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Massari editore, 2002 |
Nella Tesi 32, vale a dire nella penultima tesi dei Commentari sulla società dello spettacolo (scritti nel 1984, pubblicati nel 1988, ed. italiana della Sugarco del 1990), Debord ci offre alcuni cenni di sintesi, lasciando completamente libero il lettore - come da tradizione situazionista - di considerarli più o meno conclusivi rispetto alla lunga analisi dipanata in questo volume e nel precedente del 1967.
Il dominio della società spettacolare, ci viene detto, ha ormai raggiunto pienamente l’obiettivo dal quale aveva preso le mosse a partire dal secondo-terzo decennio del Novecento (secondo la datazione proposta a p. 13), avendo assunto le caratteristiche di autentica «trasformazione sociale». E qui il lettore non può non riandare con la memoria alle pagine del precedente volume dedicate alla descrizione del processo formativo della società dello spettacolo, a partire dalla sua forma di merce fino alla sua trasformazione in merce suprema che condiziona la produzione e la circolazione di tutte le altre merci (vi torneremo tra breve).
Ma la trasformazione sociale di cui parla Debord - avendo già fatto esplicito riferimento in più parti del suo nuovo lavoro all’integrazione delle spinte di ribellione prodotte dai movimenti del ‘68 (alle quali si potrebbe applicare, storicizzandola, la bella distinzione debordiana tra «invano» e «inutilmente») - ha acquisito una tale profondità da consentire l’affermazione poco rassicurante secondo cui essa avrebbe «cambiato radicalmente l’arte di governare» (p. 79). Nel nostro alienato futuro non sarà un «dispotismo illuminato» a regolare la vita sociale, ma un sistema totalitario integrato vero e proprio.
Nella Tesi 3 si era già detto che la profondità della trasformazione è stata determinata fondamentalmente dalla «continuità» (p. 16) nel processo di estensione del dominio della società spettacolare; ma anche dal fatto che i movimenti del ‘68 avevano fallito nel tentativo (a sua volta spettacolarmente determinato) di infrangere la catena del dominio mediatico. E si era constatato amaramente che ormai - a meno di un ventennio da quell’evento (per Debord che scrive) - il sistema di dominio era riuscito ad «allevare una generazione sottomessa alle sue leggi». Il che significa dire che, avendo il sistema integrato nel proprio processo di formazione ed estensione i potenziali oppositori del dominio stesso, la chiusura del circolo totalitario di dominio assoluto è stata ormai raggiunta.
Debord ci dice che non ci si dovrà lasciar ingannare dai ritardi o sfasature che caratterizzano il processo da un paese all’altro, né dalla contraddittorietà con cui i sudditi sottomessi si lasciano integrare. E non si presti fede ai libri che, per emergere e farsi notare a loro volta, praticano correntemente la «critica spettacolare della società dello spettacolo». Attenzione alle «vane generalizzazioni» e agli «ipocriti rimpianti» (p. 14), perché il sistema di dominio spettacolare che domina il mondo domina non solo i grandi mezzi spettacolari, ma anche le istanze critiche, le considerazioni più o meno scientifiche sul loro sviluppo e, soprattutto, sul loro uso.
A questo riguardo, nella stessa Tesi 3, Debord mette in guardia contro la possibile mistificazione insita nell’utilizzo del nuovo termine - «mediale» - con il quale si vorrebbe far credere a una veste di neutralità, d’imparziale professionalità, una sorta di concessione illimitata di fiducia nello sviluppo degli stessi strumenti del dominio spettacolare (i mass media), accantonando bellamente il problema di chi li domina, di chi li utilizza e di chi riesce per il loro tramite a controllare anche il mondo della critica antispettacolare.
Segue una spietata descrizione del mondo artefatto della «giustizia-spettacolo», della «medicina-spettacolo», vale a dire il mondo della menzogna critica organizzata con la quale si denunciano gli «eccessi mediali», la propensione plebea degli spettatori a lasciarsi andare ai piaceri più triviali nel mondo dei media, nonché le presunte responsabilità dei «dipendenti mediali» (tecnici, organizzatori ecc.) nel soddisfare le tendenze bestiali (l’espressione è di Debord) dello spettatore medio. Tutto ciò per nascondere dietro la «moltitudine virtualmente infinita di presunte divergenze mediali» una «convergenza spettacolare voluta con notevole tenacia» (p. 15).
