di Michele Nobile
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Le annessioni di Putin, o della pace impossibile
Per un periodo ancora non definibile non sarà possibile una soluzione diplomatica della guerra iniziata con l’invasione totale dell’Ucraina da parte delle forze armate russe, guerra iniziata dieci anni fa con l’invasione e l’annessione della Crimea e l’intervento armato negli oblast’ di Donec’k e Luhans’k a sostegno dei separatisti filo Russia sull’orlo della sconfitta. Il motivo è semplice: Putin non vuole la pace, ma la capitolazione e sottomissione dell’Ucraina. Capitolazione che Putin non riuscirà ad ottenere, per un motivo altrettanto semplice ma totalmente antagonistico al suo: per continuare ad esistere come nazionalità autonoma, sottrarsi a un genocidio culturale e mantenere uno Stato indipendente, gli ucraini non possono arrendersi né riconoscere le annessioni alla Russia del proprio territorio e di milioni di concittadini.
Che non esiste alcun «piano di pace» russo diverso dalla capitolazione dell’Ucraina è stato chiarito più volte da Putin in persona. Ad esempio, in risposta al Summit per la pace in Ucraina tenutosi a Bürgenstock in Svizzera, il 14 giugno il Presidente russo dichiarò che
«Ora, come ho già detto, la situazione è radicalmente cambiata. Gli abitanti di Cherson e Zaporižžja hanno espresso la loro posizione in referendum e le regioni di Cherson e Zaporižžja, così come le Repubbliche popolari di Donec’k e Lugansk, sono diventate parte della Federazione Russa. E non si può parlare di turbare la nostra unità statale. La volontà del popolo di stare con la Russia è inviolabile. Questa questione è chiusa per sempre e non è più oggetto di discussione»1.
Questa questione è chiusa per sempre e non è più oggetto di discussione: esiste un modo migliore per sbattere la porta in faccia a un possibile compromesso?
In conseguenza del clamoroso fallimento del piano iniziale di conquista e dei successi dell’offensiva ucraina dell’estate 2022, il dittatore russo ha dato in pasto al nazionalismo da lui stesso alimentato il contentino dell’annessione dei territori ucraini occupati. Tuttavia, se da una parte la formalizzazione della (incerta) conquista territoriale ha dato corpo ai fantasmi dell’ideologia imperiale russa, dall’altra ha messo il regime di Putin in un vicolo cieco. La decisione di annettere i territori ucraini occupati e l’emendamento alla Costituzione della Federazione russa che li incorpora costituiscono un punto di non ritorno perché Putin ha deliberatamente rinunciato alla sua carta più forte per avviare con successo - dal suo punto di vista - una trattativa circa lo status internazionale dell’Ucraina. Putin si è privato della possibilità di scambiare la restituzione delle terre occupate (magari tenendo la Crimea) con una posizione di neutralità internazionale dell’Ucraina e ulteriori accomodamenti istituzionali che consentirebbero a partiti filo-russi di influenzare la politica interna e internazionale dell’Ucraina.
L’elezione di Donald Trump a Presidente apre nuovamente la possibilità di un accordo diretto fra Stati Uniti e Russia alle spalle e sulla pelle del popolo d’Ucraina, perché Trump - che si proclama «grande amico» di Putin - è più interessato alla guerra commerciale e al ridimensionamento delle aspirazioni geopolitiche della Cina che a fermare l’espansione dell’imperialismo russo. Trump potrebbe ricattare il governo ucraino per spingerlo a negoziare con la Russia da una posizione di debolezza, minacciando la sospensione o la drastica riduzione dell’aiuto militare. Questo è senza dubbio quanto sperano a Mosca.
Tuttavia, la posizione russa rimane invariata, addirittura per gli obiettivi massimi della «denazificazione» e smilitarizzazione dell’Ucraina: per accertarsene basta consultare il sito del ministero degli esteri della Federazione russa2. Ora, tanto più perché praticamente impossibile, Putin potrebbe rinunciare a quella che definisce «denazificazione», parola in codice il cui significato reale è una purga politica che installi al potere marionette manovrate da Mosca e un processo di russificazione culturale mirato a sradicare l’identità nazionale ucraina. Non può però assolutamente rinunciare ai territori ucraini illegalmente annessi alla Russia nel 2022, perché questo equivarrebbe a una sconfitta, con possibili gravi ricadute interne. D’altra parte forse, ma è un forse molto ma molto grande, in sede di negoziato Kyiv potrebbe accettare l’annessione della Crimea e forse - un forse ancora maggiore - dei territori occupati degli oblast’ di Donec’k e Lugansk ma assolutamente non l’annessione dei territori occupati degli oblast’ di Zaporižžja e Cherson, che sono il «ponte» terrestre fra Russia e Crimea, irrinunciabile per Putin.
Dunque, per quanto forte la pressione che Trump potrebbe esercitare su Zelens’ky – certo più che su Putin - esiste un limite a quanto può pretendere, altrimenti rischiando il rigetto di un suo «piano di pace» non solo dalle parti in guerra ma anche dal suo stesso partito - oltre che dagli avversari interni - e da parte dei Paesi dell’Europa centrale e Baltica più esposti all’espansionismo russo. In effetti, considerando quanto sopra, il massimo che un Trump mediatore ben disposto verso Putin potrebbe riuscire ad ottenere non è la pace ma un mero congelamento della linea del fronte, un armistizio che creerebbe in Europa una situazione simile a quella fra le due Coree.
