TRIONFALISMI E PREOCCUPAZIONI IN SANTI
“IDEOLOGI”: ESEMPI DA
OCCIDENTE E ORIENTE
Introduzione
Un discorso critico sulla santità non può prescindere dal fenomeno di
quelli che possiamo considerare “Santi ideologi”, e non solo teologi. Ci
rendiamo conto della sottigliezza della distinzione qui introdotta, e forse
della discutibile precisione del termine “ideologo”; tuttavia non ne abbiamo
trovati di migliori per indicare quanti abbiano elaborato sistemi di pensiero
la cui portata vada al di là della sfera speculativo/teologica, in quanto
finiscono con l’incidere sul modo di essere e sull’agire della Chiesa di
appartenenza, tra le insidie e le lusinghe del mondo, cosicché hanno una
rilevanza “politica”, in senso ampio.
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Iosif Volokolamskij
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Siamo pure consapevoli della possibilità di raggruppare i Santi di questo tipo secondo
classificazioni ispirate a più criteri, ma in questa sede abbiamo scelto quello
del trionfalismo contrapposto alla preoccupazione spirituale per i cosiddetti
“andazzi correnti”.
Poiché in questa ottica non c’è la necessità di soverchi chiarimenti sui
“Cristianesimi sconosciuti” da chi proviene da ambienti di matrice cattolica,
questa volta possiamo parlare anche di Santi ortodossi, cioè dell’Oriente
cristiano che ha fatto propria la teologia bizantina (che storicamente precede
quella della Chiesa di Roma) e l’ha ulteriormente sviluppata: nella specie si
tratta della Chiesa russa. Naturalmente, sull’opposto e conflittuale versante,
si è dovuto collocare il Santo cattolico considerabile il principe degli
ideologi trionfalisti: Tommaso d’Aquino. Per comodità cominciamo da lui.
Il nobile Tommaso, non a caso membro dell’ordine dei Domenicani, è noto
come autore della monumentale Summa
Theologiae. L’essere poco o per niente conosciuta dalla gran massa dei
laici (cattolici, agnostici, atei o di altre religioni) è solo segno di una
grave colpa culturale, in quanto si tratta - oltre che di opera filosofica di
rilievo - di uno strumento fondamentale per la comprensione della fenomenologia
religiosa del Cattolicesimo, insieme ai maggiori scritti di Agostino di Ippona
(qui l’autore del testo confessa un atto di ribellione in quanto, secondo le
regole redazionali, avrebbe dovuto premettere “San” a questo nome, ma la
ripugnanza è tale che ha preferito la dissidenza).
L’Aquinate e l’aristotelismo
Difficilmente a Tommaso d’Aquino può essere tolto il rango di
ideologo-principe della religiosità dell’Europa occidentale cattolica, e per
vari motivi. In primo luogo egli ha inquadrato in un sistema organicamente
strutturato la totalità del pensiero teologico della Chiesa di Roma: la stessa
dogmatica anti-Riforma del Concilio di Trento, pur se di gran lunga successiva,
si inserisce nello schema tomista.
Inoltre egli ha voluto fornire la giustificazione filosofica di tutto lo
scibile religioso della Chiesa di Roma (che all’epoca aveva sostanzialmente
completato il suo processo di specificazione religiosa e comportamentale,
risultando ormai una realtà diversa rispetto al Cristianesimo orientale -
ortodosso e non, tant’è che i successivi casi di unione fra Roma e spezzoni
della cristianità orientale sono avvenuti nel segno del mantenimento delle
liturgie proprie, ma con accettazione piena della teologia latina: vale a dire,
con l’abbandono della propria).
L’opera di Tommaso d’Aquino, con quelle caratteristiche, non poteva non
egemonizzare la teologia cattolica e porre in condizione di minorità le altre
correnti di pensiero (come ad esempio il filone del francescanesimo). In fondo,
dopo Tommaso, restava assai poco da dire; e per dirlo “bene” diventava
necessaria l’inquadrabilità nel sistema tomista. Dopo di che l’altro grande
teologo è stato, forse, solo il dimenticato Theilard de Chardin, a lungo
sospettato di eterodossia spinta: buon per lui il non essere nato in epoche più
pericolose per il libero pensiero.