Se nel libro del 1967 (La società dello spettacolo) Debord aveva lasciato intendere a tratti che la grande trasformazione era ancora in fieri, già profondamente sociale nella sua natura ma non ancora completa, ora (diciassette anni dopo) il filo del discorso può procedere solo prendendo atto che la grande trasformazione spettacolare è conclusa, al punto che essa determina ormai anche le azioni dei dominatori, rendendo ineluttabile la loro trasformazione in «casta» (p. 79). Una casta «cooptata» - come del resto è inevitabile nel processo di formazione di qualsiasi casta all’interno della società capitalistica (questo lo aggiungiamo noi, rinviando ai tanti studi dedicati alla formazione del fenomeno burocratico nelle società a capitalismo avanzato) - nelle cui mani concorrono a integrarsi tutte le forme di dominio, rendendo assoluto quest’ultimo e finalizzando le prime alla protezione del dominio stesso.
Poco chiara è la premonizione debordiana a proposito del «ricambio» (nel senso di un ulteriore approfondimento della logica assolutistica e totalitaria) che dovrà verificarsi all’interno di tale casta cooptata, anche se egli esplicita i criteri di autoimposizione che dovranno presiedere a tale trasformazione, inesorabilmente interna all’apparato burocratico. Saranno «persone già tutte collocate nella sfera del potere», che agiranno come in un «complotto segreto» e che avranno come codice di comportamento l’erogazione o la messa a disposizione delle proprie capacità in funzione dei bisogni del potere mediatico-assoluto. Un tale ricambio, inteso come trasformazione segreta e interna alla casta dominante, «concluderà in modo decisivo l’opera dei tempi spettacolari».
Non si sottovaluti il tono drammaticamente pessimistico di questa frase, di fatto conclusiva nell’economia di discorso dei Commentari, perché di lì si può ricavare la componente più lucida e storicamente più significativa del messaggio debordiano. E il fatto che egli abbia deciso di lasciarci [suicidandosi il 30 novembre 1994] - mentre noi siamo qui a cercar di fare il punto sullo stato di dominazione sociale e politica raggiunto dalla società dello spettacolo, usando in gran parte le categorie interpretative che furono da lui elaborate nel libro del 1967 - non ci esime dalla responsabilità anche politica (ma in primo luogo morale) di definire e misurare il livello raggiunto nel processo della grande trasformazione dalla società dello spettacolo.
Nei Commentari, tuttavia, risuona anche un grande allarme, in virtù del quale siamo costretti a porci degli interrogativi poco diplomatici e assai preoccupanti.
Siamo veramente tutti integrati nel processo di costruzione/riproduzione della società spettacolare? Siamo già diventati tutti parte della critica mediale di comodo necessaria al sistema e orchestrata più o meno direttamente dal sistema stesso? Vale ciò per chi mi ascolta o mi legge? Vale per i miei amici e colleghi debordiani? (in verità assai pochi in Italia e per lo più incoerenti con le premesse teoriche della critica di Debord, in particolare con la sua frontale contrapposizione al dominio della società del capitale e dello spettacolo).
Vale anche per me? E ammettendo che valga per me in generale, vale anche ora, nel momento in cui sto tentando di attualizzare e rendere più facilmente comprensibile il senso dell’analisi di Debord?
Domande da far paura, per le quali rispondere in un senso o in un altro non è facile. E comunque domande che rinviano a delle scelte, a degli impegni (degli engagements di sartriana memoria) assunti o da assumere per poter svolgere un qualche ruolo all’interno degli eventuali spazi residuali di conflitto antisistemico (anticapitalistico e antispettacolare).
Per non andare a cercare esempi troppo lontani, possiamo dire che gli sviluppi della corruzione spettacolare nell’ex estrema sinistra italiana (in quella che un tempo con termine improprio si sarebbe definita «avanguardia» e che di recente ha mostrato in Parlamento a quali gradi di «bestialità» è capace di giungere ciascuno dei suoi esponenti istituzionali pur di riuscir a conservare la postazione occupata - i famigerati Forchettoni rossi, di cui parliamo in altro libro) rendono tutt’altro che oziosi questi miei interrogativi. Del resto, sono anche convinto della natura autenticamente debordiana di questi stessi interrogativi. Ma forte è anche la paura che i tempi supplementari siano scaduti, che il cerchio si sia chiuso e che ormai si sia ridotti a parlare dell’opera di Debord per il puro piacere antispettacolare della situazione in cui ciò avviene, senza alcuna conseguenza eversiva.
