L’associazione Utopia rossa considera suo fondamento politico il principio secondo cui il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi si deve riflettere l’essenza del fine. Non ha programmi politici, come del resto non ne aveva la Prima internazionale. Nonostante le più diverse provenienze ideologiche dei suoi sostenitori, essa ritiene che l’anticapitalismo dilagato dopo l’inizio dell’Antirivoluzione russa (dicembre 1917) sia stato motivato fondamentalmente da idee precapitalistiche, cioè retrograde, e non da progetti di civiltà in grado di superare il capitalismo sviluppando ulteriormente i suoi modelli di democrazia. Ciò spiega anche il prevalere, nella storia della cosiddetta «sinistra», di simpatie per i regimi dittatoriali di ogni specie e colore. Utopia rossa si batte contro l’ulteriore diffusione di ideologie precapitalistiche vecchie e nuove (in campo politico, culturale, ecologico, religioso ecc.), come parte della sua battaglia per il superamento del capitalismo, se si vuole salvare la vita sulla Terra con la sua umanità. In questo senso la sua utopia continua ad essere rossa.

The Red Utopia association considers its political foundation to be the principle that the end does not justify the means, but that the means must reflect the essence of the end. It has no political program, just as the First International did not. Despite the diverse ideological backgrounds of its supporters, it believes that the anti-capitalism that spread after the start of the Russian Anti-Revolution (December 1917) was fundamentally motivated by pre-capitalist – that is, retrograde – ideas, and not by civilizational projects capable of overcoming capitalism and of further developing its democratic models. This also explains the prevalence, throughout the history of the so-called «left», of sympathies for dictatorial regimes of all kinds and colors. Red Utopia fights against the further spread of old and new pre-capitalist ideologies (in the political, cultural, ecological, religious, and other fields) as part of its battle to overcome capitalism, if life on Earth, including its humanity, is to be saved. In this sense, its utopia remains red.

PER SAPERNE DI PIÙ CI SONO UNA COLLANA DI LIBRI E UN BLOG IN VARIE LINGUE…

venerdì 19 dicembre 2025

COS’HANNO IN COMUNE I GAZAWI E I CISGIORDANI?

di Roberto Massari

(17 dicembre 2025)


ITALIANO - ENGLISH


Sotto il profilo storico, niente. Sotto il profilo politico, sono stati uniti per circa 13 anni sotto l’egida dell’Anp - per la prima volta nella loro storia - finché si sono separati violentemente nel 2007 (battaglia di Gaza vinta da Hamas contro l’Olp).

Per quante manovre artificiose o dichiarazioni demagogiche si facciano, queste due distinte etnie arabo-palestinesi - le uniche realtà palestinesi non integrate in altri Stati (arabi e non arabi) - non torneranno mai più a unirsi. Almeno non in forma indipendente, giacché l’aggressione di Hamas a Israele ha scavato un solco incolmabile. Basti pensare che l’intero mondo arabo (incluso l’Olp), nonché gran parte del mondo musulmano (Iran escluso), ritiene che Hamas non debba più avere il governo di Gaza e dovrebbe disarmare. Ma poiché parte delle milizie di Hamas è invece ancora presente nel territorio, al momento è impossibile prevedere chi finirà con l’avere la direzione.

Gaza sotto il profilo storico

Ma veniamo alle differenze epocali tra l’antica storia di Gaza e quella recente della Cisgiordania. Gaza (in arabo Madīnat Ghazza) proviene da una storia quasi trimillenaria di occupazioni da parte di popoli stranieri, con prevalenza di periodi di dominio egizio/egiziano fino all’epoca moderna inclusa. Trascurando i più antichi insediamenti, è proprio dagli egizi che si può partire, verso la metà del 2° millennio. Questi rimasero per alcuni secoli, finché arrivarono i filistei (da cui  deriva il nome di «palestinesi»), seguìti dagli assiri, gli israeliti, due volte ancora gli egizi, i babilonesi, i persiani, i greci-macedoni, i seleucidi, i maccabei, gli asmonei, i romani, i bizantini, gli islamici, i crociati, gli ayyubidi (curdo-musulmani), i mongoli, i mamelucchi, gli ottomani, i mandatari britannici (1920-1948).