La forza speculativa dell’Aquinate è stata di tale rilevanza da lasciare
tracce anche nella Riforma protestante (per i Cristiani orientali le matrici
cattoliche del Protestantesimo sono evidenti). Questa grande egemonia, però, è
stata negativa per la stessa Chiesa cattolica e per la cultura occidentale. I
motivi non mancano.
Salta subito all’attenzione la dipendenza strettissima del tomismo dal
pensiero di Aristotele, e quindi anche dell’enorme corpus dogmatico realizzato con il ricordato Concilio di Trento.
Una volta venuta meno l’incidenza culturale (propria e/o imposta) del sistema
aristotelico, a stretto rigore tutta la giustificazione categoriale della vasta
dogmatica cattolica dovrebbe essere “filosoficamente” ripensata e rifondata,
risultando oggi speculativamente poco convicenti i ragionamenti che la
supportano.
La dipendenza dall’aristotelismo, inoltre, è stata di ostacolo alla
comprensione di elementi fondamentali delle teologie sviluppate nelle Chiese
d’Oriente, e delle corrispondenti realtà operative, prive di basi aristoteliche
e quindi di segno ben diverso dal tomismo. Nella storia dei rapporti
(conflittuali) fra Roma e il mondo ortodosso è diventato paradigmatico
l’insanabile contrasto fra il tomista Barlaam di Calabria e l’ortodosso S.
Gregorio di Palamás sulla mistica esicastica1. Qui ci fermiamo: chi
intenda approfondire ha a disposizione decine e decine di libri.
Né può tacersi il ruolo negativo, sul piano dello sviluppo scientifico
europeo, esercitato dalla teologizzazione dell’aristotelismo implicitamente
compiuta da Tommaso d’Aquino. Al riguardo la vicenda di Galileo Galilei è tanto
nota e illuminante che non mette conto parlarne.
Ma l’approccio critico non si esaurisce a questo; esso va esteso proprio
all’enorme sforzo speculativo di Tommaso in sé, cioè al voler dare alla
dogmatica cattolica una giustificazione filosofica razionale tale da essere suo
fondamento e inespugnabile barriera difensiva: cioè una “messa in sicurezza”
difficilmente oltrepassabile. Proprio con questo, tuttavia, l’Aquinate ha
aperto due prospettive negative per la sua opera.
La prima consiste proprio nella scelta del metodo puramente filosofico.
Questo scendere sullo stesso terreno della “concorrenza” razionalista ha
esposto la costruzione del tomismo al fuoco incrociato di quanti - usando lo
stesso metodo ma non condividendone le conclusioni - disponevano e dispongono
di adeguati strumenti di attacco. Purtroppo la storia della filosofia insegna
che nessuna tesi filosofica ha resistito alle confutazioni. E oggi presentarsi
armati del bagaglio concettuale tomista significa preferire la balestra
dell’antenato all’arma da fuoco. Come notava Bertrand Russell (e non solo),
pretendere di dimostrare more geometrico
assunti metafisici è un non-senso; senza tacere che per quanti si pongono del
tutto fuori dalla dimensione religiosa le stesse asserzioni metafisiche sono
prive di senso.
All’interno della sfera religiosa la necessità di tanti filosofemi resta
ancora da dimostrare, tant’è che nell’Oriente cristiano il teologizzare in modo
parafilosofico è ridotto al ruolo di disegno di una mappa, che mai corrisponde
al paesaggio: il cammino appartiene all’apofatismo2 mistico.
La riduzione al minimo, o addirittura l’inesistenza di spazio per la
filosofia è attestata dal modo in cui venivano effettuate anticamente le prime
dogmatizzazioni cristiane, come per esempio il fatto di definire Dio “essenza
superessenziale”, che cortocircuita qualsiasi approccio filosofico e avrebbe
fatto impazzire Aristotele con l’implicato gioco della antinomie.