Insomma, la società dello spettacolo di cui si cominciò a teorizzare apertamente in ambito lettristico, psicogeografico, postsurrealistico e situazionistico alcuni decenni fa, avrebbe raggiunto l’era del dominio totale, integrato e onnicomprensivo. E ciò anche perché avrebbe ormai la possibilità di corrompere le coscienze fin dai primi stadi dell’infanzia, rafforzando poi tale massiccia opera di condizionamento (per i sottomessi, una vera e propria consegna del cervello all’ammasso) con i «premi» che la stessa società spettacolare mette a disposizione dei bimbetti cresciuti e divenuti - tra l’altro, e solo i più «fortunati» e per questo invidiati - giornalisti, intellettuali di comodo, dirigenti di partito, parlamentari, divi dello schermo e dello scherno, autorità acculturatrici in senso lato.
Proverò quindi a «detournare» (cioè a utilizzare per finalità diverse da quelle per le quali furono concepite) alcune categorie interpretative che stanno alla base del libro del 1967, per vedere se riesco a strappare loro ancora una qualche utilità propositivo-rivoluzionaria, a differenza di ciò che da quelle stesse categorie riusciva a cavar fuori questo grande pessimista postmoderno, inesauribile elaboratore di aforismi, eretico per vocazione, sfuggito, dapprima, all’abbraccio tentacolare della società dei consumi; poi, alla trappola del narcisismo intellettuale autoconsolatorio; infine, al successo mediatico (leggi «riabilitazione» strumentale o riesumazione spettacolare).
Nel secondo capitolo de La società dello spettacolo [citerò ovviamente la mia edizione (Bolsena 2002), curata da Pasquale Stanziale e giunta ormai alla terza ristampa], dedicato a «La merce come spettacolo», Debord richiama esplicitamente e d’entrata il principio del feticismo della merce (p. 55), collocandosi nell’alveo della grande tradizione di pensiero cresciuta su quel quarto paragrafo del capitolo primo della sezione prima del primo libro de Il Capitale, che Marx intitolò «Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano». L’«arcano» da rivelare, per dirla in breve, era il fatto che la forma di merce potesse mostrare agli uomini il rapporto sociale determinato che si instaura fra gli uomini stessi nel processo di lavoro, nel processo di produzione di quella stessa forma di merce, mentre «feticistico» era il fatto conseguente e cioè che dal mondo delle merci derivasse il carattere sociale specifico del lavoro che produce merci, trasformando agli occhi degli uomini la natura stessa di quel lavoro. Le complicanze di questa possente intuizione binaria di Marx le lasciamo ai marxologi (di cui l’Italia tristemente abbonda) e diamo per scontato che Debord le abbia metabolizzate nel loro sviluppo teorico.
Tra i tanti percorsi teorici precedenti che gli vengono normalmente attribuiti come fonti di ispirazione su tali tematiche - che si sono poi rivelate fondamentali per l’analisi della società spettacolare - si pensa in genere e in primo luogo al giovane Lukács, ma si trascurano Roman Rosdolsky e Karl Korsch che invece tante generose aspettative suscitarono nel mondo dell’eterodossia marxista degli anni ‘60.
Nel cap. 5 della seconda parte di Genesi e struttura del «Capitale» di Marx (Laterza, Bari 1971), Rosdolsky ricostruisce in maniera molto originale il percorso teorico che conduce Marx a stabilire il rapporto tra «la formazione di denaro e il feticismo delle merci» (pp. 156-63), arrivando alla conclusione che i due fenomeni sono due facce della stessa medaglia e che «la società produttrice di merci è tanto incapace di liberarsi del denaro, quanto di stracciare “il mistico velo di nebbia” che le nasconde la vera forma del processo di produzione materiale».
Nel cap. 7 del suo Karl Marx (Laterza, Bari 1969), Korsch non solo riconduce la teoria marxiana del feticismo alla giovanile attenzione hegeliano-feuerbachiana per l’«autoestranazione umana» (detta in seguito anche «alienazione», tema carissimo a Debord), ma indica nel principio feticistico la categoria suprema cui vanno ricondotte per Marx tutte le categorie economiche del capitalismo. Korsch riconosce a Marx il merito di aver smascherato come un «unico grande feticcio» tutte le forme dell’economia e della società borghese che su quelle stesse forme si fonda, e di aver disvelato per primo la grande falsificazione dell’Economia politica: la mistificazione storica per cui la forma più alta di coscienza borghese riesce a far sì che l’apparenza si rispecchi nei rapporti di valore delle merci, «in modo rovesciato, feticistico» (p. 126).
