(Riflessioni su postdemocrazia e statalizzazione dei partiti della
sinistra, 2)
1. Dall’appello
allo stato d'emergenza contro
Berlusconi alle chiacchere sul colpo di Stato del
professor Monti.
Quando il Presidente della repubblica Napolitano conferì l’incarico di
formare il governo a Mario Monti si gridò al colpo di Stato, alla democrazia
sospesa e all’avvento del «governo delle banche»; curiosamente, pasdaran berlusconiani, leghisti e
sinistra hanno usato e usano toni e idee simili. Ma questi sono gridi che dal
lato sinistro stridono con altri già sentiti per anni. Le banche e la
Confindustria non erano forse già al governo? Marchionne non praticava già una
sorta di fascismo aziendale spalleggiato dal governo? E il «blocco reazionario
di massa» che fine ha fatto? È con Monti o con Berlusconi? E che ne è di quel presunto specifico «regime» berlusconiano che per essere tale doveva
pur mostrare di disporre di qualche muscolo? E che nuovo genere di colpo di
Stato o imposizione da parte dell’oligarchia straniera è mai questa che ha il
sostegno parlamentare dei due maggiori partiti nazionali che nella logica
maggioritaria dovrebbero alternarsi al governo? Cos’è, un golpe
ultraparlamentare invece che antiparlamentare?
Oppure, l’ascesa di Monti è forse la
realizzazione del sogno putschista di Alberto Asor Rosa? Si ricorderà che un anno fa, oltre a paventare come tanti «la creazione di un
nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o
difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire», Asor Rosa riteneva «incongrua una prova di forza dal
basso»; auspicava, invece, l’intervento del Colle, lo «stato d'emergenza», il
ricorso a Carabinieri e Polizia di Stato, il congelamento delle Camere (1). Il tutto a difesa della democrazia...
Se ci si ferma al caso individuale, si potrà dire che
l’invocazione putschista di Asor Rosa fosse la senile espressione di
quell’autonomia del politico che negli anni Settanta legittimava il compromesso
storico tra i grandi partiti popolari, il Pci e la Democrazia cristiana. Ovvero
dell’operazione che neutralizzò l’espansione della democrazia di base per
convogliarla in morti canali istituzionali, attuò una politica consociativa
nella quale veniva meno il ruolo dell’opposizione parlamentare (e quindi del
normale funzionamento del parlamento), diede inizio alla legislazione
d’emergenza antigarantista (la Legge Reale, l’antiterrorismo all’insegna del
fine che giustifica i mezzi), accelerò la statalizzazione dei partiti
(d’opposizione, oltre che di governo), impose ai lavoratori l’austerità che
d’allora non ha più avuto fine, creò le basi per l’offensiva padronale gestita
in proprio (i licenziamenti Fiat del 1980); dell’operazione, insomma, durante
la quale si posero le basi dell’attuale regime postdemocratico.
Tuttavia, in termini più attuali e generali può dirsi che
Asor Rosa abbia dichiarato ciò che altri non hanno il
coraggio di ammettere neanche a se stessi: l’assunzione dello Stato come
risolutore in ultima istanza dei problemi politici fondamentali, ultimo
orizzonte della politica. È questo il senso della dichiarazione di incongruità della
mobilitazione del dèmos a difesa
della democrazia: che poi esprime la oramai compiuta statalizzazione dei
partiti e la subalternità senza vie d’uscita della sinistra post-Pci ed ex
gruppettara. Qualcosa che risulta da una pluridecennale pratica di uso
strumentale della mobilitazione sociale e della partecipazione politica al fine
dell’integrazione di questa sinistra nel sistema dei partiti e del
conseguimento di seggi nelle assemblee elettive, con i relativi benefits del finanziamento pubblico:
senza seggi e senza denari questa sinistra non potrebbe partecipare allo
spettacolo politico né proporsi come ponte tra piazza e Palazzo. Per questa
stessa ragione la sinistra non vuole comprendere né può ammettere, perché
l’ammissione equivarrebbe al suicidio politico, che nel corso dell’ultimo
trentennio si è verificata una trasformazione dei sistemi politici detti
liberaldemocratici, strutturale e
irreversibile. Di questa trasformazione è parte integrante e determinante
la mutazione della stessa sinistra.
