Un
dogma funzionale
Il primo libro della Bibbia - la Genesi -
contiene la narrazione in forma mitica di quello che poi le Chiese cristiane,
sulla scia di Paolo di Tarso, hanno chiamato “peccato originale” facendone -
sia pure con sfumature diverse - la causa dell’imperfezione morale degli esseri
umani. Vista in questi termini la cosa risulta del tutto assente nella
religiosità israelita, tant’è che in seguito la Bibbia ebraica (cioè quello che
per i Cristiani è il Vecchio testamento) non riprende più l’argomento e il
discorso sulle problematiche morali dell’umanità viene svolto indipendentemente
dalla cosiddetta “caduta primordiale”. Inoltre questo tema non ha mai fatto
parte della predicazione di Gesù di Nazareth. Invece, soprattutto nel
Cattolicesimo e nel Protestantesimo esso occupa un posto fondamentale, grazie
al quale Agostino di Ippona poté definire l’umanità in sé una “massa dannata”,
che senza la Chiesa e i Sacramenti non si salva e che è attesa dal rovente
calduccio dell’Inferno.
Questo mito - oltre a essere teologicamente
significativo - ha svolto un’importante funzione nella creazione di una stretta
rete di controllo ecclesiastico sulle società occidentali, proprio a motivo
della situazione di insopprimibile peccaminosità in cui, grazie a tale mito, è
stata vista l’umanità. E per salvarla le Chiese, soprattutto quelle di origine
latina, dovevano sapere, controllare, indirizzare e punire.
«In generale si può dire che, a
differenza della tradizione teologica occidentale, la quale si occupò con
particolare insistenza del peccato dei progenitori, delle sue conseguenze e
della sua trasmissone, quella orientale tratta dell’argomento solo
incidentalmente e in modo per niente uniforme. Così non si può presentare la
dottrina “ufficiale” della Chiesa orientale riguardante il peccato originale,
perché, nell’ambito di questa tradizione, non vi è stato mai un dibattito in
proposito e molto meno vi fu un tentativo di sistematizzare questa dottrina in
modo obbligatorio per tutti, in quanto nessun concilio ecumenico o sinodo
locale, tenuto in Oriente, ebbe occasione di ocuparsene».
Forse è stato Paolo di Tarso il grande
inventore del peccato originale, che si sarebbe trasmesso con la procreazione a
tutto il genere umano posteriore all’umanità primordiale; il “forse” - cioè la
mancanza di sicurezza per tale attribuzione - viene motivato più avanti.
Tuttavia è ad Agostino di Ippona - mai liberatosi dai condizionamenti del suo
passato da libertino e della sua precedente (e intensa) esperienza religiosa
manichea, altresì afflitto da vari problemi psicologici e frustrazioni - che si
deve la costruzione di un vero e proprio apparato teologico centrato sul tema
in questione.
Nell’Oriente
cristiano si esclude la trasmissione di colpa
Generalmente parlando, nell’Oriente cristiano
tra chi si pone il problema della proiezione sull’umanità dell’infortunio
nell’Eden non esiste la concezione giuridica del peccato di Adamo ed Eva
propria del Cristianesimo occidentale, e quindi diverso è il modo di
considerare i problemi conseguenti, con particolare riferimento all’opera
salvifica e di redenzione di Gesù. Opera che però viene inquadrata
indipendentemente da Adamo ed Eva. Sul predetto versante nessuno parla di
trasmissione di colpa ai posteri, e si sostiene che dopo la caduta primordiale
dell’umanità il genere umano (per il fatto di condividere l’ormai decaduta
natura dei progenitori) avrebbe perso la somiglianza con Dio, originariamente
unita all’immagine; e inoltre sarebbe venuta meno anche l’attualizzazione
dell’immagine stessa, ferma però restando la sua ineliminabilità.
Rimasta quindi a livello potenziale
l’immagine, sarà compito dell’uomo - in virtù dell’azione redentrice del Lógos - attualizzare, mediante il
battesimo, l’impronta del Dio Tri-Unitario che è in lui, e ridare vita alla
somiglianza, pervenendo così a una dimensione superiore a quella della stessa
umanità primordiale e quindi alla sua ontologica divinizzazione attraverso la
Grazia divina.