Quando cessare il fuoco significa capitolare
Si parla tanto e da tempo del «cessate il fuoco» (anche per il conflitto Israele-Hamas) per cui è opportuno spiegare come Putin intenda questa formula e quale sia la sua peculiarità. È di particolare importanza per coloro che pensano si possa fermare la guerra e avviare un negoziato per la pace bloccando le forniture d’armi all’Ucraina.
Ad aprile, durante una conferenza stampa, Putin inventò l’assurdità secondo cui la marcia delle truppe russe verso la conquista di Kyiv non sarebbe stata fermata dalla resistenza ucraina ma dalla sua decisione di negoziare un cessate il fuoco, su sollecitazione «occidentale». Tuttavia, così continuava la narrazione putiniana, poiché gli ucraini non avevano cessato le ostilità, ora «dobbiamo garantire che la parte opposta accetti di adottare misure che siano irreversibili e accettabili per la Federazione Russa. Pertanto, un cessate il fuoco è impossibile senza raggiungere tale obiettivo». Queste misure dovrebbero essere tali da impedire che «l’avversario approfitti di questo cessate il fuoco per migliorare le proprie posizioni, riarmarsi, rinforzare il proprio esercito attraverso la mobilitazione forzata e prepararsi a continuare il conflitto armato»3.
A giugno - e la posizione rimane questa - Putin ha subordinato il cessate il fuoco al ritiro delle truppe ucraine dal territorio sotto loro controllo degli oblast’ parzialmente annessi alla Russia - in violazione del diritto internazionale - e alla pretesa che «l’Ucraina dovrebbe adottare uno status neutrale e non allineato, non-nucleare e sottoporsi a smilitarizzazione e denazificazione»:
«Ribadisco: una volta che Kyiv accetterà il corso d’azione proposto oggi, incluso il ritiro completo delle sue truppe dalla DPR, LPR, dalle regioni di Zaporižžja e Cherson, e inizierà questo processo seriamente, siamo pronti ad avviare i negoziati prontamente e senza indugio. Ripeto la nostra ferma posizione: l’Ucraina dovrebbe adottare uno status neutrale e non allineato, essere libera dal nucleare e sottoporsi a smilitarizzazione e denazificazione»4.
Queste sono pretese di straordinaria arroganza, il cui scopo è precisamente impedire la cessazione anche temporanea delle ostilità. Se la guerra non fosse già in corso potrebbero dirsi senz’altro un ultimatum, prassi che già dalla Convenzione di Londra del 1933 per la definizione dell’aggressione non poteva più considerarsi come legittima e che, comunque, è in violazione dell’art. 2(4) della Carta delle Nazioni Unite: «I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». E però, pur agendo in evidente violazione delle norme internazionali, la propaganda russa evita scrupolosamente d’usare termini che paleserebbero lo stato reale delle cose: per cui sentiamo parlare di «operazione speciale» non di guerra; di condizioni per il cessate il fuoco invece che di resa senza condizioni.
In diplomazia sono stati usati vari termini per indicare la cessazione non definitiva delle operazioni militari, fatto che può generare una certa confusione. Tuttavia si può certamente ben stabilire la differenza fra una sospensione delle ostilità, non necessariamente totale né a tempo indeterminato (qualcosa che in passato più frequentemente si diceva tregua) - che può preludere a un negoziato politico risolutivo - e un trattato di pace che pone fine definitivamente al conflitto che, tra l’altro, può contemplare modifiche territoriali, zone smilitarizzate, accordi circa consistenza e disposizione delle forze armate e molto altro. Nei termini del diritto internazionale, soltanto un trattato di pace può sancire trasferimenti della sovranità territoriale: le annessioni durante la guerra sono legalmente nulle e invalide. E infatti, in tutto il mondo solo quattro Stati clienti della Russia ne riconoscono le annessioni (Corea del nord, Nicaragua, Siria, Venezuela). E basta il buon senso per comprendere come i referendum tenuti nei territori occupati dalle forze armate russe siano una buffonata degna di un Hitler e di uno Stalin.
Un cessate il fuoco congela il conflitto, può stabilire che entrambe le parti non accrescano le forze militari dispiegate, ammettere osservatori neutrali e altre misure per prevenire incidenti e la ripresa delle ostilità, ma non mette fine allo stato di guerra. Anche un armistizio (stabilito direttamente fra i belligeranti), benché a volte porti alla cessazione definitiva dei combattimenti, in senso stretto non pone fine allo stato di guerra: un esempio sono i quattro distinti armistizi bilaterali del 1949 fra Israele da una parte ed Egitto, Libano, Transgiordania (poi Giordania) e Siria dall’altra. A seconda delle situazioni un cessate il fuoco può preludere all’avvio del negoziato e al compromesso fra gli obiettivi di guerra delle parti per concludere il conflitto, ma può anche servire a riorganizzare, rifornire, ampliare la forza militare in vista della ripresa su più ampia scala dei combattimenti: una delle ragioni più importanti per cui uno dei belligeranti può rigettare la proposta di cessare il fuoco. Questo è il modo in cui in pratica e secondo diritto sono concepiti il cessate il fuoco, la tregua, l’armistizio o come dir si voglia una interruzione delle ostilità. Perfino quando i negoziati per un trattato di pace sono già avviati possono darsi importanti operazioni militari, come i bombardamenti statunitensi su Hanoi nel dicembre 1972.