2. I precedenti del governo di Monti.
Quello di Monti
non è certo il primo «governo tecnico» italiano né il primo con un’alta
percentuale di professori universitari. Anzi, sui professori in politica e al governo come figure distinte dal
politico-intellettuale o dall’intellettuale impegnato (figure che possono
anch’esse avere una posizione accademica ma che non sono caratterizzate dalla
posizione professorale) esiste tutta una letteratura, il cui senso è che il
rilievo dei professori segna il passaggio dall’intellettuale organico alla
politica di partito alle policies
statuali, dall’ideologia partigiana alla competenza professionale (2). L’ascesa
politica del professor Romano Prodi ne fu esempio eclatante e, nel complesso, è
certamente il centrosinistra che meglio può valersi del discorso e delle
risorse professorali e «tecniche»,
cedendo al centrodestra la demagogica pretesa di rappresentare la volontà
popolare e la politica: su questo piano non c’è gara tra Maria Stella Gelmini e
Luigi Berlinguer o Tullio De Mauro. Facile, viceversa, il sarcasmo sull’uso
politico della bellezza muliebre da parte di Berlusconi o sulle volgari
intemperanze plebee di un Bossi o di un Calderoli. Uno stile (che è anche una
sostanza) che giustamente turbano la coscienza del sincero cattolico e fanno
fremere d’indignazione l’onesto liberale, suscitando anche imbarazzo sulla
scena internazionale. Sull’altro versante è però da notare che all’ascesa della
«competenza» e della «responsabilità» corrisponde un netto declino delle
qualità ideali e umane del personale politico.
Per quel che poi riguarda la procedura di
nomina del governo «tecnico», si può dire che autentica eccezionalità, nel
senso proprio di decisione di vertice presa in condizioni eccezionali e quindi
di grande momento politico rispetto alla prassi della costituzione materiale,
furono gli incarichi conferiti dall’allora presidente Scalfaro (vicino al nuovo
centrosinistra) ad Amato, a Ciampi e a Dini: gli anni tra il 1992 e il 1996
possono a ragione definirsi come un regime
semipresidenziale di fatto, imposto dalla crisi di legittimazione prodotta
da tangentopoli e dalla conseguente destrutturazione dei partiti che avevano
governato l’Italia per quasi mezzo secolo, e poi dall’instabilità della
maggioranza di centrosinistra, regime semipresidenziale affermato anche attraverso
interventi di merito del Presidente sull’azione governativa e sulla tenuta
della maggioranza. Erano gli stessi anni emergenziali della crisi della lira, delle
frenetiche manovre per la convergenza intorno ai parametri di Maastricht, degli
accordi concertativi con i sindacati confederali: insieme alla costituzione
materiale della politica cambiava l’ancor più materiale costituzione dei
rapporti tra Stato ed economia.
Ciampi fu il primo
presidente del consiglio non parlamentare e quello di Dini fu il primo governo
costituito interamente da non-parlamentari, in gran parte neanche iscritti a un
partito. In entrambi i casi la lista dei ministri venne decisa insieme al
Presidente della repubblica; e sia Ciampi che Dini provenivano dal vertice della
Banca d’Italia: i loro potrebbero dunque dirsi governi presieduti da banchieri
delle banche (3). Ovviamente questi non erano governi tecnici, ma
non perché un ex governatore o direttore della Banca d’Italia rappresenti il
«governo delle banche». Nell’ascesa di questo tipo di altissimi burocrati si
può vedere la preminenza cui è assurta la politica monetaria nei paesi a
capitalismo avanzato e, in termini più generali, la rappresentanza del capitale nella sua totalità quale è
incarnata, appunto, dalla funzione di gestione della moneta, equivalente per
tutti e sopra tutti i singoli capitali: è questo che rassicura il mercato
finanziario e che consente la convergenza bipartitica.
