1. Un esempio del processo decisionale postdemocratico: la garanzia del
governo irlandese sulle banche.
Tra la
sera del 29 e il primo mattino del 30 settembre 2008, giusto a due settimane
dalla bancarotta della Lehman Brothers e dall’inizio del terremoto finanziario,
il governo irlandese prese la decisione di offrire una garanzia
pubblica su tutte le passività di tutte le banche del paese. L’urgenza era
determinata dall’imminente tracollo della Anglo Irish Bank, che fu poi nazionalizzata
a metà dicembre 2009.
Secondo
il giornalista Simon Carswell che ne ha ricostruito la vicenda, quella
fu «la più importante decisione politica presa da un governo irlandese» (1),
tale da impegnarlo per l’equivalente di circa tre volte il
prodotto interno e dieci volte il debito pubblico del momento. Iniziava così il
processo di socializzazione dei costi del salvataggio del sistema finanziario
privato dell’Irlanda, nonché dei creditori esteri, che ha ipotecato il futuro
dell’intero paese, come sancito dall’accordo internazionale stipulato nel 2010.
Più precisamente, ad essere ipotecati sono l’occupazione, i salari, le pensioni
e i servizi pubblici dei comuni cittadini irlandesi, per molti anni a venire
(2).
Nonostante
la sua straordinaria importanza la decisione di garantire tutte le passività
venne presa da un gruppo ristretto, in tutto una dozzina di persone: il primo
ministro, il ministro delle finanze, l’attorney general, il governatore della banca
centrale, alcuni alti funzionari; nelle stesse ore questo gruppo ebbe
consultazioni con l’agenzia di rating Merrill Lynch e i massimi dirigenti (presidenti e Ceo) della Anglo Irish Bank e della Bank
of Ireland. L’approvazione degli altri membri del governo venne
ottenuta telefonicamente. Prima delle sei del mattino venivano informati il
primo ministro del Lussemburgo, allora presidente del Eurogruppo, e il ministro
delle finanze francese Christine Lagarde, a capo
dell’Ecofin dell’Unione europea, ora direttore generale del Fmi. La decisione
venne resa pubblica alle 6,45 e poi ratificata dal parlamento, con 124 voti a
favore e 18 contrari: a favore votarono anche il principale partito
d’opposizione, il Fine Gael, e il Sinn Féin,
paladino dell’indipendenza irlandese.
Questo è
solo un esempio di come, nelle moderne «democrazie rappresentative», decisioni
politiche di grande impegno possano essere prese prescindendo dalla consultazione
dei rappresentanti del «popolo (presunto) sovrano» e mettendo le istituzioni
parlamentari di fronte a fatti compiuti e ad accordi internazionali che, si
dice, non possono che essere accettati. Per quanto riguarda il processo
decisionale si tratta del risultato della combinazione di due tendenze storiche, di lungo periodo.
Cronologicamente,
la prima è quella della disciplina di partito nella sua applicazione ai gruppi
parlamentari. Più degli altri, di essa erano
specialmente orgogliosi i socialisti, almeno come ideale normativo: era uno dei
modi di essere del partito «di massa» proletario opposto al partito
parlamentare e borghese di notabili. L’esperienza storica dice però che la
disciplina di partito può essere lo strumento attraverso il quale viene
rovesciato il rapporto tra mezzi e fini: fu il senso sacrale della disciplina a
far sì che il 4 agosto 1914 la frazione parlamentare socialdemocratica del Reichstag votasse all’unanimità i crediti di guerra. A favore votarono anche
Karl Liebknecht, che presto divenne l’emblema della lotta alla guerra, e altri
che nella riunione preliminare della frazione avevano espresso contrarietà e
dubbi.
La
seconda tendenza emerse nella guerra mondiale, si consolidò durante la gestione
politica della depressione degli anni Trenta e la guerra mondiale, e si
sviluppò energicamente con la crescita delle funzioni economiche e sociali
dello Stato nel corso del secondo dopoguerra: si tratta dello spostamento dei
rapporti tra esecutivo (e apparati burocratici specializzati) e assemblee
parlamentari a netto favore del primo e della dislocazione della formulazione,
mediazione e decisione politica in sedi diverse da quelle elettive. Da notare
che questo processo fu simultaneo all’età d’oro della moderna «democrazia
rappresentativa», alla più frequente e lunga partecipazione dei partiti
socialisti al governo, al riconoscimento formale dei diritti socioeconomici,
all’estensione reale (benché ineguale) del welfare
State.