Come si è visto invece Putin si è dichiarato disponibile a un cessate il fuoco a condizioni coincidenti con la concretizzazione di alcuni dei suoi obiettivi di guerra, che dovrebbero invece essere oggetto di un negoziato per un trattato di pace. Queste pretese sono ovviamente irricevibili, in quanto sono poco meno che una richiesta di resa senza condizioni. La conferma di questa analisi viene dallo stesso Putin che nel discorso di giugno ha dichiarato:
«l’essenza della nostra proposta non è una tregua temporanea o un cessate il fuoco, come l'Occidente potrebbe preferire, per consentire al regime di Kiev di riprendersi, riarmarsi e prepararsi per una nuova offensiva. Ripeto: non stiamo discutendo di congelare il conflitto, ma della sua risoluzione definitiva» (corsivi miei).
Rispetto a quella d’aprile questa dichiarazione è rivelatrice e in effetti più coerente: ciò che vuole Putin non è un cessate il fuoco ma una «risoluzione definitiva» alle sue condizioni. Gli arroganti ultimatum di Putin avrebbero senso nei confronti di uno Stato del tutto incapace di difendersi o chiaramente sconfitto sul campo di battaglia, costretto ad accettare le condizioni dell’aggressore, come chi cede il portafoglio a un bandito che gli mette un coltello alla gola. Nel caso dell’Ucraina la situazione è però molto diversa. I molteplici errori nella concezione operativa e nell’esecuzione tattica nella prima fase dell’invasione e l’utilizzo dei soldati russi (ma niente affatto necessariamente d’etnia russa) come carne da cannone rimarranno nella storia militare come lezioni negative, esempi di quel che non si deve fare (esemplari a proposito i nove mesi della battaglia per Bachmut, un tritacarne per i mercenari e per i criminali scarcerati del gruppo Wagner, che portò all’ammutinamento del loro capo Prigožin). Al contrario, le lezioni positive di questa guerra vengono dal lato ucraino: le offensive negli oblast’ di Charkiv e Cherson, le capacità d’utilizzare al meglio risorse scarse, d’iniziativa tattica decentralizzata, d’adattamento di tecnologia civile a fini bellici e di rapida innovazione di tattica e di mezzi militari, d’ingannare e sorprendere nell’esecuzione delle operazioni, di sostegno della mobilitazione civile e dal basso al personale e all’apparato militare. E per quanto al momento nessuna delle parti sia in grado di condurre una serie di operazioni in profondità con effetti militari «risolutivi», con la parziale occupazione dell’oblast’ russo di Kursk le forze armate ucraine hanno dimostrato di poter condure efficaci operazioni offensive portando la guerra nello stesso territorio della Federazione russa. Se gli aiuti militari all’Ucraina fossero stati più tempestivi e più importanti in quantità e qualità l’arroganza di Putin sarebbe stata da tempo fortemente ridimensionata.
È dunque ovvio che il governo ucraino non può iniziare un negoziato partendo dal riconoscimento dell’annessione di circa il 20% del proprio territorio (incluse le parti attualmente sotto suo controllo degli oblast’ parzialmente occupati dai russi), una superficie pari all’intera Italia settentrionale dalla Val d’Aosta all’Emilia Romagna.
Pronunciate da Putin parole come «cessate il fuoco» significano «resa dell’Ucraina». Egli non ha alcuna intenzione di negoziare seriamente. Lo scopo delle finte aperture di Putin al cessate il fuoco e al negoziato è semplicemente generare confusione nella scena politica dei Paesi che sostengono l’Ucraina per por fine o, almeno, limitare il loro impegno a fornire aiuti militari alla resistenza ucraina. Queste finte aperture al negoziato sono da considerarsi parte integrale della strategia bellica e diplomatica della Russia, la cui altra faccia è l’agitazione della minaccia nucleare e l’arrogante susseguirsi di «linee rosse» a riguardo degli aiuti militari, che sono state tutte superate ma non al momento giusto.
È per questo motivo che rivendicare la fine delle forniture d’armi all’Ucraina è, nel migliore dei casi, pacifismo solo nelle intenzioni: nella realtà fa il gioco della strategia di guerra russa. Viceversa, se si sostiene in tutti i modi la guerra d’indipendenza dell’Ucraina, allora le truppe d’invasione potranno subire sconfitte tali da costringere la dittatura di Putin al negoziato.
Il revisionismo imperiale russo e l’appeasement con il regime di Putin
L’aggressione russa all’Ucraina che, lo ricordo ancora una volta, è iniziata nel 2014 e segue la guerra alla Georgia, la distruzione di Grozny e l’asservimento della Cecenia, può intendersi come una conseguenza dell’allargamento della Nato e dell’Unione europea ai Paesi già satelliti o parte dell’Unione sovietica, ma non come una reazione difensiva russa a una ipotetica minaccia: tra le due cose c’è una grande differenza, come fra due differenti periodi storici e due diverse situazioni geopolitiche. È una conseguenza nel senso che, con l’implosione dell’Unione sovietica e la rapida transizione dal totalitarismo statalista al capitalismo e a un sistema politico liberale, i nuovi Stati indipendenti europei (a differenza di quelli ex sovietici dell’Asia centrale) non avevano alcun motivo di restare legati a una Russia in piena catastrofe sociale ed economica ma che, come impero zarista e poi sovietico, si era imposta come potenza dominante e repressiva d’ogni velleità d’indipendenza nazionale e perfino di riforma economica locale; negli anni Novanta in Russia il nazionalismo rosso-bruno era già forte.