Ciampi ottenne l’astensione del
Pds e della Lega nord; il governo Dini, che per composizione, modalità di
formazione e quadro dei partiti presenti in Parlamento è il più stretto
precedente del governo Monti, ottenne alla Camera l’astensione del Polo della
libertà e il favore della Lega nord, risultando però suo supporto più fedele il
centrosinistra, come oggi pare essere con Monti (sull’appoggio a Dini si ebbe
anche la scissione degli ingraiani doc, Magri, il segretario Garavini ecc., dal
Prc).
Incidentalmente: con Dini e
Scognamiglio, Monti fu tra coloro che vennero presi in considerazione come
candidati alla guida del governo già nel gennaio 1995; e nell’aprile 2001 Monti
rifiutò eventuali incarichi ministeriali sia per il centrodestra sia per il centrosinistra,
preferendo la posizione di commissario europeo (bipartico).
3. Governo delle banche? Diciamo, piuttosto, che la nomina
di Monti esprime il consenso bipartitico nella postdemocrazia italiana.
La nomina di Monti a presidente
del consiglio non è stata altro che l’ennesima conferma che Berlusconi, senza
dubbio l’animale politico più spettacolare visto in Italia e abilissimo
accaparratore di voti, non è mai stato considerato affidabile dall’establishment internazionale: non certo
per motivi ideologici o morali, ma proprio per l’insoddisfacente valutazione
delle competenze di governo della sua coalizione, specialmente per quel che
concerne la capacità di proseguire nella linea delle cosiddette riforme
strutturali riuscendo nello stesso tempo a neutralizzare il conflitto sociale,
ridurre le tensioni sulla scena politica, ottenere un sicuro consenso da parte
dei sindacati confederali. Basta aver letto The
Economist e il Financial Times
per rendersene conto.
Mentre la crisi faceva il suo corso coinvolgendo prepotentemente l’Italia,
una soluzione andava trovata, evitando l’effetto d’incertezza legato alla
convocazione d’elezioni anticipate: una soluzione apparentemente tecnica,
appunto, ma nel senso della
concretizzazione di quel consenso bipartitico esistente al di là della lotta
rappresentata nel teatro politico tra le due fazioni della casta politica
dell’imperialismo italiano. Per quel che conta il mio parere personale, non
ho mai dubitato che il quarto governo Berlusconi non sarebbe arrivato a fine legislatura;
tuttavia confesso che mi aspettavo ciò avvenisse principalmente a causa del
montare della tensione sociale. È da apprezzare, invece, la mossa che tali
tensioni mira a contenere facendo ricorso a una figura più accettabile
dall’opinione pubblica, capitalisticamente pura, libera da quel conflitto
d’interesse e da quei procedimenti giudiziari che da sempre affliggono
l’esuberante gerontocrate e fastidiosamente hanno interferito con la
concentrazione dell’azione di governo sulle questioni che interessano il
capitale nazionale e internazionale nella sua generalità.
La storia politica e intellettuale di Mario Monti ne fa l’ottima
incarnazione di un consenso ampio e bipartitico, ribadito dalla fiducia
ottenuta in Parlamento dai maggiori partiti, un uomo la cui esperienza di alto eurocrate è gradita anche al capitale
internazionale (non solo finanziario). Monti divenne commissario europeo per il
mercato interno nel 1994, su indicazione del primo governo Berlusconi; fu poi
confermato commissario (per la concorrenza) dal governo D’Alema nel 1999, nella
Commissione europea presieduta da Romano Prodi. È da ricordare che quelli erano
gli anni gloriosi della terza via di Tony Blair e Gerhard
Schröder (coalizione rosso-verde tedesca nel 1998), della gauche plurielle di Lionel Jospin, che tanto
piaceva a Bertinotti, di Billy Clinton e degli anni ruggenti (in verità al
capolinea) del «keynesismo di borsa». In Grecia il Pasok vinceva (di nuovo) le
elezioni nel 2000 e nel 2004 le vinceva in Spagna il Psoe di José Luis Zapatero, così
simpaticamente cantato da Sabina Guzzanti e tanto ingloriosamente tramontato.
Altro che destra trionfante!