Puó essere interessante notare che una delle
più antiche Chiese cristiane, la Nestoriana, richiamandosi a un filone
dell’antica teologia antiochena respinge la credenza nel peccato originale, e
altresì nega che come conseguenza dell’uscita di Adamo ed Eva dall’Eden il
peccato sia insito nella natura umana. Nel Nestorianesimo si riscontra anche un
elemento pelagiano, nel senso che si dà maggior rilievo all’impegno umano, ai
fini della salvezza, che non alla grazia.
Chi nell’Ortodossia bizantina affronta in
termini di conseguenze l’incidente primordiale sostiene che consisterebbero in
una vulneratio/privatio, a seguito
della quale l’essere uomano non è più se stesso; e non - come afferma invece la
teologia cattolica in conformità alla concezione agostiniana - in una privatio/vulneratio. Recuperando la
Grazia con l’azione salvifica di Cristo, la persona umana può tornare
all’integralità del suo essere, alla vera libertà, intendendosi la libertà come
incorporazione della Grazia, o vivere in Dio, come prima della caduta e ben più
di allora.
Anche per tutti questi motivi l’Ortodossia non
ha conosciuto la dialettica grazia/libertà negli stessi termini dell’Occidente,
né i travagli spirituali a ciò conseguenti. Questa diversa concezione ha
portato a vedere nel Battesimo non già uno strumento per cancellare una colpa
originale che il singolo non può aver commesso, bensì un rito iniziatico di
morte-resurrezione-rigenerazione globale. In quest’ottica scompare il problema
della responsabilità dei membri dell’umanità successiva per il peccato dei
progenitori. Ci si limita a constatare che si è ereditata una natura menomata
che è idonea a condurre al peccato.
La partecipazione ontologica dell’uomo al
divino costituisce, in definitiva, sia il punto d’arrivo che il punto di
partenza della storia sacra, atteso che essa - secondo la concezione orientale
- avrebbe avuto, comunque e sempre, il suo cardine nell’incarnazione del Lógos, a prescindere da ogni caduta
originale. Da queste basi muoveva S. Atanasio, nel corso della polemica contro
Ario, per sostenere che Dio si è fatto uomo affinché l’uomo divenga un dio,
divinizzandosi per Grazia, se non per natura.
Monogenismo
e incesto nel Cattolicesimo
Chiusasi a riccio in difesa del proprio dogma
della trasmissione della colpa di Adamo ed Eva al resto dell’umanità
successiva, la teologia della Chiesa cattolica, ha ritenuto di sostenere meglio
il dogma combattendo a lungo una battaglia persa in partenza: quella contro il
“poligenismo” in antropologia. Traduciamo. I teologi cattolici,
“autorevolmente” sostenuti da pronunciamenti papali, anche se Adam è nome
collettivo, hanno difeso contro gli scienziati la tesi dell’origine di tutta
l’umanità da una sola coppia di persone (monogenismo), contro gli scienziati
che invece lo negano intendendo l’umanità primitiva come una pluralità di
persone (poligenismo). A chi osserva che in tale modo la Chiesa cattolica
implicitamente attribuisce la nascita delle generazioni successive a una serie
di incesti primordiali, i solerti teologi introducono la distinzione fra leggi
divine assolute e non assolute, inserendo il divieto dell’incesto tra queste
ultime, e non tra le prime.
Gli
esordi del dogma
L’introduzione di quello che diventerà un
elemento essenziale della soteriologia cristiana occidentale viene attribuita
dal Cattolicesimo alla paolina Epistola ai Romani (5, 12). Qui, tuttavia,
emerge un primo e non banale problema: cioè quale sia l’esatto significato del
testo greco dell’Epistola. Nella traduzione latina effettuata da S. Girolamo, e
nell’ulteriore e letterale traduzione in italiano le cose starebbero nel modo
seguente:
«(…) come per un uomo il
peccato è entrato nel mondo, e per il peccato la morte, così anche la morte
raggiunse tutti gli uomini poiché tutti peccarono».
Più sfumato appare il successivo versetto 18
della stessa Epistola:
«la colpa di uno solo si riversò su tutti gli
uomini».