Tuttavia, all’inizio del nuovo secolo le esportazioni energetiche hanno permesso di ricentralizzare il governo e ricostruire la potenza militare russa: due condizioni del rilancio dell’imperialismo russo. A questo proposito occorre dire che le teorie intorno agli storici imperialismi capitalistici non sono applicabili all’odierno capitalismo russo (a prescindere dalla loro validità per gli imperialismi «occidentali»). Il punto cruciale è che il capitalismo russo è risultato dall’implosione e trasformazione di una formazione sociale peculiare, totalitaria e statalista ma né capitalista né socialista. Il passato sovietico e la stessa modalità della transizione hanno lasciato un segno forte, in molte dimensioni della vita sociale e politica russa. Qui, in breve, interessa notare che fin dalla transizione degli anni Novanta il blocco dominante del capitalismo russo è strettamente legato al potere statuale, in modo qualitativamente superiore a quello dei capitalismi detti «occidentali», e dal sistematico ricorso a mezzi non-economici nella gestione interna e nella concorrenza economica, mezzi che nei Paesi a capitalismo avanzato (quelli detti «occidentali) sarebbero perseguiti in quanto criminali e la cui «normalità» richiede complicità e sostegno da parte delle istituzioni statali. Questo è il motivo per cui a proposito della Russia si parla di capitalismo oligarchico e proliferano analisi e neologismi che richiamano l’organica simbiosi fra potere economico e politico, ad esempio:
«Il capitalismo politico è caratterizzato dallo sfruttamento delle cariche politiche per accumulare ricchezza privata. Definirei i capitalisti politici la frazione della classe capitalista il cui principale vantaggio competitivo deriva da benefici selettivi dello Stato, a differenza dei capitalisti il cui vantaggio è radicato nelle innovazioni tecnologiche o in una forza lavoro particolarmente economica. I capitalisti politici non sono esclusivi dei paesi post-sovietici, ma sono in grado di prosperare proprio in quelle aree in cui lo Stato ha storicamente svolto il ruolo dominante nell'economia e accumulato un capitale immenso, che ora è aperto allo sfruttamento privato»5.
La macroeconomia del capitalismo russo è caratterizzata dalla dipendenza dalle esportazioni d’energia, da bassi livelli di investimento (nel momento migliore pari alla metà del tasso d’investimento della Cina) e, fino a quando è stato possibile, da alti livelli d’esportazione di capitale, quasi al livello della Cina, non per finanziare investimenti all’estero bensì per piazzare il capitale al sicuro nei «paradisi fiscali». Nonostante il miglioramento reale delle condizioni di vita durante i primi due mandati di Putin e l’apparente stabilità, obiettivo caratterizzante il regime, i limiti della macroeconomia russa divennero evidenti con il crollo economico del 2009 (il doppio di quanto registrato nei Paesi Ocse in conseguenza della Grande recessione). Sottoposto a tensioni interne, manifestatesi nelle proteste del 2011-3, il regime è diventato sempre più autoritario. La simbiosi di potere politico ed economico non può assolutamente tollerare l’ascesa al potere dell’opposizione, da impedire con tutti i mezzi: le elezioni si possono svolgere ma l’esito non può essere che la conferma del partito al potere. In altri termini, si tratta di un regime autoritario che tende alla dittatura aperta. E questo ci porta alla ragione più importante per cui non è possibile fare la pace col regime di Putin.
Poiché, a differenza di quello cinese, il capitalismo russo non è riuscito ad essere competitivo nell’economia mondiale capitalista combinando sfruttamento della forza lavoro e sviluppo tecnologico, il suo futuro è nella ricostruzione di una sfera d’influenza territoriale: «Se i benefici selettivi dello Stato sono fondamentali per l’accumulo della loro ricchezza, questi capitalisti non hanno altra scelta che recintare il territorio in cui esercitano il controllo monopolistico, controllo che non deve essere condiviso con nessun'altra frazione della classe capitalista»6.
Conseguentemente, per sostenere le proprie ambizioni estere il capitalismo russo deve ricorrere principalmente a mezzi non-economici, che vanno dal ricatto energetico all’utilizzo strumentale di minoranze russofone, fino all’estrema risorsa dell’aggressione militare. Queste ambizioni riguardano il cosiddetto «mondo russo», ovvero la vasta area non-russa un tempo conquistata dall’autocrazia zarista, riconquistata e ampliata dall’espansionismo sovietico.
La necessità di creare lo spazio geopolitico per l’espansione del capitalismo russo è coerente con la trasformazione della politica interna.
Questa verte sul passaggio dalla spoliticizzazione normalizzatrice del primo decennio del secolo alla campagna propagandistica, legislativa e di modifiche istituzionali volta a costruire una identità russa nazional-imperiale; e quindi dal passaggio da una legittimazione basata sulla stabilità socioeconomica alla legittimazione basata sulla gestione di crisi e della lotta agli attori interni ed esteri che si oppongono all’identità nazional-imperiale e alla sua proiezione geopolitica, condizione per la prosperità dell’oligarchia capitalista russa e della stabilità del regime. Il processo di costruzione dell’identità nazional-imperiale richiede l’elaborazione di un’ideologia eclettica, per cui la Russia di Putin sarebbe erede «spirituale» sia dell’Impero zarista sia del dominio sovietico sull’Europa centrale e orientale, combinando tradizionalismo della Chiesa ortodossa e mitologia della Grande guerra patriottica, stretto controllo sull’istruzione e censura, assimilazione degli oppositori ad «agenti stranieri». Il filo conduttore è la potenza dello Stato russo sotto la saggia guida di un Capo e la proiezione della «grandezza» della Russia nella politica internazionale. In questo modo Putin ha saldato il destino dell’autoritarismo interno all’espansionismo territoriale e al riconoscimento internazionale di una sfera d’influenza esclusiva della Russia. Per la stessa ragione, anche movimenti che si limitano a rivendicare elezioni senza frodi, libertà d’opinione e d’organizzazione politica e sindacale sindacale, garanzie dall’arbitrio poliziesco, costituiscono una «minaccia esistenziale» per l’oligarchia e il regime politico della Russia.