«Rovesciato» e «feticistico». Il lettore familiare con la terminologia della Società dello spettacolo può già cogliere le connessioni teoriche tra l’analisi della merce proposta e sviluppata dal marxismo più autentico e i fondamenti dell’analisi debordiana. La quale, nella Tesi 41 (p. 58), ripete i concetti di cui sopra riguardo al dominio apparente del denaro, da Debord paragonato a un messo dotato di pieni poteri che parla a nome di una potenza sconosciuta. Questa potenza viene identificata nella forma di merce che, con la «produzione massiva per il mercato mondiale» appare come la potenza reale, quella che occuperà la vita sociale nel suo insieme. Fin qui Marx e i più lucidi esponenti del marxismo eterodosso, antidogmatico e antistaliniano.
Ma Debord va oltre e nella Tesi successiva identifica l’avvento egemonico della società dello spettacolo nel momento in cui la merce (il mercato) arriva ad occupare realmente l’insieme della vita sociale. È come se l’arcano segreto disvelato dallo sviluppo delle forze produttive e dall’estensione dei rapporti sociali capitalistici - fondato come abbiamo visto sul carattere feticistico della forma di merce - avesse avuto bisogno di rinnovarsi per continuare ad esercitare la funzione mistificatrice (feticistica) indispensabile per il funzionamento del sistema. La possibilità del rinnovamento viene fornito dalla crescita ed estensione totalizzante della società dello spettacolo, ma in una forma che appare definitivamente rovesciata nel momento in cui la realtà spettacolare si rende indipendente dal mondo delle cose sensibili (merci incluse). Ma anche nel momento in cui si sostituisce al soggetto lavorativo, ora divenuto fondamentalmente un consumatore, e quindi uno spettatore passivo rispetto a una forma superiore di irrealtà che gli sfugge come e più del segreto arcano insito nell’originario rapporto salariale, nella forma di merce o nel rapporto sociale di produzione capitalistico tradizionale:
«la base reale dell’accettazione dell’illusione in generale nel consumo delle merci moderne. Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale e lo spettacolo la sua manifestazione generale» (p. 61).
Il supersviluppo dell’economia mercantile erode via via quel tanto o poco di valore d’uso che ancora poteva sopravvivere nel valore di scambio. Questo pervade ogni ganglio della vita sociale, falsificando qualsiasi manifestazione residua di indipendenza da parte del soggetto (ormai consumatore passivo, bisognoso di pseudogiustificazioni via via sempre più spettacolari per adeguarsi alla propria forma di vita falsa e rovesciata). Lo spettacolo diventa «l’equivalente generale astratto di tutte le merci» (ibid.) e in tale veste si trasforma nell’altra faccia del denaro, essendo già divenuto la faccia falsificante della forma di merce, il cui feticismo esso riproduce in forma modernamente illusoria. È la conclusione inevitabile del processo che Debord aveva anticipato all’inizio del suo libro, nella Tesi 4:
«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini» (p. 44).
Nella Tesi 6:
«Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, il suo sovrapposto ornamento. Esso è il cuore dell’irrealismo della società reale… È l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è corollario. Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna» (pp. 44-5).
Infine, nella Tesi 34:
«Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine» (p. 54).
Non possiamo qui richiamare tutte le parti dell’opera debordiana in cui emerge prepotentemente il tema della separazione. Non si tratta più solo della separazione marxiana del produttore dall’opera (dai suoi valori d’uso e di scambio), dell’operaio dal frutto del proprio lavoro. O della separazione dalla coscienza di sé nei meccanismi molteplici dell’autoestranazione, dell’alienazione. La separazione di cui parla ora Debord è elemento costitutivo della prassi sociale globale (fondata a sua volta sulla scissione tra realtà e immagine), è parte integrante della falsa unità del mondo che nella sua totalità include anche lo spettacolo, vale a dire la parte illusoria di sé, la parte dotata di esistenza virtuale (diremmo con linguaggio odierno), quindi di non-esistenza.