Si può
dunque dire che lo sviluppo della tendenza al dislocamento della decisione
politica fuori delle istituzioni elettive e verso la burocrazia statale sia
coeva a quella che appariva (e a molti ancora appare tale) come la
«democratizzazione» politica e sociale dello Stato, da intendersi come
l’introduzione in esso di aspetti non-capitalistici o protosocialisti. Ma che
partiti e Stato si compenetrassero, con gravi effetti a lungo termine per la
loro stessa identità e le istituzioni elettive, non era che il necessario
complemento della funzionalità dell’interventismo statale alla riproduzione
allargata del capitale; ragion per cui non deve stupire che lo stesso fenomeno
di statalizzazione dei partiti (e dei sindacati) si sia poi volto contro i
precedenti diritti sociali, quando sono mutate le condizioni dell’accumulazione
del capitale.
La
combinazione delle due tendenze sopra indicate ha creato una catena di comando
che va dal governo (o da un inner cabinet o dal Consiglio di Gabinetto nel caso di diversi
governi italiani) alle direzioni dei gruppi parlamentari fino ai singoli
parlamentari: la disciplina di partito impartita dalla decisione dell’esecutivo
prevale sulla presunta libertà di coscienza dei singoli deputati che pure,
teoricamente, dovrebbero ciascuno rappresentare la nazione. Ma la disciplina di
partito è un aspetto fondamentale della prassi parlamentare moderna. Se il
«popolo» è in realtà atomizzato in una massa amorfa di individui, i partiti
a cui gli individui delegano la (presunta) sovranità, senza mandato
vincolante o possibilità di controllo e revoca (se non in occasione delle
scadenze elettorali), sono i titolari reali della sovranità e, dentro i
partiti, i loro vertici e il personale in osmosi con gli apparati statali.
Nel caso
degli Stati membri dell’Unione europea (Ue) e dell’eurosistema, la
problematicità che il concetto di «sovranità popolare» presenta sul piano
interno è aggravata dai vincoli che alla politica nazionale sono posti dalle
decisioni in sede europea, i cui organi di governo soffrono di quel che è
gentilmente detto un deficit di legittimità democratica.
Ma già prima dell’unificazione
monetaria i rapporti di forza tra le classi erano stati alterati a favore del
padronato e ben avviato era l’attacco ai diritti socioeconomici; i limiti posti all’espansione della spesa pubblica dagli accordi
dell’eurozona, la politica monetaria seguita dalla Banca centrale europea e la
subordinazione dell’occupazione alla stabilità dei prezzi, la «politica europea
dell’occupazione», tutta centrata sul lato dell’offerta (sulla formazione del
«capitale umano», l’«impiegabilità», l’«imprenditorialità») e la «riforma» del
mercato del lavoro (con la rinuncia ad un’attiva politica sul lato della
domanda), hanno ulteriormente rafforzato quanto già procedeva dall’interno dei singoli paesi, fornendo
anche l’alibi della convergenza e dei vincoli esterni alla politica nazionale.
La
questione della «sovranità» e della «rappresentatività» dei governi e dei
parlamenti è divenuta drammatica nel corso della crisi attuale, sia a causa del
contenuto (anti-)sociale delle decisioni di politica economica che per le
procedure attraverso cui esse sono state e sono prese, ratificate
dall’approvazione delle condizioni presenti negli accordi di prestito stipulati
con la Commissione europea (sotto l’European
financial stabilization mechanism e l’European financial stability facility), la
Bce, il Fondo monetario internazionale.
Bisogna
però guardarsi dal considerare i rapporti tra l’Unione europea e i singoli
Stati in termini di mera sottrazione di «sovranità» ai secondi, non solo perché
l’Ue è un costrutto degli Stati e non essa stessa uno Stato. Si può vedere
nelle politiche dell’Ue e nell’istituzione della Bce, con tutti i problemi
relativi alla «rappresentatività» e alla legittimazione politica, non la causa della sottrazione della
«sovranità» ai popoli (e ai governi nazionali) ma, viceversa, l’espressione di un processo politico già
affermato al livello dei singoli paesi che viene ulteriormente sviluppato e
consolidato su scala internazionale.