La sintesi di quanto sopra è che il regime di Putin aspira a trasformare la geopolitica europea con un’aggressività che può confrontarsi solo con il revisionismo del nazionalismo germanico dopo la Prima guerra mondiale, la cui ultima espressione furono il nazismo e l’esplosione della Seconda guerra mondiale7. Ogni successo dell’espansione imperiale russa alimenterà ulteriori ambizioni e aggressioni, sia nei modi ambigui e «coperti» della «guerra ibrida» sia dell’intervento armato, come nella guerra contro la Cecenia, la guerra contro la Georgia, l’appoggio ai secessionisti della Transnistria in Moldavia, l’invasione e annessione della Crimea e l’intervento armato per salvare i secessionisti in Ucraina nel 2014 e, infine, l’invasione dell’Ucraina nel 2022. Viceversa, come nel 1936 in Spagna la sconfitta del franchismo avrebbe arginato l’aggressività nazista e fascista, così in Ucraina può essere battuto l’espansionismo imperiale russo.
D’altra parte, come negli anni Trenta del secolo scorso, per diversi interessi politici, ideologici ed economici, nei partiti, governi e gruppi economici «occidentali» non mancano i sostenitori dell’appeasement; e a sinistra non mancano neanche i «pronipoti» discendenti degli stalinisti che nel 1939-41 accettarono la collaborazione diplomatica, militare, poliziesca ed economica fra Terzo Reich ed Unione Sovietica. Sappiamo come andò a finire.
Per il futuro d’una sinistra ancora degna di questo nome occorre prendere atto che non esiste solo l’imperialismo degli Stati detti occidentali ma anche un imperialismo russo. E occorre capire che con l’aggressione all’Ucraina l’imperialismo russo ha determinato una situazione di estrema gravità per l’insieme dei popoli d’Europa. Chi conosce l’elementare differenza tra l’antimperialismo e l’antiamericanismo e non è accecato dalla retorica reazionaria del «sovranismo» in stile putiniano, non può che vedere nella politica del regime russo l’azione di un imperialismo revanschista e reazionario, in questo simile (non identico) a quello della Germania nazista negli anni Trenta.
La sinistra occidentale si trova di fronte a un bivio storico. O si schiera con la resistenza del popolo ucraino e quindi per l’impiego di tutti i mezzi - militari, politici ed economici - per fermare la guerra scatenata dalla dittatura di Putin, e conquistare una pace giusta, che reintegri i territori illegalmente annessi dalla Russia, consenta la ricostruzione economica del paese e ne garantisca l’indipendenza, tutte condizioni necessarie perché gli ucraini possano decidere liberamente il futuro politico e sociale del loro Paese. Oppure si schiera con un regime che, come nel 1939-41, punta a far arretrare le lancette della storia e che ripropone l’imperialismo nella sua forma più rozza e brutale, secondo un disegno imperiale e reazionario destinato a fallire come fu distrutto quello hitleriano ma che, prima di crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni, genererà enormi sofferenze e gravi sventure negli anni a venire.
Una sinistra del genere rientra in quel che Marx ed Engels definirono «socialismo feudale»: una formazione retrograda, meritatamente destinata alla spazzatura della storia.
Note
1) Meeting with Foreign Ministry senior officials, 14 giugno 2024, http://en.kremlin.ru/events/president/news/, corsivi miei.
2) Ad esempio: Briefing by Foreign Ministry Spokeswoman Maria Zakharova, Mosca, 13 novembre 2024, «Ukraine crisis update»: «All of these facts once again underscore the relevance of the special military operation aimed at denazification and demilitarisation of Ukraine, as well as the elimination of threats emanating from its territory. As stated by the Russian leadership, all objectives of the operation will be fully achieved».
3) Vladimir Putin, Answers to Russian media questions, Astana, 4 aprile 2024, http://www.en.kremlin.ru/events/president/news/74469, corsivi miei.
4) Meeting with Foreign Ministry senior officials, 14 giugno 2024, http://en.kremlin.ru/events/president/news/, corsivi miei.
5) Dal capitolo «Behind Russia’s war is thirty years of post-Soviet class conflict» (già apparso in Jacobin, ottobre 2022), in Towards the abyss. Ukraine from Maidan to war, di Volodymyr Ishchenko, Verso, Londra 2024. Per una discussione sulle caratteristiche del capitalismo russo, da autori con una impostazione marxista: Simon Pirani, Change in Putin’s Russia, Power, money and people, Pluto Press 2010, importante per la transizione negli anni Novanta e il primo periodo del regime di Putin; Ruslan Dzarasov, The conundrum of Russian capitalism. The post-soviet economy in the world system, Pluto Press, London 2013, analizza dettagliatamente modalità di gestione finanziaria dei grandi gruppi russi e i meccanismi di accumulazione centrati sull’estrazione di rendita e il rapporto col potere politico; sul nesso di politica ed economia, di Ilya Matveev: «Stability’s end. The political economy of Russia’s intersecting crises since 2009», in Crises in the post-Soviet space, a cura di F. Jaitner-T. Olteanu-T. Spöri, Routledge, Londra 2018; «State, capital, and the transformation of the neoliberal policy paradigm in Putin’s Russia», in The global rise of authoritarianism in the 21st century. Crisis of neoliberal globalization and the nationalist response, a cura di Berch Berberoglu, Routledge, Londra 2020; «Between political and economic imperialism. Russia’s shifting global strategy», Journal of labor and society, 25, n. 2, 2021. Rimando anche alla seconda parte di Michele Nobile, Invasioni russe. Polonia 1939-Ucraina, Massari editore, Bolsena 2022.