Ma non si tratta dell’unica possibile
traduzione di Romani 5, 12; esiste un’altra possibilità, forse più corretta
grammaticalmente e sintatticamente:
«(…) come per un uomo il
peccato è entrato nel mondo, e per il peccato la morte, così anche la morte
raggiunse tutti gli uomini perché a causa di ciò tutti hanno peccato».
Le conseguenze di ciascuna versione sono
abbastanza chiare e diverse. L’una giustifica la tesi (dogmatizzata dalla
Chiesa cattolica) della trasmissione della colpa di un peccato personale ai
discendenti dell’umanità primordiale; una colpa commessa ancor prima di
nascere! L’altra, invece, afferma la trasmissione incolpevole di una decadenza
ereditata dall’umanità successiva a seguito del peccato personale dei
progenitori, che avrebbe fatto perdere anche ai posteri la perfezione
originaria. In entrambi i casi, però, si tratta di una novità assoluta rispetto
all’Ebraismo ortodosso.
Da Paolo in poi il ruolo salvifico di Gesù sul
piano metafisico è stato concepito in stretto nesso di collegamento (e per
Agostino di conseguenzialità) con la caduta primordiale dei progenitori; tanto
che taluni hanno posto il problema se il Lógos
si sarebbe ugualmente incarnato qualora questa caduta non ci fosse stata.
Agostino di Ippona sviluppò ulteriormente la concezione paolina, seguito dai
grandi esponenti della Riforma protestante, e infine dal Concilio di Trento che
nel 1546 sancì definitivamente il dogma per la Chiesa cattolica.
Per completezza va comunque notato che la concezione della setta ebraica insediata a Wadi Qumrān sul Mar Morto
presentava elementi, diciamo, “di tipo agostiniano”. Nei loro Inni (Hodayot
4,29-30) si legge:
«L'uomo è nell'awon (peccato) fin dall'utero»;
e l'awon non
indica la mera trasgressione. Per cui si deve dire che per i qumraniti l’essere
umano reca con sé fin dal concepimento un marchio negativo di impurità (poiché
l’awon era un aspetto dell’impurità).
La purificazione come via di uscita dall’impurità riguardava per i qumraniti i
peccati successivi, mentre per l’impurità connaturata, originaria, si ci
purificava solo con l’atto di fede implicante l’adesione alla setta.
I progenitori
Esiste poi il problema dei progenitori. Un
minimo di buon senso porterebbe a considerare la coppia Adamo ed Eva come
metafora dell’umanità primordiale nel suo complesso. D’altro canto adam nel Vecchio Testamento solo 12
volte ha il significato di nome proprio, mentre per 539 volte significa “uomo”
in senso collettivo. Già S. Gregorio di Nissa e S. Basilio consideravano Adamo
un’entità collettiva. La Chiesa cattolica, invece, in cui il fondamentalismo
letteralistico ha sovente svolto un ruolo rilevante, si è opposta a inquadrare
quel racconto nella categoria del mito, riportandolo al genere storico in senso
proprio e sostenendo, nella battaglia per il monogenismo, che
«I fedeli non possono abbracciare
quell’opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti uomini
che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come
progenitore di tutti gli uomini; oppure che Adamo rappresenta l’insieme di
molti progenitori».
Il
testo di Paolo crea comunque problemi
Ad ogni modo non è priva di difficoltà nemmeno
la seconda possibile versione del testo paolino. Se da un lato esclude
l’aberrazione insita nella tesi della trasmissione della colpa, tuttavia da un
altro lato - venendo a sostenere il “contagio metafisico” ai danni dell’umanità
successiva - implicitamente assume il racconto su Adamo ed Eva come relazione
di fatti realmente accaduti. E inoltre se si abbandona - come è necessario fare
- la tesi monogenistica, resta non spiegato e inspiegabile il fatto del
coinvolgimento collettivo di tutta l’umanità primigenia nel peccato
originale.
Logica a parte, si può aggiungere che le
scienze moderne non offrono alcuna possibiltà di individuare un’epoca della
storia del pianeta Terra in cui collocare in senso fisico il “Paradiso
terrestre” di Adamo ed Eva; né la preistoria ci hai mai offerto tracce di una
preesistente età dell’oro di quel tipo.