Eppure non si può parlare di realtà astratte, perché lo spettacolo che si è fatto merce è attività sociale effettiva, è a sua volta un prodotto effettivo. E anche la realtà invertita dall’illusione spettacolare, rovesciata in irrealtà, è effettivamente vissuta, sia pure in funzione della «contemplazione dello spettacolo». Qualche elemento di realtà oggettiva esiste in entrambi i lati, afferma Debord nella Tesi 8:
«La realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l’essenza e il sostegno della società esistente» (p. 45).
Il tutto per concludere nella Tesi 9, invertendo e detournando una formula di Hegel, per ricavarne l’aforisma più celebre e più universalmente citato in ambito debordiano e situazionista in generale:
«Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (ibid.).
Cos’è dunque lo spettacolo divenuto ormai merce, equivalente generale, misura del grado di illusorietà del mondo rovesciato?
Per Debord è in primo luogo scissione (non più solo separazione) all’interno dell’individuo stesso. Questi affida ormai le proprie forme di manifestazione sensoriale soprattutto alla vista (e in parte all’ascolto), a discapito degli altri sensi, in primo luogo il tatto, e della fisicità in genere. Delega i propri poteri umani alla forma spettacolo; lo fa in maniera irreversibile e in una forma pressoché testamentaria rispetto a un al di là costituito dall’illusione della realtà rovesciata. Rinuncia all’elaborazione diretta dei propri sogni, affidandoli alla produzione spettacolare, trasformando quest’ultima in una sorta di sorvegliante notturna del sonno. Allo spettacolo viene delegata la rappresentanza e il diritto di parlare per tutti, dal momento che lo spettacolo
«è la rappresentazione diplomatica della società gerarchica innanzi a se stessa, dove ogni altra parola è bandita… È l’autoritratto del potere all’epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni d’esistenza. L’apparenza feticistica della pura oggettività nelle relazioni spettacolari nasconde il loro carattere di relazione tra uomini e tra classi: una seconda natura sembra dominare il nostro ambiente con le sue leggi fatali» (pp. 49-50).
E ancora una volta la conclusione di questa parte dell’universo di discorso debordiano viene affidata alla stringatezza di un’affermazione fortemente evocatrice e drammaticamente suggestiva quanto il celebre aforisma sopracitato:
«Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni d’esistenza» (p. 51).
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Manifesto del Conseil pour le maintien des occupations, maggio 1968 |
Degni di attenzione sono anche i tentativi di storicizzazione contemporanea che Debord compie per delineare una sorta di casistica o specializzazione nella diffusione della società spettacolare. E allora, se ai paesi dipendenti, arretrati sotto il profilo dello sviluppo capitalistico, non restano grandi alternative all’importazione dei modelli spettacolari delle società più avanzate (senza libertà di scelta in un’epoca che già Debord definiva come «globale» o completamente globalizzata), per le società affidate a sistemi di origine staliniana - qui definite come «dittature burocratiche» - occorre parlare di concentrazione dello spettacolare. Concentrato è il potere economico del burocrate rispetto all’insieme di un sistema economico che egli non domina completamente. E concentrato è il processo di produzione, per la sua relativa arretratezza rispetto a quello capitalistico, con una collocazione produttiva del lavoratore priva di margini sia pur minimi di scelta dal momento che il burocrate esercita il proprio potere integralmente, accompagnandosi all’uso della violenza permanente. Concentrata è infine quella che Debord chiama la «vedette assoluta», cioè il dittatore autocratico «garante della coesione totalitaria». Si pensa a Stalin, ovviamente (citato comunque nella Tesi 70 e, nei Commentari, a p. 22), e ai vari satrapi ascesi al potere nei paesi dell’Est sulla spinta dei carri armati sovietici. Parole come quelle che seguono, furono scritte nel 1967, ma paiono anticipare vividamente il crollo delle burocrazie nell’Europa dell’Est alla fine degli anni ‘80:
«Ogni crollo di una figura del potere totalitario rivela la comunità illusoria che l’approvava unanimemente e che non era che un agglomerato di solitudini senza illusioni» (p. 73).
Debord, tuttavia, cita espressamente Mao come esempio a lui contemporaneo di «accumulazione primitiva accelerata dal terrore» (p. 70) e in tal modo dimostra agli occhi dei posteri di aver capito l’essenza burocratico-dittatorial-spettacolare del regime cinese, a differenza di quanto avverrà negli anni successivi in Europa con l’esplosione del fenomeno maoista in forme più o meno caricaturali, massimo esempio di adesione passiva da parte della gioventù «ribelle» all’ideologia dello spettacolo burocratico dittatoriale.