6) Da «Behind Russia’s war is thirty years of post-Soviet class conflict», op. cit.
7) Michele Nobile, «La Russia come imperialismo aggressivo. Un confronto col Terzo Reich e l’unione Sovietica 1939-40», 14 gennaio 2024, http://utopiarossa.blogspot.com/2024/01/la-russia-come-imperialismo-aggressivo.html
Appendice: le annessioni e il diritto internazionale
Per il diritto internazionale le annessioni sono possibili solo dopo un trattato di pace, non durante il conflitto armato, anche perché ledono i diritti dei civili dei territori occupati, esattamente come sta avvenendo in questo momento in Ucraina.
Il motivo lo spiega bene questo passo del Commento del 1958 all’articolo 47 della Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, relativa alla Protezione dei civili in tempo di guerra. È lungo ma val la pena citarlo per intero, affinché i fintopacifisti - quelli della «pace» senza qualifiche - lo meditino attentamente:
«Come è stato sottolineato nel commento all’articolo 4, l’occupazione del territorio in tempo di guerra è essenzialmente una situazione temporanea, de facto, che non priva la Potenza occupata né della sua statualità né della sua sovranità; si limita a interferire con il suo potere di esercitare i suoi diritti. Questo è ciò che distingue l’occupazione dall’annessione, per cui la Potenza occupante acquisisce tutto o parte del territorio occupato e lo incorpora nel proprio territorio.
Di conseguenza l’occupazione in seguito alla guerra, pur rappresentando a tutti gli effetti un possesso effettivo, non può implicare alcun diritto di disporre di un territorio. Finché le ostilità continuano, la Potenza occupante non può quindi annettere il territorio occupato, anche se occupa l’intero territorio interessato. Una decisione su questo punto può essere raggiunta solo nel trattato di pace. Si tratta di una norma universalmente riconosciuta, avallata dai giuristi e confermata da numerose sentenze di tribunali internazionali e nazionali.
Eppure la Seconda guerra mondiale ci fornisce diversi esempi di “annessione anticipata”, a seguito di un’azione unilaterale da parte del vincitore di disporre del territorio che aveva occupato. La popolazione di tali territori, che spesso ricopriva una vasta area, non godeva del beneficio delle regole di occupazione, era sprovvista dei diritti e delle tutele cui aveva legittimamente diritto, ed era quindi soggetta a qualunque legge o regolamento lo Stato annesso volesse promulgare.
Consapevole della natura estremamente pericolosa di tali procedimenti, che lasciano spazio ad azioni e decisioni arbitrarie, la Conferenza Diplomatica ha ritenuto necessario stabilire che atti di tale non hanno alcun effetto sui diritti delle persone protette, che, loro malgrado, continuano ad avere diritto ai benefici conferiti dalla Convenzione.
Sarà bene notare che il riferimento all’annessione in questo articolo non può essere considerato come implicante il riconoscimento di questa modalità di acquisizione della sovranità».
S’intende che gli estensori di questo commento avevano presente il nazismo e la possibilità del ripetersi di prassi simili. Ora la popolazione ucraina dei territori annessi alla Federazione Russa è soggetta a decisioni della forza occupante che violano gravemente i diritti dei civili in tempo di guerra, ad esempio l’arruolamento coatto nella forza nemica del loro Paese (proibito dall’art. Art. 51 della Convenzione: «La Potenza occupante non potrà costringere persone protette a prestar servizio nelle sue forze armate o ausiliarie. Qualsiasi pressione o propaganda intesa ad ottenere arruolamenti volontari è vietata»). Quel che sta accadendo nei territori illegalmente annessi è vergognoso e intollerabile, che fa comprendere quale sarà il trattamento degli ucraini soggetti all’occupazione e perché essi devono essere liberati.
Poiché le annessioni possono essere legalizzate solo come conseguenze di un trattato di pace, saranno ben pochi gli Stati che le riconosceranno, come già è stato per l’annessione della Crimea. Il che implica che, al fine di non contribuire alla persistenza di una situazione ingiusta e illegale, gli Stati hanno anche il dovere di negare alla Russia i vantaggi che potrebbe trarre dallo sfruttamento economico dei territori annessi. Se le linee del fronte dovessero congelarsi, quel che ne deriverebbe sarebbe una situazione di tipo coreano, una fascia altamente militarizzata destinata a durare per anni. E poi, forse i nipotini degli hitlerocomunisti e i fintopacifisti non se ne rendono conto, ma se si ritiene legittima l’annessione dei territori occupati dalla Russia in Ucraina allora si legittima anche l’art. 1 della legge israeliana del luglio 1980, che di fatto annette Gerusalemme a Israele: «completa e unita, Gerusalemme è la capitale di Israele».