Una parentesi di
antropologia religiosa
L’ulteriore conseguenza negativa del tomismo (in fondo derivante dalla
prima) è lo spostamento dell’ottica riguardante le asserzioni metafisiche. Per
capirci dobbiamo aprire una parentesi. L’antica antropologia cristiana
concepiva l’essere umano come l’unione (“sinolo”) di tre elementi: corpo, anima
e spirito; e vedeva nello spirito (e non nell’anima razionale) l’organo - per
così dire - di apertura/collegamento con la realtà metafisica, ovvero il
ricettacolo del sacro. Parlando invece Tommaso di solo anima razionale, altresì
sortiva l’effetto (involontario ma reale) di una desacralizzazione a tutto
campo, giacché in nessun contesto religioso umano l’esperienza del sacro è un
fatto razionale.
Per chi non sia religioso, poco male. Ma per tutti gli altri (cristiani e
non) si tratta di una deminutio, con
conseguenze pratiche. Infatti, “spiegare” a grossi termini un “mistero
metafisico” lascia spazio al credente (e lo incentiva) a viverlo misticamente;
ma se lo stesso mistero viene ingabbiato negli schemi concettuali della
spiegazione razionale, allora perde di forza. Un po’ come accade nella
definizione di Dio data dalla catechesi cattolica, in termini di “essere
perfettissimo”, mentre per qualsiasi religione sviluppata è patrimonio comune
il considerare l’essere soltanto come la prima determinazione concettualmente
possibile dell’Assoluto.
Nelle altre grandi religioni dell’umanità (Induismo, Buddhismo, Taoismo,
Giudaismo, Cristianesimo orientale, Islamismo) sono ben noti i due livelli su
cui deve muoversi l’homo religiosus:
al livello più basso (in greco è definito “catafatico”) ancora si usano parole
e concetti come introduzione al mistero, mentre nel livello superiore
(apofatico) si va al di là di essi per avere l’esperienza mistica (cioè
segreta) del mistero, non riferibile a parole. Ma sta di fatto che dal
tentativo di parlare di tale esperienza - fatto da un induista come il grande
Shankaracharya, o da un lama tibetano, o da un monaco cristiano orientale
- per quanto espresso con le categorie
tipiche del proprio retroterra religioso, risulta che in fondo si è avuta la
stessa esperienza. Cioè a dire, non esiste proposizione teologica che non abbia
il mero valore strumentale di una mappa simbolica; il paesaggio da guardare e
vivere, però, è ben altra cosa.
Esiste infine lo spazio per una considerazione non secondaria, che però qui
possiamo solo accennare, sia per non appesantire, sia per non andare fuori
tema. In buona sostanza, Tommaso d’Aquino ha fatto propria e motivato la
teologia trinitaria di Agostino d’Ippona, la quale ha pesanti ricadute
“politiche” all’interno della Chiesa cattolica: anche da essa deriva che la
pietra angolare di questa Chiesa sia essenzialmente cristica, più che
equilibratamente trinitaria; tant’è che la pretesa di potere del Papa di Roma
viene sintetizzata nel titolo di “vicario di Cristo”. Tra le altre cose questo
leva spazio al pericoloso fenomeno dei “carismatici”, che invece esiste
nell’Oriente cristiano. Si pensi allo staretz
Zosima de “I fratelli Karamazov”: figura di grande prestigio e autorità
spirituale, egli non aveva rango sacerdotale, ma riconoscendo in lui il popolo
la presenza dello Spirito di Dio - cioè considerandolo un essere “pneumatico” -
in fondo la sua forza spirituale era maggiore di quella di un vescovo.
Questa notazione porta vicino a un tema che in questa sede non può essere
trattato a motivo della sua complessità: il nesso funzionale tra i principali
dogmi cattolici e la creazione di un centro monarchico di potere sulla Chiesa. Forse un giorno ne
parleremo.
Due casi emblematici
dall’Oriente: Nil Sorskij e Iosif Volokolamskij
Trattiamo qui di due Santi ortodossi di grande importanza ideologica per i
riflessi “politici” del loro pensiero, sia diretti sia “obliqui”. Li trattiamo
perché pur risalendo al lontano XV secolo il contrasto fra loro, gli effetti
della vittoria di uno di essi si sono mantenuti e appesantiti fino al 1917, se
non addirittura oltre, pur nel diverso contesto materiale determinato dalla
vittoria bolscevica. Si tratta di S. Nil Sorskij (1433-1508) e S. Iosif
Volockij o Volokolamskij (1439-1518). Il fatto che entrambi risultino
santificati non deve ingannare: il vincitore - Volokolamskij - fu lestamente
santificato dalla gerarchia ecclesiastica russa, ma oggi è (giustamente) privo
di devoti; il soccombente - Sorskij - assurse invece agli onori degli altari
solo nei primissimi anni del ‘900 ed esclusivamente per la grande spinta popolare:
e a tutt’oggi sono molti i suoi devoti.