«Se ogni cinese deve imparare Mao, e così essere Mao, è perché non ha nessun altro da essere. Là dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia» (p. 51).
Lasciando il mondo dello spettacolare concentrato e passando al mondo in cui vi è abbondanza di merci (capitalismo imperturbabilmente sviluppato) Debord parla di spettacolare diffuso. Ivi lo spettacolo è un «catalogo apologetico» della totalità degli oggetti offerti al consumo. È il canto epico dello scontro fra le merci, che tutte si deteriorano in un tale scontro senza quartiere, mentre si rafforza e si realizza la loro forma di esistenza generale, la forma di merce spettacolare, per l’appunto. Debord parla di uomo reificato, di pseudobisogni e nega la possibilità di bisogni o desideri autentici che non siano modellati dal sistema. L’accumulo illimitato e artificiale di beni prodotti dalla società dell’abbondanza, mentre uccide la possibilità stessa di espressione di bisogni reali, provoca necessariamente la falsificazione della vita sociale. A tale falsificazione la società dello spettacolo contrappone l’immagine consolatrice di una unificazione della società mediante il consumo. Ma Debord demistifica anche questa pia illusione, descrivendo il destino degli oggetti preposti al lancio di determinate mode: nel momento in cui essi affluiscono nelle case dei consumatori perdono l’aureola prestigiosa d’élite che lo spettacolo aveva loro conferito nella fase di avvio della campagna pubblicitaria e diventano prodotti di consumo volgari, banalizzati, alla portata di tutti e quindi privi del fascino spettacolare elitario originale. Ma a quel punto, già un altro prodotto di consumo fintamente d’élite ma destinato al consumo di massa, bussa alla porta per occupare il posto del precedente. E così via all’infinito.
Nella Tesi 4 dei Commentari, Debord riprende la distinzione tra forma di potere spettacolare concentrata e forma diffusa, specificando ulteriormente che la prima caratterizza «la controrivoluzione totalitaria, sia nazista che stalinista», e la seconda la presunta libertà di scelta consumistica dei salariati, all’interno di società dell’abbondanza incluse in un processo di «americanizzazione del mondo». Ora sente il bisogno, tuttavia, di aggiungere una terza forma di potere, lo spettacolare integrato, considerandolo come uno sviluppo diretto dello spettacolare diffuso, all’interno del quale si ritrovano i vecchi germi dello spettacolare concentrato, sia per il ruolo svolto da sindacati e partiti di origine staliniana, sia per l’antidemocratica longevità dei regimi governativi. E cita la Francia e l’Italia come esempi più compiuti di questa terza forma di potere spettacolare, non solo perché perfettamente rispondenti alle caratteristiche di cui sopra, ma anche per il modo in cui sono riusciti a porre termine alla contestazione rivoluzionaria del ‘68, nonostante ne fossero stati investiti di sorpresa.
Il modello di potere spettacolare integrato rappresenta fedelmente la forma di potere più sofisticata ed efficace, avendo ormai fatto della falsificazione la propria metodologia d’intervento favorita.
Il Debord dei Commentari dedica alcuni paragrafi alla descrizione delle varie forme di falsificazione, riprendendo e sviluppando intuizioni essenziali della prima opera, ma aggiornandole alla luce dell’inarrestabile sviluppo tecnologico e della corruzione politica con cui si realizza l’opera della grande falsificazione sistemica. Il quadro che ne scaturisce è degno delle più tetre distopie letterarie e ha poco da invidiare al succo del discorso di 1984, il celebre romanzo orwelliano:
«Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. Egli regna da solo ovunque; egli esegue le sue sentenze sommarie» (p. 18).
I Commentari affrontano la società dello spettacolare integrato soprattutto sotto il profilo descrittivo, rispondendo alla chiara convinzione dell’autore che la realtà falsificata e rovesciata degli anni ‘80 in cui egli si vedeva costretto a vivere fosse la forma più compiuta del modello totalitario spettacolare poggiato sulle premesse delle quali si era fornita un’interpretazione teorica nel primo volume. In questo senso il seguito dell’opera si presta ad una più facile leggibilità, ma anche al destino di un più precoce invecchiamento. Il mondo che lì viene descritto appare profondamente mutato (in peggio, ovviamente) a due-tre decenni di distanza. E non oso pensare a come lo sarà in un altro decennio o due.