ENGLISH
WHY PEACE WITH PUTIN IS NOT POSSIBLE
By Michele Nobile
Putin’s Annexations, or the Impossibility of Peace
For an as-yet-undetermined period, a diplomatic solution to the war triggered by Russia's full-scale invasion of Ukraine will remain out of reach. This conflict began ten years ago with the invasion and annexation of Crimea and the armed intervention in the Donetsk and Luhansk oblasts to support pro-Russian separatists on the verge of defeat. The reason for this impasse is simple: Putin does not seek peace but rather the capitulation and subjugation of Ukraine. However, such capitulation is unattainable for a comparably straightforward but fundamentally opposing reason: to continue existing as an autonomous nationality, avoid cultural genocide, and maintain an independent state, Ukrainians cannot surrender or acknowledge Russia's annexation of their territories and millions of their fellow citizens.
Putin himself has repeatedly clarified that there is no "peace plan" from Russia other than Ukraine's capitulation. For instance, in response to the Peace Summit on Ukraine held in Bürgenstock, Switzerland, on June 14, the Russian President stated:
"Now, as I have already said, the situation has radically changed. The residents of Kherson and Zaporizhzhia have expressed their position in referendums, and the regions of Kherson and Zaporizhzhia, along with the Donetsk and Luhansk People's Republics, have become part of the Russian Federation. And there can be no question of disrupting our state unity. The people's will to remain with Russia is inviolable. This issue is closed forever and is no longer subject to discussion."
This issue is closed forever and is no longer subject to discussion—could there be a clearer way to slam the door on any potential compromise?
Following the glaring failure of the initial conquest plan and the successes of Ukraine's summer 2022 counteroffensive, the Russian dictator offered Russian nationalism, which he himself had fueled, the consolation prize of annexing occupied Ukrainian territories. However, while formalizing these (uncertain) territorial gains gave substance to the specters of Russian imperial ideology, it also boxed Putin's regime into a corner. By annexing occupied Ukrainian territories and amending Russia’s Constitution to incorporate them, Putin crossed a point of no return, forfeiting his strongest leverage to successfully initiate— from his perspective—negotiations on Ukraine's international status.
Putin eliminated the possibility of exchanging occupied territories (perhaps retaining Crimea) for Ukrainian neutrality and institutional accommodations that might allow pro-Russian parties to influence Ukraine's internal and international policies.
The election of Donald Trump as President reopens the possibility of a direct agreement between the United States and Russia at Ukraine's expense. Trump, who proclaims himself a "great friend" of Putin, is more focused on the trade war and curbing China's geopolitical aspirations than halting Russian imperialist expansion. Trump could coerce the Ukrainian government into negotiating with Russia from a weakened position by threatening to suspend or drastically reduce military aid—a prospect Moscow undoubtedly hopes for.
However, Russia's stance remains unchanged, even regarding maximal objectives like the "denazification" and demilitarization of Ukraine. This can be verified by consulting the Russian Foreign Ministry's website. Realistically, Putin is unlikely to abandon what he calls "denazification," a coded term meaning political purges to install Moscow-controlled puppets and a cultural Russification process aimed at eradicating Ukrainian national identity.
Nevertheless, he absolutely cannot relinquish the Ukrainian territories illegally annexed by Russia in 2022, as doing so would signify defeat, potentially with severe internal repercussions. On the other hand, Kyiv might—though it’s a very big "might"—accept the annexation of Crimea and perhaps even the occupied territories in Donetsk and Luhansk oblasts during negotiations. However, Kyiv would categorically reject the annexation of the occupied territories in Zaporizhzhia and Kherson oblasts, which form the indispensable land bridge between Russia and Crimea—a non-negotiable for Putin.
Therefore, despite how much pressure Trump might exert on Zelensky—certainly more than on Putin—there are limits to what can be demanded. Otherwise, his "peace plan" risks rejection not only by the warring parties but also by his own party (as well as domestic opponents) and Central European and Baltic countries most exposed to Russian expansionism.
When Ceasefires Mean Capitulation
The term "ceasefire" has been much discussed, including in the context of the Israel-Hamas conflict. It’s crucial to clarify how Putin understands this formula and its peculiarity, particularly for those who believe halting arms supplies to Ukraine could end the war and initiate peace negotiations.
In April, during a press conference, Putin absurdly claimed that Russian troops’ advance toward Kyiv was halted not by Ukrainian resistance but by his decision to negotiate a ceasefire at the West's urging. According to Putin's narrative, since Ukraine did not cease hostilities, Russia now "must ensure that the opposing side agrees to adopt measures that are irreversible and acceptable to the Russian Federation. Thus, a ceasefire is impossible without achieving this goal."
In June, Putin conditioned a ceasefire on the withdrawal of Ukrainian troops from the territory under Russian control in the illegally annexed oblasts and on Ukraine adopting a neutral, non-aligned, non-nuclear status while undergoing demilitarization and "denazification":
"I reiterate: once Kyiv accepts the proposed course of action, including the complete withdrawal of its troops from the DPR, LPR, Zaporizhzhia, and Kherson regions, and begins this process seriously, we are ready to promptly initiate negotiations without delay. I emphasize our firm position: Ukraine should adopt a neutral, non-aligned status, be free from nuclear weapons, and undergo demilitarization and denazification."
These extraordinary demands aim to prevent even a temporary cessation of hostilities.
Supporting Ukraine's Independence War
Given Putin's demands, it is clear that words like "ceasefire" from him mean "Ukraine's surrender." The goal of Putin's sham overtures toward a ceasefire and negotiation is to sow confusion in the political spheres of countries supporting Ukraine, thereby ending or at least limiting their military aid to Ukrainian resistance. Such overtures are integral to Russia's war strategy, alongside nuclear threats and shifting "red lines" regarding military aid—all of which have been surpassed, albeit not promptly.
