7% del Pil, grazie a una crescita vertiginosa delle esportazioni e, insieme, ad una straordinaria compressione dei costi del lavoro e della domanda interna (in questo gruppo rientrano anche Belgio, Olanda, e Finlandia; anche la Danimarca e la Svezia, pur non facendo parte dell’area dell’euro): la maggiore competitività delle esportazioni tedesche è ora dovuta non alla crescita della produttività (che stagna, perché stagna pure l’investimento) ma al contenimento del costo del lavoro.
La controparte del «neomercantilismo» del capitale tedesco è il deficit dei conti correnti di altri paesi, che con l’unificazione monetaria è diventato sempre più grave, come la Grecia (dal
-1,9% del Pil nel 1993 a un vertiginoso -15% nel 2008), il Portogallo (da +0,9% del Pil a -11% negli stessi anni), Spagna (rispettivamente da -1% a -10%); anche Italia e Francia mostrano, dai primi anni Novanta, un degrado del saldo delle partite correnti, ma più modesto (da rispettivamente 0,8% a -2,6% e da 0,6% a -1,6%). Come nel caso degli Stati Uniti, il corrispettivo di questo crescente saldo negativo delle partite correnti non può che essere la riduzione del tasso di risparmio delle famiglie e l’indebitamento privato, principalmente, e, specialmente per la Grecia, l’indebitamento statale. Il paradosso è che, mentre il salario reale non cresce, cresce invece l’indebitamento dei salariati con le istituzioni finanziarie e l’indebitamento internazionale di queste ultime. In effetti, l’unificazione monetaria ha reso più facile ottenere prestiti a buon mercato ed accrescere la dipendenza dal credito internazionale. I paesi meno competitivi sono stati coinvolti nel processo di liberalizzazione finanziaria e di «finanziarizzazione» (dipendente) dell’economia nella veste di consumatori a credito. Ma, ora, assumono le sembianze del peonaggio per debiti.
Ebbene, l’Irlanda prima seguì, negli anni Novanta, il «modello» tedesco esportatore, ma con capitale statunitense, entrando a far parte del novero dei «virtuosi»; ma nel decennio successivo si mise sulla strada dell’indebitamento delle famiglie, della bolla immobiliare, dei prestiti internazionali. Su quella strada era spinta, data la rigorosa dipendenza dagli investimenti diretti dall’estero e dalle esportazioni nel continente, dalla riduzione degli ide, dal loro spostamento verso altri «piccoli» paesi dell’Europa centrale e orientale, dalla rivalutazione reale, dal ristagno della domanda europea.
Come tutti i governi, anche quello irlandese ha proceduto a «salvare» le proprie banche. Questi «salvataggi», in aperta violazione della vulgata «neoliberista» e «globalista», ma per nulla inaspettati per chi ha presente il ruolo strutturale degli Stati nella gestione dell’economia capitalista, hanno impedito che la «grande recessione» divenisse una «grande depressione».
I «salvataggi» statali-nazionali, però, così come i «pacchetti» UE-Fmi per la Grecia e per l’lrlanda e l’European Financial Stabilisation Facility, sono, innanzitutto, il «salvataggio» delle banche estere creditrici, pesantemente esposte in Irlanda come in Portogallo, Grecia e Spagna, e del sistema dell’euro. Anzi, durante la crisi e fino circa il 2009, le banche europee hanno utilizzato le iniezioni di liquidità da parte della Banca centrale europea per lucrare sulle differenze (gli spreads) tra i titoli pubblici dei paesi indebitati e quelli tedeschi, per fare nuovi prestiti, questa volta principalmente agli Stati, il cui debito era ulteriormente cresciuto proprio a causa della crisi e dei «salvataggi». E così, quello che era principalmente un problema di debito privato è diventato un problema di debito sovrano.
Si può dire quanto si vuole che la crisi sia terminata, ma non è così. Essa continua nella forma immediata della crisi del debito sovrano di alcuni paesi; e continuerà, non nonostante, ma a causa dell’implementazione delle misure di austerità e di ulteriore «flessibilizzazione» del lavoro, non solo in Irlanda ma nell’intera Europa.
La fase, però, è ora diversa dalla precedente.
Nel 2008-2009 lavoratori e cittadini subivano le conseguenze di un fenomeno, la crisi, che pur dovendo molto alle decisioni e alle non-decisioni politiche si manifestava come non intenzionale, come fatto «obiettivo», come risultato della «cattiva» speculazione statunitense.
In questa seconda fase, al contrario, quel che viene in primo piano è la decisione politica di far pagare il costo della crisi ai lavoratori ed alle lavoratrici, ai pensionati, ai giovani; e si tratta di un orientamento ampiamente condiviso, tranne nei dettagli e nelle tirate pre-elettorali, da tutti i grandi partiti europei, di «destra» come di «sinistra»,
Gli accordi firmati dai governi della Grecia e dell’Irlanda, ai quali probabilmente seguiranno altri con il Portogallo e la Spagna, la volontà di ridurre i deficit di bilancio anche negli altri paesi, la Bce ossessionata dal «ritorno dell’inflazione» e che perciò aumenta il tasso di interesse, hanno come solo obiettivo la salvaguardia dell’euro; ma, quelle misure sono contraddittorie: deprimendo la domanda aggravano il deficit fiscale e con ciò aumentano la probabilità di default degli Stati più deboli. Si può anche vedere del comico nel fatto che al «salvataggio» di eurolandia contribuiscano gli Stati Uniti, nei panni del Fmi e con l’estensione delle linee di credito in dollari della Federal Reserve alla Banca centrale europea ed alle banche nazionali.
La prospettiva del «ritorno all’ordine» dei conti pubblici comporta decisioni feroci, perché non potrà che allungare i tempi della riduzione della disoccupazione, precarizzare ulteriormente gli occupati, tagliare i servizi sociali, accrescere il peso dei debiti delle famiglie, annerire il futuro dei giovani. Disoccupazione e precarizzazione sono le armi principali e preventive della lotta che la borghesia, finanziaria ed industriale, ha intrapreso contro le classi dominate, i salariati, i pensionati, i giovani, spalleggiata dai governi, di centrosinistra e di centrodestra.
Non è difficile prevedere, nei prossimi anni, una combinazione di crescente disaffezione politica dei cittadini e di ampie fluttuazioni elettorali: queste, anzi, saranno benvenute perché le elezioni permetteranno di creare nuove illusioni e di deviare il risentimento. Aumenteranno le tensioni dentro i sindacati e tra direzioni sindacali e lavoratori: perché le prime sono già chiamate alla responsabilità ed alla moderazione, cioè ad amministrare l’estinzione del proprio ruolo come organi di difesa dei salariati e dei disoccupati.
Ma questa è anche la fase politicamente più pericolosa per la stessa borghesia, perché sarà più difficile scaricare la responsabilità delle sofferenze su un impersonale «mercato globale».
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