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Nil Sorskij
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Trattare di questi due esponenti della Chiesa russa riporta a una fase in
cui - dopo l’indebolimento causato dalle invasioni tartaro/mongole (dal 1223),
che avevano assoggettato ma non distrutto le entità politiche locali -
proveniva dal Principato di Mosca una spinta costante alla creazione di una
nuova Russia, incentivata dal duplice
fatto di essere ormai l’unica forte realtà cristiana ortodossa non
dominata direttamente dagli “infedeli” e di ambire a qualificarsi come “Terza
Roma (e una quarta non ci sarà)”. Ciò non tanto nel senso di avere raccolto
l’eredità di Bisanzio, quanto nel senso di averne addirittura preso il posto.
Durante questa fase di riscossa contro l’ondata asiatica e di costruzione
di un nuovo assetto sociale ed ecclesiastico, in un’epoca in cui si
identificavano (o si intrecciavano strettamente) la cultura secolare con quella
religiosa, un ruolo ideologico fondamentale fu svolto dalle due maggiori
correnti che si contrapponevano all’interno della Chiesa russa, incarnate da
due monaci, personaggi diversissimi fra loro: Nil Sorskij e Iosif
Volokolamskij.
Sorskij era uno spiritualista i cui interessi si incentravano sulla vita
monastica ma, se la sua concezione della Chiesa avesse vinto, sia pure per via
obliqua i suoi seguaci avrebbero potuto determinare per la società russa un
cammino diverso da quello poi intrapreso, e senza tentennamenti, a seguito
della nefasta vittoria di Volokolamskij.
Nil Sorskij era contrario al possesso di ricchezze da parte dei monasteri e
predicava che i monaci dovessero vivere esclusivamente del proprio lavoro.
Inoltre nel suo sistema di pensiero, nel complesso ispirato allo spirito di
libertà, non solo l’etica del lavoro era potenzialmente un cemento sociale
unificante, ma altresì era contrario alle persecuzioni inquisitoriali contro le
dissidenze (quelle religiose diventavano subito anche politiche). Fautori della
mancanza di tolleranza erano invece Volokolamskij e seguaci (alla maniera dello
spagnolo Torquemada).
Volokolamskij, all’opposto di Sorskij, fu un innovatore perverso
all’interno del mondo ortodosso, in quanto teorico appassionato del più totale
assolutismo del signore di Mosca (da lui considerato, in definitiva, non
giudicabile nemmeno da Dio), della sua sovrapposizione anche alla Chiesa e
della più violenta persecuzione contro i dissidenti, anche se pentitisi. Fu lui
il vincitore dello scontro con Sorskij, pur non potendo giungere al completo
annientamento degli avversari. Sta di fatto che la società russa fu modellata
come služiloe gosudarstvo (stato di
servitù) sulle basi ideologiche poste da Volokolamskij: situazione in seguito
radicatasi nella mentalità del russo “medio”.
La sconfitta di Sorskij nella Chiesa russa portò anche a due ulteriori
effetti: passò in secondo piano la libera vita spirituale interiore a scapito
della ritualizzazione esteriore e cristallizzata; si ebbe la diffusione massiva
del convincimento che fosse già attuato - o almeno facilmente attuabile - il
fine religioso/spirituale che invece esisteva solo in potenza e con tutta una
serie di difficoltà per l’attualizzazione. Da qui il mito della “Santa Russia”
(sorto appunto nel XV secolo). Fino al secolo XX si sarebbe svolto in Russia lo
scontro fra fautori del tradizionalismo e della cristallizzazione liturgica e i
fautori dell’utopia a portata di mano, o addirittura già realizzata. Il che si
è tradotto nel veleno della presunzione, e quindi nell’incomunicabilità con
l’esterno. Oltre che in un bagno di sangue di proporzioni immani e nel regno
del terrore.