Finito il Mandato britannico, la Risoluzione 181 dell’Onu stabilì, nel 1947, che anche Gaza avrebbe fatto parte del nuovo Stato palestinese: il secondo Stato che sarebbe dovuto nascere accanto a quello ebraico. Israele accettò la proposta dei due Stati, ma i principali Stati arabi mediorientali - Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq raccolti nella Lega araba (quindi senza Arabia Saudita e Yemen) - la respinsero, aggredirono il neonato Stato d’Israele e impedirono che nascesse lo Stato di Palestina. (Continueranno a impedirlo in successive occasioni, ma di questo ora non parliamo.) Lo fecero perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento dello Stato d’Israele, ma soprattutto avrebbe impedito le annessioni territoriali cui essi miravano: l’intera regione palestinese o parti di essa.

L’Egitto, infatti - che all’epoca era la principale forza trainante nel fronte anti-Israele - voleva impadronirsi del territorio di Gaza. Sappiamo che la Lega araba fu sconfitta militarmente, ma con l’armistizio del 1949 l’Egitto riuscì ugualmente a prendersi la Striscia di Gaza, occupandola e installandovi un proprio governo militare (non gazawi). Una tipica occupazione coloniale che durò fino al 1967 quando, dopo l’ulteriore sconfitta nella Guerra dei sei giorni, il posto degli egizianni fu preso da Israele.

La nuova occupazione durò 27 anni, fino al 1994, quando, con gli accordi di Oslo, Israele non solo si ritirò, ma con la forza fece sloggiare anche i propri coloni. E così, per la prima volta nella sua storia trimillenaria, Gaza diventava indipendente, all’interno dell’esordiente Autorità nazionale palestinese.

L’ironia del destino vuole che questa indipendenza sia stata concessa proprio da Israele, per la prima volta e dopo quasi tre millenni di occupazioni straniere.

Un tale indiscutibile merito storico non viene mai citato dai nemici di Israele o dagli amici di Hamas, perché basterebbe da solo a far crollare la pretestuosa accusa di genocidio inventata per il massacro dei gazawi nel corso di una guerra scatenata da Hamas e proseguita fino alla liberazione dell’ultimo ostaggio. Si veda se vi sia nel report di Francesca Albanese un accenno a questo merito storico di Israele nei confronti di Gaza. E dopo forse si guarderà con mente un po’ più lucida al resto del castello di accuse montate in quel testo (del quale Utopia Rossa pubblicò a suo tempo una critica puntuale e a quella rinvio).

Quando Israele concesse l’indipendenza a Gaza, lo fece col consenso di tutte le parti in causa. E se analizzata in termini politici, quella scelta sembrò giusta all’epoca. Ma i termini si rivelarono ben presto tutt’altro che politici e il fanatismo religioso prese il sopravvento: fu infatti per adempiere al presunto mandato di Allah, che richiederebbe lo sterminio degli ebrei, che Hamas compì l’orrenda strage del 7 ottobre 2023 e fece prigionieri gli ostaggi, che in parte morirono poi durante la prigionia. A posteriori è ormai evidente che la motivazione religiosa, genocida e antiebraica, fu il movente principale per l’aggressione di Hamas, per il quale furono sacrificate decine di migliaia di vite umane, e lo stesso Hamas ha finito col perdere il proprio dominio sulla Striscia.

Inutile dire che Israele considera un tragico errore aver concesso l’indipendenza a Gaza e non è disposta a ripeterlo. Cosa accadrà di Gaza è ormai impossibile prevederlo, ma certamente non potrà mai riacquistare l’indipendenza di cui ha goduto dal 1994 al 2023. A meno che Hamas non scompaia dalla scena....

Il periodo successivo al 1994 dovrebbe essere noto anche a chi preferisce ignorare la storia fin qui riassunta. Nelle elezioni del 1996 vinse l’Olp di al-Fatḥ diretto dall’egiziano non palestinese Arafat. Al-Fatḥ vinse anche le elezioni presidenziali del 2005, successive alla morte di Arafat, che furono però boicottate da Hamas. Questa invece vinse nel 2006 le elezioni parlamentari (per il Consiglio legislativo palestinese) e nel 2007 vinse lo scontro armato con l’Olp. Questo fu cacciato dalla Striscia, con reciproche eliminazioni di combattenti e militanti. Iniziavano così - con un golpe militare e la cacciata dell’unica altra etnia arabo-palestinese non ancora integrata in altri Stati  - la dittatura di Hamas e la preparazione per la futura aggressione a Israele.