Si dirà, a riprova del fatto che si tratti di un uomo delle banche, che
Mario Monti è stato consigliere per la Goldman Sachs. Ma anche Romano Prodi era
stato consigliere per la Goldman Sachs e anche per la Unilever e proprio per
questo fu a suo tempo indagato, e prosciolto; e, molto più importante, che dire
del ruolo di Prodi nella svendita del patrimonio dell’Iri, nell’entrata di Paribas
nella Comit (1989), nella privatizzazione delle banche «d’interesse nazionale»
controllate dallo stesso Iri? Quello fu un ruolo veramente storico. I meriti
così acquisiti da Prodi nei confronti del capitale internazionale fanno
impallidire anche quelli di Monti; quanto a Berlusconi, da questo punto di
vista egli è semplicemente uno zero. Furono quei meriti che valsero a Prodi la
chiamata a dirigere il nuovo centrosinistra. Parrebbe, dunque, che il buon
elettore di sinistra (4), incluso quello nostalgico del Pci, abbia per anni
votato per qualcosa non dissimile dal governo delle banche; e che Rifondazione
comunista, Pdci e Verdi abbiano per anni cercato, e ancora ricercano e non
possono non farlo se vogliono imbarcarsi in Parlamento, l’alleanza con la parte
politica nazionale più credibile per il capitale internazionale. Per
quest’ultimo punto, in effetti, le cose stanno esattamente così.
L’idea che la
nomina Monti sia una sospensione della democrazia mi pare conseguire
dall’interiorizzazione della falsa e
mistificante nozione che in regime liberaldemocratico possa esistere un
contratto fra elettori e candidati. Idea alimentata dalla firma televisiva
di Berlusconi del contratto con gli italiani, ma anche da tanta retorica
centrosinistrorsa sui pregi della riforma elettorale antiproporzionale. In
termini costituzionali questo contrattualismo non sta né in cielo né in terra
giacché «ogni
membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza
vincolo di mandato» (art. 67 della Costituzione italiana); e non occorre essere
marxisti o sovversivi per sapere che i rappresentanti eletti non rappresentano
affatto i loro anonimi elettori come può essere per un avvocato in un
procedimento giudiziario: questo è fatto acquisito in dottrina e in pratica da
un paio di secoli a questa parte, almeno da Jean-Jacques Rousseau (ma
tradizionalmente è stata la sinistra partitica ad alimentare l’illusione del
carattere rappresentativo in senso forte delle istituzioni elettive). Se poi ci
riferisce all’identificazione tra democrazia e partiti, allora bisognerebbe pur
chiedersi se non sia il sistema dei partiti ad essere l’autentico sovrano
politico che limita il potere del dèmos: e per quali interessi, politici e
sociali, di casta (burocratica) e di classe (capitalistica), ciò accada.
È vero che non
esiste un governo tecnico: il governo Monti ha ottenuto infatti la fiducia
politica in Parlamento. La tecnicità di Monti consiste nell’incarnare il
consenso ampio e bipartitico che, a sua volta, non può essere confuso con il
cesarismo o bonapartismo che si rivolge contro le opposte fazioni tradizionali.
Il problema sostanziale (e internazionale) dell’odierna democrazia
rappresentativa è invece il fatto della statalizzazione dei partiti e della
loro convergenza su un medesimo orientamento fondamentale. È questo il punto
cruciale, non il presunto colpo di Stato o la democrazia «sospesa» (ma come si
fa a sospendere la democrazia? Un regime parlamentare sospendibile non è più
liberaldemocrazia), e precede di molto l’incarico a Monti. Inoltre, come già
tra il 1992 e il 1996 (crisi della lira e della sterlina, che uscirono dal Sistema monetario europeo)
e durante la lunga manovra di convergenza per far entrare l’Italia
nell’eurozona, il governo italiano, che è pur sempre governo di uno dei
capitalismi tra i più importanti del mondo (nonostante tutto), deve cercare di
riscuotere la fiducia dei mercati. Questo è già da molto tempo nella
costituzione materiale dello Stato liberaldemocratico italiano e nei suoi modi
di articolazione con l’economia mondiale attraverso la partecipazione
all’eurozona, formalmente definiti nei trattati internazionali. Che poi la
sovranità non sia un dato assoluto è un fatto almeno dal lontano 1949, da
quando l’Italia entrò a far parte della Nato e iniziò ad ospitare sul suo
territorio testate nucleari o, ancor prima, dalla preventiva spartizione
dell’Europa tra Stalin, Churchill e Roosevelt nelle conferenze di Teheran
(1943) e Yalta (1945). Per favore, che non si caschi dalle nuvole!