Si dirà: ma è assurdo attribuire al pensiero di un monaco del XV secolo la
responsabilità della feroce autocrazia russa (nelle due forme - religiosa e
atea - conosciute tragicamente dai popoli dell’impero zarista)! L’obiezione da
contrapporre è che l’azione congiunta del pensiero di Volokolamskij e del
potere statuale/ecclesiastico (che l’ha fatto proprio e imposto al paese) è
effettivamente riuscita a plasmare nel corso del tempo una mentalità diffusa di
segno conforme, anche se non (ovviamente) idonea a impedire dissidenze e
rivolte, e fino agli eventi rivoluzionari del ’17 e oltre. D’altro canto una
radicata mentalità di massa - quale che sia - non muta dall’oggi al domani,
come dimostra lo stato della religione in Russia oggi, dopo i baldanzosi e
speranzosi anni dell’ateismo di Stato e delle cattedre universitarie di Ateismo
Scientifico.
L’Aquinate e Volokolamskij:
due santi più affini di quel che sembra
L’accostamento tra i due pensatori nel titolo di questo paragrafo ha il suo
significato alla luce della lectio
filosofica di Edmund Husserl (1859-1938), in quanto per verificare se fra i due
vi sia o no un nesso, una qualche affinità non immediatamente riscontrabile, è
necessario mettere fra parentesi tutti gli elementi contingenti e/o di
dettaglio, restringendo la conoscenza fino a individuare - se ci sono -
elementi, strutture, forme tipiche e altro in grado di accomunarli. Una
siffatta “riduzione fenomenologica” effettivamente porta a collocare Tommaso e
Volokolamskij nell’ambito della stessa categoria in rapporto alla vita
ecclesiale.
L’essenza che li accomuna è data dall’aver fornito entrambi - al di là di
tutte le differenze di epoca, di cultura, di contingenza storica ecc. - la
linfa per concezioni autoritarie nella vita della Chiesa di appartenenza. A
prima vista non si avrebbe una tale impressione, perché la posizione di
Volokolamskij è caratterizzata da una sincerità sfociante nella brutalità e
nella rigidità formale. Paragonabile - se si consente la metafora - al colpo
tagliente dello knut3 di un cosacco dello zar. La posizione
di Tommaso - che oltretutto, a differenza del monaco russo, s’incentra su
questioni filosofico/teologiche - non appare immediatamente come tale, ma
riflettendoci meglio è come se si trattasse di uno spesso e morbido velluto su
un pugno di ferro. Vediamo perché.
Volokolamskij avrebbe considerato un dono del cielo avere un Tommaso d’Aquino slavo a sua disposizione. Ma
ci pensiamo? Un teologo che sforna una monumentale e sistematicamente completa
opera con la pretesa (non infondata) di esporre in termini definitivi (con
tanto di come e perché) la sfera totale dell’ortodossia religiosa, per
Volokolamskij sarebbe stato il massimo per realizzare una solida chiusura
ideologica e avere lo strumento-principe per l’investigazione dei dissidenti o
sospetti tali. In genere si riflette poco sull’importanza dell’opera
dell’Aquinate nell’azione liberticida dell’Inquisizione cattolica: alla luce
del tomismo c’era poco da svicolare in filosofia e teologia. Spesso e
volentieri sono gli eventi successivi a spiegare quelli passati; e nel caso
nostro appare assai illuminante (non solo che Tommaso sia diventato il teologo per antonomasia della Chiesa
romana) quanto scrisse secoli dopo (nel 1885) papa Leone XIII:
«L’allontanarsi dalla dottrina
del Dottore Angelico è cosa contraria alla Nostra volontà, e, assieme, è cosa
piena di pericoli. (…) Coloro i quali desiderano di essere veramente filosofi,
e i religiosi sopra tutti ne hanno il dovere, debbono collocare le basi e i
fondamenti della loro dottrina in S. Tommaso d’Aquino».
Vero è che nel 1916, sotto papa Benedetto XV la Congregazione degli Studi
cercò di stemperare quella rigida posizione, dando alle tesi tomiste il
significato di
«regole sicure di
direzione intellettuale».