Cisgiordania sotto il profilo storico

domenica 7 dicembre 2025

IL LIBRO DI SHLOMO SAND

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH


Da qualche tempo ho finito di leggere il libro di Shlomo Sand (The invention of the Jewish people) e mi ripromettevo di scrivere una noticina. (Come farò anche per il libro sulla tratta arabo-musulmana.)

Intanto, va detto che ho avuto la conferma come scrissi a suo tempo che C.A., nel citare quel libro, non era andato oltre il titolo. Se poi lo abbia letto dopo le mie critiche, non mi riguarda.

E in realtà, quel titolo è ingannevole: sarebbe dovuto essere «L’invenzione della razza ebraica», perché il fuoco principale della polemica è rivolto contro la storiografia sionista che ha tentato di stabilire una continuità etnica (e addirittura genetica!) tra gli attuali abitanti d’Israele e l’antico popolo israelitico. Allo scopo - e questa è la parte utile e condivisibile del libro - Sand ricostruisce la vicenda delle tre principali etnie ebraiche esistite fuori della Palestina e successive alla sua Diaspora al termine della Guerra giudaica.

[Diaspora sulla quale Sand dice delle sciocchezze negando che essa sia avvenuta dopo la vittoria romana del 70 per il semplice fatto che essa esisteva anche prima. Che essa esistesse anche prima è risaputo e l’ho scritto a mia volta (in molti punti del mio libro su Gesù e i suoi «cugini»), foss’altro perché ne parla il Nuovo Testamento: Paolo (per es. Rm 13: 6-7, che in varie altre lettere fornisce anche i nomi delle principali città - anatoliche e greche - in cui risiedevano forti comunità ebraiche prima del 70); gli Atti degli apostoli, scritti prima del 63; l’Apocalisse - ma dopo il 70 - con le sue 7 Chiese (tutte anatoliche [Ap 1: 4 e 11]) . È però insopportabile il modo in cui Sand toglie credibilità all’opera storica di Flavio Giuseppe che invece - da contemporaneo partecipante - la Diaspora del dopo-70 la descrive, eccome. Per quanto approssimata sia la cifra di un milione di morti ad opera dei romani, basterebbe semplicemente la logica per stabilire che degli ebrei «non-morti», a molti non restò alternativa che scappare, sfuggendo alle stragi e alla schiavizzazione, andando per lo più a rimpinguare la preesistente Diaspora (anatolica, mediterranea, Roma inclusa).]

Ma per tornare alla parte positiva, le tre grandi etnie ebraiche che Sand descrive (sulla scia di un’enorme letteratura dedicata al tema) sono quella dei Berberi in Nordafrica, dei Khazari nel Caucaso e degli Himiariti nello Yemen. Per cui, il risultato finale di Sand - che se ne renda conto o no - è che non solo egli riconosce l’esistenza di un enorme e variegato popolo ebraico, ma che esso è sorto in periodi diversi e in varie e disparate parti del mondo. Lui dice che nel caso dei Khazari ciò è avvenuto solo per conversione degli abitanti, mentre io dico che i due processi - conversione e immigrazione - si sono per forza intrecciati, perché altrimenti non si vedrebbe chi abbia convertito chi. Da non sottovalutare, poi, come si sono intrecciate le storie delle comunità cacciate dal Nordafrica, quelle cacciate dalla Spagna, per non parlare delle mescolanze avvenute all’interno del mondo slavo, le storie di pogrom e così via.

Ma a differenza di Sand, io non dimentico che un ridotto nucleo «originario» è sempre esitito nella stessa Palestina, sopravvissuto anche all’avvento dell’Islam (nel sec. VII) che convertì forzosamente gran parte della popolazione ebraica ivi rimasta.

Sand ipotizza che quegli ebrei convertiti all’Islam siano i progenitori degli attuali arabi palestinesi. Francamente non vedrei argomenti contrari, anche se non saprei che dire al riguardo e lo stesso Sand non offre grandi pezze di appoggio.