Analizzando
il mito veterotestamentario
Si accennava in precedenza all’estraneità
della concezione del peccato originale rispetto alla religiosità ebraica.
Ebbene, non solo nel Vecchio Testamento,
dopo la narrazione della Genesi non se ne parla più; ma un’analisi attenta
dello stesso testo in cui si parla di questo episodio presenta delle
sorprese. La prima di esse è che Dio non
accusa di peccato i reprobi: invece affronta “alla larga” la questione della
loro disobbedienza, chiedendo chi mai avesse detto loro che erano nudi (infatti
avevano scoperto la loro nudità subito dopo la disobbedienza). E quando viene
fuor che la disobbedienza è stata istigata dal serpente, è su di esso che
ricade la maledizione divina.
In realtà la vera valenza della storia di
Adamo ed Eva, ovvero la sua validità, sta nell’intenderla come narrazione
mitica e metatemporale. Se al mito diamo - come correttamente è - il carattere
di “storia esemplare”, o archetipica, è facile comprendere che la Genesi tratta
di una caduta niente affatto protostorica, bensì di un evento sperimentabile e
sperimentato durante la vita di ogni essere umano. Questo mito dice all’homo religiosus che l’affermazione
dell’autonomia cognitivo/esistenziale da parte dell’essere umano nei confronti di
Dio, la sua pretesa di attingere alla determinazione del bene e del male
indipendentemente dal nesso creaturale che lo lega al divino, ne spezza il
rapporto di comunione, anche ontologica.
Il “peccato originale” consisterebbe allora
nell’assunzione del proprio “io” come valore autonomo e unico punto di
partenza; nel fare della propria egoità l’elemento di rottura del “noi” di
comunione col divino. E in quest’ottica, come peccato esso è effettivamente
“originale”, giacché per la sua portata diventa la base o l’origine di tutti
gli altri.
Si tratterebbe, allora, di un mito ebraico
espressione di un dato comune a tutto l’universo religioso umano: vale a dire
la dimensione religiosa come cammino verso l’unità col divino una volta
superata la negatività illusoria dell’autonomia dell’io, che produce morte
spirituale e non vita. Il mito della Genesi riecheggia un altro tema ricorrente
nelle religioni dell’umanità, quello dell’Età dell’oro. Anche qui la cosa più
facile, ma meno proficua, consisterebbe nel ritenere che questa immagine voglia
rappresentare una fase dell’umanità temporalmente determinata, sia pure a
livello prestorico, e non già una situazione conseguibile nello stato di
perfezione spirituale. L’età dell’oro, cioè, più come dimensione - che come scenario
- in cui si inserisce colui che è “amico di Dio”; o, per dirla alla maniera
ebraica, il “giusto”.
Agostino
contro Pelagio
Intendere il racconto su
Adamo ed Eva come ricordo dell’evento “peccato originale” è senz’altro comodo
per giustificare l’esistenza del male, almeno apparentemente. In questo modo si
evita che esso non venga fatto risalire a Dio ma all’umanità; o meglio, alla
situazione decaduta trasmessale, comunque sia, dai progenitori. Apparentemente,
però. Non è un caso che uno dei più accesi sostenitori del “peccato originale”
sia stato il più famoso degli ex manichei, il vescovo Agostino di Ippona che si
mise alla testa di una violenta reazione contro la prima “eresia”
dell’Occidente cristiano, il pelagianesimo, dal nome del bretone Pelagio (350-423).
Costui scrisse due libri sul peccato, la grazia e il libero arbítrio. Accusato
di eresia, fu assolto dal sinodo palestinese di
Dióspolis nel 415, ma venne condannato dal vescovo di Roma nel 417, e poi dal concilio di Efeso nel 431.
Le sue teorie innescarono una controversia
durata un quarto di secolo (410-439): egli negava il peccato originale,
partendo dal dato oggettivo del libero arbitrio umano per valorizzarne la
capacità di scegliere tra bene e male in base alla ragione, facoltà
privilegiata donatagli da Dio. È su questa libertà che Pelagio nella Lettera a Demetriade fondava la dignità
umana, e coerentemente rifiutava l’esistenza di colpe originali, rivendicando
al volere dell’essere umano la possibilità di evitare il peccato o di
commetterlo. Pelagio, uno dei primi martiri del libero pensiero in epoca
cristiana, fu messo a morte per eresia insieme ad alcuni discepoli.