La nomina del
professor Monti risulta quindi in linea con una prassi già sperimentata in
momenti critici; in quanto tale non può essere considerata come un improvviso e
determinante vulnus alla capacità
gestionale del sistema dei partiti nel suo complesso o una lesione della
costituzione materiale. Il problema è a monte e la particolarità italiana va considerata non come eccezionalità
nazionale, ma come espressione dell’evoluzione postdemocratica dei sistemi
politici dei paesi a capitalismo avanzato. Che, è vero, in Italia assume
forme e aspetti particolarmente demagogiche e nauseanti. Basta guardare i dati
sulle astensioni per rendersi conto che esiste una crisi strisciante della
rappresentatività dei partiti, che può divenire crisi di legittimità.
Che Monti riesca
nell’intento di contenere la crisi della finanza pubblica italiana è altro
discorso: ma la sfiducia degli operatori finanziari quali si esprime nel
divario (il famigerato spread) tra il
rendimento dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi non esprime una
valutazione solo sull’Italia ma sul complesso della gestione europea della
crisi. Il cosiddetto «mercato» vede bene che la direzione assunta dalla
politica economica europea è ora prociclica invece che anticiclica come
nell’infuriare della tempesta che investiva il sistema finanziario privato, che
essa spinge verso la recessione piuttosto che verso la crescita: ciò non può
che comportare la riduzione delle entrate fiscali e quindi il fallimento
dell’intera manovra di risanamento dei bilanci pubblici.
Mantenendo la
rotta attuale ciò avverrà indipendentemente dall’apprezzamento di singole
misure intraprese dal governo italiano o greco o spagnolo o portoghese.
Così come esiste
una interna contraddizione in regimi che si vogliono democratici ma che fanno del
loro meglio per mantenere le distanze tra il decision making politico e le istanze del dèmos, esiste una contraddizione tra la volontà capitalistica di
usare la crisi per rafforzare il proprio potere sul dèmos e le misure necessarie a tamponarla.
Note.
1) Alberto Asor Rosa, «Non c'è più tempo», Il Manifesto, 13 aprile 2011.
2) Ma è pur vero che degli intellettuali il Pci, il Psi o i partiti
postcomunisti hanno fatto un uso del tutto strumentale, circoscritto alla
legittimazione della politica decisa e praticata dai politici. E dopo la
stagione primo-novecentesca e lo stalinismo i dirigenti politici di sinistra
non sono più stati anche intellettuali (nel senso forte di teorici): non
avevano bisogno di unire teoria e pratica, ma d’essere essenzialmente dei praticoni. Nel caso italiano il divorzio
fra teoria e pratica è stato coperto dalla rielaborazione di Gramsci da parte
di Togliatti, che si fece forte delle ambiguità presenti in quel grande
pensatore.
3) Un precedente illustrissimo è
quello di Luigi Einaudi, economista liberista, liberale e antifascista, primo
governatore della Banca d’Italia nel secondo dopoguerra e primo Presidente
della repubblica, votato anche dal Pci. Guardando fuori d’Italia, si può
ricordare che prima di divenire direttore del Fmi Strauss-Kahn cercò di
farsi candidare Presidente della repubblica per il Partito socialista francese
e che se non fosse stato travolto dal noto scandalo probabilmente ci avrebbe
riprovato.
4) A proposito del «buon elettore di sinistra» e del centrosinistra, si veda
il secondo volume della collana di Utopia rossa, La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di
Sinistra nell'epoca del capitalismo assoluto, di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Massari editore,
Bolsena, 2007.
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