D’altra
parte, così come le differenze tra i diversi capitalismi non sono assorbite
nell’unico calderone della presunta globalizzazione economica, allo stesso modo
l’Ue e la moneta unica non dissolvono le differenze politiche e istituzionali
tra i diversi Stati europei. Semmai, creando i meccanismi interstatali che
presiedono alla sua diffusione e, specialmente, al suo approfondimento, Ue ed
eurozona (due aree che non coincidono) hanno l’effetto di dare nuovo impulso al
processo di chiusura dei sistemi di partito rispetto agli interessi della
cittadinanza e di svuotamento delle istituzioni elettive a favore della
burocrazia statale, dei vertici della casta politica e di procedure e sedi di
mediazione non elettive, che nella dimensione europea sono ancor più opache e
distanti da possibili influenze dei movimenti sociali.
Se
questo è vero, allora le grida indignate per la violazione della «sovranità
nazionale» e la rivendicazione dell’uscita dall’Ue e dall’eurosistema mancano
il bersaglio, scambiando l’effetto per la causa. Non sono l’Ue, la troika Ue-Bce-Fmi, le «banche» a
sottrarre «sovranità» al popolo: il fenomeno è intrinseco allo Stato
capitalistico e in regime liberaldemocratico trova i suoi agenti nel sistema
dei partiti nazionali, i sovrani reali che tanto più sono autoreferenziali
quanto più procede l’integrazione nello Stato e l’adattamento alle
compatibilità capitalistiche.
Quanto alla libertà d’azione dei governi europei, se è vero che è limitata
dalla rinuncia a una moneta nazionale, è anche vero che in definitiva essa
dipende dalla posizione dei diversi capitalismi nelle gerarchie della divisione
del lavoro internazionale e della potenza statale: con o senza euro, il
capitalismo tedesco non è quello greco. Come quella politica, la «sovranità»
economica è da sempre un fatto relativo. Chi si propone l’uscita
dall’eurosistema dovrebbe tener ben conto che crisi valutarie, bancarie, e del
debito internazionale occorrono anche in paesi con una propria moneta, e
possono essere devastanti: sicché il punto non è salvare il capitalismo
«nazionale» dalle grinfie dei rapaci esteri ma combattere entrambi, avendo
anche come obiettivo da realizzare la costruzione di solidarietà militante, non
episodica e non simbolica, tra i lavoratori e i movimenti sociali del
continente.
Come la
crisi economica non è che l’espressione aperta di processi da tempo operanti,
la manifestazione eclatante delle contraddizioni inerenti al successo di una
determinata struttura storica, in modo analogo quella che oggi appare come
crisi della sovranità «popolare» nazionale, della «rappresentatività» dei
partiti e del parlamentarismo prodotta o aggravata dalla crisi economica, non è
che l’aperto manifestarsi di tendenze operanti e consolidate da diversi
decenni: sull’intero arco del secondo dopoguerra per quel che concerne il
rapporto tra partiti, Stato e funzioni sociali ed economiche delle politiche
statali; nell’ultimo quarto del XX secolo per quel che riguarda la mutazione
qualitativa dei partiti socialisti.
La tesi principale di questo articolo, che sarà sviluppata in quelli
seguenti, è che le trasformazioni della
statualità e dei sistemi dei partiti nei paesi a capitalismo avanzato hanno carattere
strutturale, internazionale e di lungo periodo.
Ritengo siano enormi e sgradevoli le implicazioni che questo comporta circa il
rapporto tra lotta sociale e lotta per le libertà, la valutazione del regime
liberaldemocratico, l’atteggiamento nei confronti di tutti i partiti e delle elezioni politiche. Ma negare la realtà
della storia significa negarsi la possibilità di cambiarla.
2. La
postdemocrazia dei paesi a capitalismo avanzato e l’economia mondiale.
Da due decenni vado contestando la validità analitica della nozione di
globalizzazione (3), ma ora devo evidenziare un paradosso conseguente dal suo uso politico che contraddice
quanto in quella nozione possa esserci di vicino alla realtà.