Vale la pena di ricordare che uno dei
discepoli di Pelagio, il vescovo Giuliano di Eclano, scontrandosi con Agostino
riguardo alla sessualità, rifiutò la tesi agostiniana della concupiscenza come
frutto del peccato originale, vedendo invece nell’attrazione sessuale una forza
vitale che spetta poi alla razionalità umana moderare nel suo esercizio. Il
pelagianesimo comportava infatti anche la valorizzazione del corpo, dimostrando
così di sfuggire al condizionamento di quel Neoplatonismo che tanta influenza
ha esercitato sul Cristianesimo antico devalorizzando corporeità e sessualità
per il fatto di considerare la materia prigione dell’uomo. Da qui a considerare
la materia anche fonte di male il passo era (ed è stato) breve.
Sconfitto il Pelagianesimo, soprattutto in
Occidente il Cristianesimo occidentale sarà dominato dal pessimismo
antropologico di matrice agostiniana, il cui epigono sarà il Giansenismo.
Un
dogma scomodo e le interpretazioni in psicologia e psicanalisi
Si deve rilevare che anche nella
dogmaticamente rigida Chiesa cattolica quella del peccato originale è una
questione di cui i teologi più avveduti farebbero volentier a meno. Un teologo
gesuita che negli anni della “Chiesa conciliare” andò per la maggiore, Karl
Rahner, per salvare il salvabile effettuò una specie di “retrocessione
prospettica” nel modo di concepire questa tematica. Sostenne infatti che il
racconto della Genesi parla della nostra situazone attuale di libertà;
situazione nella quale coesistono caduta e grazia divina, che non viene
trasmessa a partire dall’inizio dell’umanità, bensì dalla fine della storia.
Per dirla con un altro gesuita, Gustave Martelet, la cosiddetta “caduta
originale” va considerata il “peccato attuale”, proiettato parabolicamente
all’inizio della storia.
Un peccato attuale presentato come “primo peccato”.
Ha infine sottolineato la psicanalista Marie
Balmary, nei suoi studi sul problema,
che Dio non accusa di peccato Adamo ed Eva, e che anche la natura dell’atto di
disobbedienza che fa uscire i progenitori dall’Eden deve essere ben compresa:
la proibizione di mangiare frutti dell’albero del Bene e del Male non implica
una deminutio per l’essere umano il
quale, fatto a immagine e somiglianza di Dio, è chiamato a realizzare la sua
divinizzazione. Implica semmai l’apposizione di un limite differenziale da
tenere presente: Dio è Dio e l’essere umano una sua creatura. Mangiare il
frutto dell’albero, in violazione del divieto - e quindi far entrare il frutto
nella propria interiorità, appropriarsene, assimilarlo - vuol dire che si
intende eliminare la suddetta differenza, che non si vuole più con Dio un
dialogo in comunione. Ma Adamo ed Eva non erano del tutto consapevoli della
portata di quello che avevano fatto, e Dio non li maledice, nè nella narrazione
successiva i progenitori appaiono nello stato decaduto che invece ci
aspetteremmo in base alle teorizzazioni ecclesiastiche su un “peccato
originale” che non è mai avvenuto.
Non può essere trascurata neppure
l’interpretazione data da Jung a ciò che chiamava la leggenda del peccato
originale, vedendovi operare il sentimento dell’emancipazione della coscienza
dell’io come atto luciferino.
Per finire una citazione. Che il peccato
originale presenti aspetti problematici tempo fa lo riconobbe addirittura un
rigido custode del dogmatismo cattolico, un personaggio tutt’altro che
tacciabile di modernismo: il cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Santo Uffizio). Nel 1985
riconobbe
che al riguardo esistevano
«difficoltà teologiche e
pastorali»
e considerò “modificabile” il modo di
esprimere quella tematica, pur facendo presente la necessità di procedere con
molta cautela, perché le difficoltà in gioco non erano solo linguistiche, ma di
natura più profonda. Natruralmente poi non se n’è fatto nulla, nemmeno durante
il suo papato.
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