Ma l’ipotesi è plausibile (al di là del nome dei palestinesi, trasformazione dell’arcaico «filistei») e sarebbe un argomento in più per consigliare agli attuali palestinesi cisgiordani e agli attuali palestinesi gazawi di entrare a far parte - come due minoranze nazionali distinte - di uno Stato federale israeliano (in cui tra l’altro già vivono in condizioni dignitose i palestinesi israeliani), invece di continuare a vivere in pessime condizioni economiche, scolastiche, sanitarie e sociali sotto dittature politiche i cui dirigenti si sono formati in Unione Sovietica (dall’egiziano.doc Arafat al galileo Abu Mazen) e non in Palestina.

Il popolo ebraico descritto da Sand ha una ricca storia millenaria; è vissuto in zone del mondo tra le più diverse (dal Maghreb al Caucaso al Don); ha nutrito al proprio interno lingue appartenenti a ceppi linguistici tra loro incompatibili (basti solo pensare alle origini germaniche-slavo-serbe dello yddish); ha sviluppato tradizioni di ogni genere (mescolando quelle proprie e quelle delle zone di esistenza); ma ha mantenuto un’unica fede religiosa, benché anche questa sia stata vissuta in modi diversi, ivi compresi atteggiamenti areligiosi ampiamente diffusi. Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni: il vero elemento «omogenizzatore, che ha invece caratterizzato l’insieme del popolo ebraico (in Asia, Africa, Europa e Russia), sono state le persecuzioni antiebraiche. Ma a questo quasi bimillenario elemento unificatore - che per giunta continua in forma aperta in Mediio Oriente e in forma strisciante anche in regimi democratici come l’Italia -  Sand purtroppo non dà l’importanza che merita.

Gli va riconosciuto, però, di aver scritto nella Prefazione: «Non nego il diritto dello Stato d’Israele a esistere» - che ha il suo valore per il fatto di esser detto da uno studioso appartenente all’area degli storici antisionisti dominata da quell'Ilan Pappé divenuto l’idolo di molti moderni adepti dell’antisemitismo/ antiebraismo intellettuale. Proprio per questo citai la dichiarazione di Sand in polemica con C.A. che negava tale diritto apertamente, ma varrebbe per tutti coloro che lo negano implicitamente, rifiutando a Israele il diritto di difendersi dalle aggressioni che ha subìto e continua a subire dal 1948 ad oggi. Fermo restando il diritto di dissentire su quali siano i modi migliori per Israele di difendersi e per portare la pace in tutta l’area mediorientale, escludendo l’Iran, finché lì dominerà il regime più sanguinario e reazionario esistente oggigiorno al mondo.

shalom

Roberto 


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ENGLISH

martedì 2 dicembre 2025

CHILE: UN GOLPE AL CORAZÓN

por Tito Alvarado


ESPAÑOL-ITALIANO-ENGLISH


La elección presidencial pasada en Chile (noviembre, 26, 2025) ha señalado unas cuantas certezas: ninguna encuesta, manipulación mediática o furor de campaña puede asegurar un resultado deseado ni puede señalar un rumbo fijo. La incertidumbre envuelve al devenir político. Pudiéramos quedar aquí, estaríamos faltando al rigor y a la verdad. De nada sirve que hablemos con un lenguaje oscuro y de rebuscados argumentos ni quedarnos en señalar el problema sin atrevernos a elucubrar una solución posible. Primero habría que preguntarse ¿Cómo hemos llegado a este callejón de aparente no salida? Desde que tengo capacidad de recordar, he constatado a cada paso la desigualdad social, la falta de oportunidades, el doble rasero para medir y otras múltiples expresiones de la ideología del poder. Hasta llegar a la culminación criminal de la dictadura y lo menos cruento, pero igual de desalmado, de los gobiernos de la concertación y dos periodos de un engendro publicitario con síndrome de camisa ancha. ¿Qué ha ocurrido en este largo periodo de dictadura criminal y dictadura por otros medios? La reducción cultural de Chile a una mera expresión de vacío existencial. Muchas empresas florecientes, que eran propiedad del estado, fueron traspasadas, a precio de huevo, a manos privadas; toda expresión de periodismo alternativo, fue ahogada desde los gobiernos de la concertación; para peor, si antes había atisbo de poder revolucionario, hoy muchas de esas expresiones han quedado en el limbo de volverse divagación diversa del pensamiento socialdemócrata y un miedo cerril a cualquier expresión de organización y poder popular; hubo un tiempo en que se fabricaban en Chile muchos artículos de consumo, hoy el poder industrial del país ha sido desmantelado, casi todo está en manos de capitales extranjeros. Nos hemos convertido en un país que vende servicios, materias primas, productos del campo y ni qué decir del sueldo de Chile. Si mirásemos cómo se producen los bienes materiales en nuestro reducido país, tendríamos unas cuantas respuestas que nos situarían en la cresta de la ola, somos un país sin identidad propia, con políticos sin propuestas de soluciones reales, con ciudadanos que han perdido su derecho fundamental: ser persona libre. Vivimos a los sobresaltos de la manipulación, mientras los dueños del poder siguen en su negocio.