In primo luogo, il processo attraverso cui si perviene a una
ristrutturazione storica dell’economia mondiale è complesso, lungo e
drammatico: perché si formasse la struttura dell’economia mondiale del secondo
dopoguerra occorsero due guerre mondiali, una grande depressione
internazionale, la Rivoluzione russa e quella cinese, per essere brevi! La
politica nel suo senso più ampio entra certamente in gioco, ma attraverso
esperimenti, lotte sociali, scontri armati, contraddizioni, oscillazioni,
fallimenti ed effetti non intenzionali, non nella forma della volontà animata
da un piano consapevole e razionale. Se si concorda su questo e se si ritiene,
come logica vuole, che l’economia mondiale (convergente intorno a valori
globali oppure ancora caratterizzata dallo sviluppo ineguale e combinato) sia
un fatto strutturale, che non può essere determinato
da un qualche tipo di politica o d’ideologia ma risulta da lotte di potere e di
classe, dalla gerarchia di fatto in campo economico e politico-militare del
sistema degli Stati, allora dalla globalizzazione non si può «uscire» (tanto
meno rimanendo in un’economia capitalistica) sulla base di una volontà politica
(tanto meno rimanendo nella scala nazionale e affidandosi ai partiti).
In secondo luogo, per essere coerente la tesi della globalizzazione
implica il drastico ridimensionamento delle capacità d’intervento economico e
sociale dei singoli Stati (piuttosto che un diverso orientamento di quelle
capacità: senza le quali saremmo però da un pezzo in piena depressione mondiale
stile anni Trenta e a far la fila per il brodino). Ma, allora, non si capisce
perché un tale cambiamento epocale e strutturale non debba comportare, se si
ammette che la società sia un «fatto totale», analoghi cambiamenti strutturali ed epocali nell’ambito squisitamente
politico dei sistemi di partito e del rapporto tra partiti e cittadini.
Ovviamente, non è indifferente se si considera la struttura della totalità
sociale, con la sua miriade di centri di potere privato economico (fortemente
ineguali) e la concentrazione della potenza politico-militare negli Stati
(anch’essa molto inegualmente distribuita), come espressione del potere di una
classe dominante e retta dalla riproduzione del sistema capitalistico su scala
mondiale, oppure no.
Il paradosso nasce dal fatto che nel suo uso politico a sinistra la
globalizzazione è aggettivata come «neoliberista» (o comunque usata per lo più
in quel senso): il che implica che essa risulti essenzialmente da una
determinata parte politica, la «destra neoliberista», o dagli effetti politici
di una macrocorrente ideologica (il «pensiero unico»); ma anche che la medesima
configurazione «materiale» dell’economia mondiale (o dell’imperialismo) possa
essere gestita politicamente in modo non «neoliberistico», magari «dal basso».
Evidentemente ciò è in contrasto con il concetto di globalizzazione come fatto
strutturale, di lungo periodo, che comporta trasformazioni della statualità che
non possono non interessare anche le istituzioni della «democrazia
rappresentativa» e i sistemi di partito; e non bisogna dimenticare che
l’onnipotenza dei mercati finanziari, la deterritorializzazione del capitale e
l’obsolescenza delle capacità di intervento degli Stati mal si conciliano con
la prospettiva di politiche economiche e sociali nazionali alternative al
«neoliberismo».
I partiti di «terza via» (ex socialdemocratici, ex comunisti) possono
usare coerentemente la globalizzazione come fatto strutturale e il potere dei
«mercati» come alibi politico. Il paradosso esiste invece per i partiti che
ancora si definiscono «comunisti» o «verdi» o similmente, ed esso nasce da una
necessità politica: quella di poter partecipare ai giochi della scena politica
nazionale facendosi portavoce e rappresentante dei movimenti (o come si diceva
un tempo, del movimento dei movimenti) contro il «neoliberismo» (a geometria
variabile a seconda delle congiunture e del rapporto con i partiti di «terza
via»). Necessità che, a sua volta, comporta che il carattere «rappresentativo»
del regime liberaldemocratico sia tuttora valido o possa essere ristabilito:
insomma, la «democrazia rappresentativa», eventualmente arricchita dal
«bilancio partecipativo» e da altre forme di partecipazione popolare,
costituisce l’orizzonte entro il quale si definisce concretamente il percorso
politico, al di qua dei miti e dei riti dell’identità relativi al futuro sol
dell’avvenire, rosso, verde o a pois.