Tuttavia questo significa (e nei tempi bui dell’Inquisizione ha
significato) : “attenzione, se ti stacchi dal tomismo - che oltre a sollevarti
dall’incombenza di pensare - è l’unica strada veramente sicura per non uscire
dal seminato, se poi compi svolte eterodosse (volute o no) non ti stupire se
poi a te penserà il Santo Uffizio”. Il recente caso della Teologia della
Liberazione ha dimostrato che - pur senza accendere roghi - gli strumenti non
mancano.
In definitiva Tommaso d’Aquino ha fornito un consistente e adeguato strumento
ideologico - difensivo ma anche offensivo - a una Chiesa gestita da una
monarchia teocratica assoluta (elettiva, ma assoluta), in cui la corporazione
del clero nel suo insieme si è autonominata “Chiesa docente” (dalla quale cioè
i laici - la “Chiesa discente” - hanno solo da imparare); una Chiesa che in
campo dogmatico - grazie anche al sistema filosofico/teologico onnicomprensivo
di Tommaso - a Trento ha poi dogmatizzato tutto il possibile, sì da togliere
spazi a quella libertà di opinioni teologiche che nel Cristianesimo orientale
bene o male è rimasta essendo ben scarsi i dogmi esistenti.
Volokolamskij non dispose di una simile figura, e non era in grado egli
stesso di supplire a essa; ma quand’anche fosse stato il contrario, lui e i
suoi - pur con tutte le usurpazioni di potere ecclesiale effettuate - avrebbero
dovuto pur sempre fare i conti con alcuni fattori: con un’organizzazione
ecclesiale in cui il potere supremo della Chiesa spetta al Concilio ecumenico
(che però è tale se e quando a posteriori
venga riconosciuto dal corpo ecclesiale come esatto portavoce della Chiesa);
con la insopprimibile presenza dei vari carismatici e dei loro seguaci non
ostacolabili con strumenti teoretici; con la refrattarietà dell’Ortodossia ad
assoggettarsi a impianti teologici sistematici. Vero è che in quel tempo -
trovandosi le altre Chiese ortodosse alle prese con i loro problemi ottomani -
i potenti della Chiesa russa avevano campo libero per ogni illegittimità e
usurpazione ecclesiale, ma non era certo Josif Volokolamskij a poter conferire
a ciò un vero e imperituro fondamento accettabile da tutti gli Ortodossi.
1 Esicasmo - dal greco ησυχασμός (issychasmós, nella pronuncia bizantina e
moderna, ησυχία, issychía, calma, pace, tranquillità - indica
una pratica ascetica e la dottrina teologica che la sostiene, vigente tra monaci
e laici dell'Oriente cristiano ortodosso fin dall'epoca dei primi eremiti, detti
"Padri del deserto" (IV secolo). Essa è ancor viva nel mondo
ortodosso. Si tratta di una sorta di yoga cristiano: realizzare la quiete
interiore con apposite pratiche anche respiratorie, per poi aprirsi all'unione
col divino in corpo, anima e spirito, fino ad accogliere in sé la luce dello
Spirito Santo (o luce taborica), realizzando con ciò la divinizzazione integrale
dell'essere umano (θέωσις, théosis) per la grazia di Dio.
2 L'apofatismo (dal greco από φημι, ovvero “lontano dal dire”) indica la fase in cui la conoscenza/unione col divino (di cui
"essere" è solo la prima determinazione possibile per la ragione) si
realizza nel silenzio, prescindendo da concetti e categorie filosofiche,
mediante il fattore insito nell'essere umano che nel linguaggio religioso è
detto "spirito" e in quello più laico "intuizione
intellettuale". Questa fase viene dopo quella "catafatica", in
cui si usano ancora i concetti razionali, salvo poi passare alla cosiddetta
teologia negativa, in cui si dice ciò che Dio non è. La fase catafatica
equivale a tracciare una specie di "mappa" metafisica, mentre in
quella apofatica si dovrebbe vedere il "paesaggio".
3 Staffile formato da strisce di cuoio intrecciate e terminanti con
punte di ferro a gancio.