Para el 14 de diciembre hay dos posibilidades con resultados diametralmente opuestos, pero, paradojalmente, sin cambio de fondo en beneficio de los olvidados, la política se ha vuelto un circo con incapacitados mentales sin propuestas serias y necesarias, se hace política para administrar el capitalismo, unos con avances timoratos en beneficio de ciertas mayorías y otros tendientes a ver nublado cuando resplandece el sol, son los amigos de aplastar cabezas. Desde hace mucho el miedo es el arma de uso común, miedo que nada tiene que ver con la realidad y oculta un miedo mayor. El cuco del comunismo, esgrimido cuando los comunistas no son ni la sombra de lo que fueron, la inseguridad, que encierra en el pequeño espacio de su casa a personas que debieran ser libres, la realidad demuestra que la inseguridad es un lucrativo negocio creado para ocultar problemas mayores como la corrupción, cuando estamos a las puertas de un fracaso aparece el miedo al pinochetismo por otros medios, este nos ha obligado muchas veces a elegir el mal menor. Nos hemos vuelto masas en disputa sin participación creadora, solo se nos convoca para votar y luego que cada cual se las arregle como pueda. ¿Dónde ha quedado la capacidad de organizarse en base a necesidades y perspectivas de solución?

Chile está, aparentemente en una disyuntiva, se elige un candidato o gana el otro (esto es más un juego de azar que trabajo en pro de las soluciones), cada comando se esmera en mostrar su opción como la mejor, ocultando la realidad: ninguno de los candidatos en disputa aportará soluciones de fondo. Lo que venga después será una divergencia, son proyectos opuestos en lo aparente, en lo profundo otro es el cantar. Los problemas del país, que son los problemas generados por la forma en que se establecen las relaciones humanas, si no se resuelven, se acumulan hasta un próximo estallido social. De todo lo que se dice en campaña, algunas frases suenan feroces, otras se visten de premoniciones, todos avivan un juego pasajero, después tendremos las lamentaciones. Nadie menciona el problema del agua, ni la recuperación de las riquezas básicas, y es que el problema fundamental, son los políticos con sus miras pequeñas y sus propuestas de poca monta. El país no requiere un fascista en el gobierno ni una socialdemócrata para administrar un sistema, que, en esencia, debe ser cambiado de raíz.

¿Qué hacer? es el dilema, solamente que este qué hacer no es una disyuntiva que señale un antes y un después. Lo cierto es que sí seguimos por la misma senda, poco, casi nada de cambio profundo habrá en el país. Hoy no se trata de fascismo para parar el comunismo ni comunismo para parar el fascismo, se trata de optar por la vida, priorizar lo que funciona, terminar con la corrupción, establecer puentes con el otro, priorizar las soluciones a nuestras necesidades, recuperar identidad, partir desde abajo para llegar a un sistema que permita la participación plena, creadora, de cada persona. Seamos actores de nuestro propio destino, tengamos una opinión informada, emitamos nuestro pensamiento, propongamos soluciones, juntemos nuestra fuerza con la de los demás. Optemos por la solución mayor, el pueblo ejerciendo el poder.

Hacia adelante no hay caminos abiertos, debemos construirlos con nuestro propio accionar.


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ITALIANO

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

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a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.