Possiamo dire, invece, che le categorie di analisi profuse nel primo volume si rivelano utili ancor oggi per spiegare i processi di crescente corruzione politica, di imbarbarimento culturale, di accresciuto controllo dall’alto dei fenomeni di dilagante conformismo dal basso, la frantumazione sempre più egoistica della vita sociale, l’atomizzazione delle forme di protesta reali, la ritualizzazione capillare di quelle preordinate dal sistema, l’abolizione del ricorso alla storia come fonte d’informazione, la scomparsa dell’opinione pubblica come forma di controllo spontaneo, l’apparente degrado dei meccanismi di autodifesa della specie.
Il grande contributo debordiano alla definizione di una categoria epocale - la società del potere spettacolare (concentrato, diffuso o integrato che sia) - non poteva non arrestarsi alle soglie del nuovo millennio, esigendo che altri Debord comparissero all’orizzonte per approfondire il solco da lui tracciato. «Altri» non tanto nel numero, quanto invece nelle competenze, e tutti impegnati a rispondere ai quesiti irrimandabili della nostra epoca: la detenzione del potere spettacolare nelle mani di caste che si cooptano tra loro, poggiando su piramidi e piramidi di sottocaste analogamente autocooptantesi, può incontrare una barriera all’interno stesso dei limiti posti dalla natura allo sviluppo sociale ed economico del pianeta? La diffusione del potere totalitario spettacolare procede ovunque alla pari, o vi sono comparti del sapere umano in cui il processo è appena o niente affatto avviato? Per illustrare l’idea con un esempio: la ricerca sulla flora batterica in fondo a un oceano subisce gli effetti della spettacolarizzazione del discorso scientifico alla stessa stregua della ricerca sull’Aids? Oppure, in campo politico: il ruolo vanaglorioso e narcisistico di un presidente della Camera, ha lo stesso impatto spettacolare del giovane che si astiene alle elezioni per il rifiuto a lasciarsi coinvolgere in un cinico e disastroso gioco delle parti? E lo show-man televisivo che discetta di tutto lo scibile (dalla bioetica all’antropologia comparata) si può considerare frutto e complice del potere spettacolare alla stessa stregua del pensatore solitario impegnato ancora a cercare in libri e oggetti documentali il perché l’umanità abbia a un certo punto smarrito il rapporto con se stessa?
È un secondo set (così si dice, ormai) di interrogativi che lascio al lettore, accingendomi a concludere questa breve carrellata dei principali messaggi ricavabili dalla critica debordiana della società dello spettacolo. Lo faccio nella sincera convinzione che il peggio debba ancora venire e che vi siano ancora dei margini per impedire che ciò accada. Lasciata a se stessa, la casta più o meno impalpabile che regola l’amministrazione dello strapotere derivante dalla crescita esponenziale della società dello spettacolo ci condurrebbe (ci condurrà?) direttamente all’autodistruzione della specie, all’imbarbarimento del pianeta, alla fine più che reale della vita reale sostituita sempre più con la sua protesi virtuale rovesciata.
Insomma, mi illudo ancora che se non sarà una risata che li seppellirà, potrebbe essere pur sempre una bella insurrezione mondiale, interetnica e di massa.
In questa speranza, che qualcuno potrebbe anche nobilitare chiamandola utopia, mi sento molto vicino a Debord, cui cedo ancora una volta la parola volentieri, ricordando un ultimo brano magistrale tratto da La società dello spettacolo:
«L’unità irreale che proclama lo spettacolo è la maschera della divisione di classe su cui riposa l’unità reale del modo di produzione capitalistico. Ciò che obbliga i produttori a partecipare all’edificazione del mondo è anche ciò che da questo mondo li esclude. Ciò che mette in relazione gli uomini affrancati dalle loro limitazioni locali e nazionali è anche ciò che li allontana. Ciò che obbliga all’approfondimento del razionale è anche ciò che nutre l’irrazionale dello sfruttamento gerarchico e della repressione. Ciò che fa il potere astratto della società fa la sua non-libertà concreta» (pp. 73-4).
Da Guy Debord. Dal Superamento dell’arte alla Realizzazione della filosofia, Atti del Convegno su Debord: L’Aquila, 21 giugno 2008.