Si può sostanziare il fattore politico-ideologico con quello
sociologico-elitista di una nébuleuse
che costituisce il governo informale del mondo, governance without government, costituita dall’insieme di entità
quali la la Ocse, il Fmi, la Commissione Trilaterale, le conferenze di
Bilderberg e di Davos, la Mount Pelerin Society, e così via. Una versione
recente di questa logica è quella del «governo delle banche».
Ma per i precedenti argomenti, l’idea che i destini del mondo (o della
Grecia o dell’Italia) siano governati da una élite finanziaria cosmopolitica è
una semplificazione infantile del tutto estranea alla complessità e
contraddittorietà della storia reale; combinando elitismo politico e una
visione ristretta dei rapporti economici internazionali e dei rapporti tra le
classi sociali, essa non può spiegare la convergenza d’interessi tra capitale
monetario e produttivo, tra le grandi società multinazionali e le istituzioni
finanziarie, la stessa «finanziarizzazione» dall’interno del capitale
produttivo (negli Stati Uniti le corporations da tempo si autofinanziano ma
svolgono operazioni finanziarie in proprio, oltre a distribuire un’alta quota
di dividendi sul capitale disponibile). Per farla breve, non si vede come
l’internazionalizzazione del capitale monetario non sia che l’altra faccia
dell’internazionalizzazione del capitale produttivo, che essi siano in simbiosi
e in osmosi, che la fisiologia dei flussi finanziari risponda a una determinata
struttura dell’economia mondiale risultato di decenni di (ineguale) sviluppo
capitalistico, dei cambiamenti nella struttura sociale e nei rapporti di forza
tra le classi sociali. Totalità non è sinonimo d’armonia: tutti questi processi
sono contraddittori ed è sotto gli occhi l’instabilità che essi generano, a
partire dal settore finanziario; ma senza cogliere le connessioni del tutto non
si può neanche comprendere la durata e la resilienza del cosiddetto
«neoliberismo».
3. Epoche della
rappresentanza politica: dalla liberaldemocrazia alla postdemocrazia, passando
dalla mutazione dei partiti di sinistra.
Si può osservare che alla configurazione dell’imperialismo che portò
alla Prima guerra mondiale corrispondeva la forma statuale liberale (ma non
liberistica, tranne nel caso della Gran Bretagna); che a quella tra le guerre
mondiali corrispose la crisi dello Stato liberale e l’ascesa della forma
statale fascista (oltre che staliniana). Infine abbiamo avuto la forma statuale
liberaldemocratica, la politica industriale, il neocorporativismo, lo sviluppo
del welfare State ecc. Lo Stato
capitalistico e la rappresentanza politica hanno la loro storia, nella quale
specifiche forme nascono, mutano, muoiono. Come tutto ciò che è umano.
Irreversibilmente.
Sul piano dei partiti politici, è da tener conto che nei regimi
liberaldemocratici del secondo dopoguerra i parametri generali dell’interventismo statale in campo economico e sociale
furono condivisi sia dalla «sinistra» che dalla «destra» o, meglio, dal
«centro» (e quando queste espressioni avevano in Europa valore distintivo
superiore a quello odierno). Tra normative di welfare varate sotto maggioranze socialdemocratiche o «borghesi»
c’era differenza, ma esse vennero adottate ovunque, e rimasero sotto tutte le
maggioranze; in Germania, Austria, Belgio, Olanda e Italia furono opera di
governi centrati sui democratico-cristiani. Analogamente, trent’anni fa ha
avuto inizio, e si è completata negli anni Novanta, la convergenza tra i
partiti intorno a un orientamento fondamentale di politica economica e sociale
neomercantilistica che richiede la restrizione dei diritti sociali e delle
garanzie per i lavoratori, pur persistendo differenze ereditate dalle diverse
storie degli Stati e dei partiti nazionali.
Esistono epoche della politica e anche della politica economica che
attraversano gli schieramenti politici e ideologici.
Ed è
appunto questo l’ultimo tocco all’evoluzione (o involuzione) dei sistemi
politici: l’irreversibile mutazione
programmatica e ideale dei grandi partiti scaturiti dal movimento operaio del
XIX e XX secolo. Nel secondo dopoguerra essi vennero favoriti dal
cambiamento del rapporto tra Stato (imperialistico) ed economia
(capitalistica): i partiti socialdemocratici principalmente, ma anche quelli
comunisti che, pur esclusi dai governi nazionali, miravano a più avanzate
riforme, certo non alla sovversione del sistema. Il prezzo pagato è però stato
la progressiva statalizzazione dei partiti di sinistra e il loro adattamento ai
limiti e alle compatibilità dell’accumulazione del capitale, che negli anni
Settanta del secolo scorso iniziarono a farsi piuttosto stretti e rigide. Con
ciò è definitivamente tramontata la possibilità che sulla scena politica venga
in qualche modo «rappresentato» l’interesse immediato dei salariati e
l’esistenza del conflitto di classe. La
sedicente «sinistra» o i partiti o le coalizioni di «centrosinistra» ora non
sono parte della soluzione dei problemi della «democrazia rappresentativa», ma
soggetti attivi dell’obsolescenza della «rappresentanza» e del parlamentarismo.
Sono i veri soggetti dell’antipolitica, ovvero nemici della mobilitazione
autonoma della cittadinanza, in specie dei lavoratori.
L’evoluzione
dei sistemi politici può dirsi postdemocratica, ma rimane nel quadro dello
Stato liberale e parlamentare capitalistico (e imperialistico): essa ne è,
anzi, una conseguenza necessaria, proprio per la natura sociale di questa forma
statuale, che può ben integrare apparati di partito per tenere a debita
distanza il démos e sostenere
l’accumulazione di capitale. Non ha nulla a che fare con «regimi d’eccezione»,
come il fascismo e il bonapartismo, né con l’autoritarismo nel senso più forte,
mettendo nel conto che lo Stato capitalistico dispone sempre della capacità e
volontà di far valere selettivamente il monopolio legale della violenza e di
esercitare la barbarie su ampia scala nei paesi neocoloniali. La forma avanzata
della società (tardo?) capitalistica come «società dello spettacolo» non ha
affatto bisogno di dispiegare al suo
interno la violenza di massa rozza e massiccia o, comunque, di abbandonare
la forma «rappresentativa» liberale.
Ma se si
prende sul serio il concetto che la «chiusura» oligarchica dei sistemi dei
partiti ha carattere strutturale, in quanto risultante dall’evoluzione dei
rapporti tra Stato ed economia nei paesi a capitalismo avanzato e connessa
all’insieme delle trasformazioni dell’economia mondiale; e che essa costituisce
l’ultimo sviluppo (o involuzione) del lungo processo di integrazione dei
partiti nello Stato, a danno deliberato, ma non privo di contraddizioni, della
loro capacità di «rappresentare» il dèmos
- allora vuol dire che partecipare ai giochi di potere e ai riti elettorali di
questa postdemocrazia non serve più a conquistare o ampliare spazi di libertà e
diritti.
Il tempo
non trascorre invano. Per gran parte del XIX e del XX secolo il movimento
operaio fu il protagonista della lotta per conquistare o difendere i diritti
politici, oltre a quelli sociali, nutrendosi, nei settori sociali più avanzati
dell’aspirazione, più o meno confusa e moderata, più o meno chiara e
rivoluzionaria, a trascendere in qualche modo il capitalismo. Ma ora che i
partiti che ne furono espressione maggioritaria si sono statalizzati, il
regime liberaldemocratico e il sistema dei partiti di cui essi sono parte
integrante, e che è il vero soggetto della sovranità, sono divenuti un ostacolo
all’estensione e all’approfondimento dei diritti economici e sociali. Un’epoca
storica si è chiusa. Le vie
dell’espansione della democrazia e della socializzazione della politica non
passano più attraverso la rappresentanza da parte dei partiti nelle istituzioni
parlamentari.
Se non
si prende coscienza di questo dato, se si rimane ancorati alle illusioni e ai
miti di un’epoca tramontata, non si sarà neanche in grado di battersi
collettivamente per la difesa e l’ampliamento delle libertà democratiche e dei
diritti sociali contro lo Stato
liberaldemocratico, nel presente e nel futuro.
Note.
1) Simon
Carswell, «The big gamble. The inside story of the bank guarantee», Irish Times, 25 settembre 2010.
2)
Rimando a Michele Nobile, «La crisi dell’Irlanda, un
esempio delle contraddizioni dell’Unione Europea. Nota 5 sulla crisi», aprile 2011. in rete nel blog di
Utopia Rossa
3) Vedi il testo più organico, Michele Nobile, Imperialismo. Il volto reale della
globalizzazione, Massari editore, Bolsena 2006.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com