Calling for an end to arms supplies to Ukraine, therefore, is, at best, pacifism in intent only; in reality, it plays into Russia’s war strategy. Conversely, comprehensive support for Ukraine's independence war could deliver defeats significant enough to compel Putin’s dictatorship to negotiate.
Russian Imperial Revisionism and Appeasement with Putin's Regime
Russia’s aggression against Ukraine, which, I must remind you, began in 2014 and followed the war in Georgia, the destruction of Grozny, and the subjugation of Chechnya, can be interpreted as a consequence of NATO and EU expansion into countries formerly under Soviet control. However, it cannot be viewed as a defensive reaction to a hypothetical threat: these are two vastly different concepts, just as they pertain to different historical periods and geopolitical situations. It is a consequence in the sense that, with the collapse of the Soviet Union and the rapid transition from statist totalitarianism to capitalism and a liberal political system, the new independent European states (unlike the former Soviet states of Central Asia) had no reason to remain tied to a Russia in the throes of social and economic catastrophe. Russia had, as a Tsarist and later Soviet empire, established itself as a dominant and repressive force, stifling aspirations for national independence and even local economic reform. By the 1990s, red-brown nationalism was already strong in Russia.
At the turn of the century, however, energy exports enabled the centralization of government and the reconstruction of Russia’s military power—two prerequisites for the revival of Russian imperialism. It is important to note that theories concerning historical capitalist imperialisms do not apply to contemporary Russian capitalism (irrespective of their validity for "Western" imperialisms). The critical point is that Russian capitalism emerged from the collapse and transformation of a unique social formation—totalitarian and statist but neither capitalist nor socialist. The Soviet past and the nature of its transition have left a profound mark on many dimensions of Russian social and political life.
Of particular interest here is the fact that since the 1990s transition, the dominant bloc of Russian capitalism has been deeply intertwined with state power to an extent far greater than in so-called "Western" capitalisms. It systematically relies on non-economic means for internal management and economic competition—means that would be criminalized in advanced capitalist countries ("the West") and whose "normalcy" requires complicity and support from state institutions. This is why Russia is often described as an oligarchic capitalism, with analyses and neologisms proliferating to capture the organic symbiosis between economic and political power. For example:
"Political capitalism is characterized by exploiting political positions to accumulate private wealth. I would define political capitalists as the fraction of the capitalist class whose principal competitive advantage derives from selective state benefits, as opposed to capitalists whose advantage is rooted in technological innovation or a particularly inexpensive labor force. Political capitalists are not exclusive to post-Soviet countries but thrive precisely in areas where the state historically played a dominant role in the economy and accumulated immense capital, now open to private exploitation."
The macroeconomy of Russian capitalism is defined by dependence on energy exports, low investment levels (at their peak, half the investment rate of China), and, until recently, high capital outflows nearly comparable to China's—not to fund foreign investments but to secure assets in "tax havens." Despite real improvements in living standards during Putin's first two terms and apparent stability—a hallmark of his regime—the limitations of the Russian macroeconomy became evident during the 2009 economic crash (double the contraction recorded in OECD countries due to the Great Recession). Under internal pressures, reflected in the protests of 2011–2013, the regime grew increasingly authoritarian.
The symbiosis of political and economic power cannot tolerate the rise of opposition forces, which must be suppressed by any means necessary: elections may take place, but their outcome can only confirm the ruling party’s power. In other words, this is an authoritarian regime tending toward open dictatorship. This brings us to the most crucial reason why peace with Putin's regime is impossible.
Unlike China, Russian capitalism has failed to be competitive in the global capitalist economy by combining labor exploitation with technological development. Its future lies in reconstructing a sphere of territorial influence:
"If selective state benefits are critical to wealth accumulation, these capitalists have no choice but to fence off the territory where they exercise monopolistic control, control that must not be shared with any other fraction of the capitalist class."
To sustain its foreign ambitions, Russian capitalism must resort primarily to non-economic means, ranging from energy blackmail to the instrumental use of Russian-speaking minorities, and ultimately to military aggression. These ambitions target the so-called "Russian world"—the vast non-Russian area once conquered by Tsarist autocracy, reconquered, and expanded by Soviet expansionism.
The need to create geopolitical space for the expansion of Russian capitalism aligns with the transformation of its domestic politics. This shift moves from the stabilizing depoliticization of the early 2000s to a propagandistic, legislative, and institutional campaign aimed at building a Russian national-imperial identity. The regime’s legitimacy transitions from socioeconomic stability to crisis management and combating domestic and foreign actors who oppose this national-imperial identity and its geopolitical projection—conditions essential for the prosperity of the Russian capitalist oligarchy and the stability of the regime.
The construction of this national-imperial identity necessitates the elaboration of an eclectic ideology in which Putin's Russia is portrayed as the "spiritual" heir of both the Tsarist Empire and Soviet dominance over Central and Eastern Europe. This ideology combines Orthodox Church traditionalism and the mythology of the Great Patriotic War, with strict control over education, censorship, and the branding of dissenters as "foreign agents." The unifying thread is the power of the Russian state under the wise leadership of a single leader and the projection of Russia’s "greatness" in international politics.
Putin has thus tied the fate of domestic authoritarianism to territorial expansionism and international recognition of an exclusive Russian sphere of influence. For this reason, even movements advocating for free elections, freedom of speech, and political and trade union organization pose an "existential threat" to Russia’s oligarchy and political regime.
In summary, Putin's regime aspires to reshape European geopolitics with an aggressiveness comparable only to the revisionism of German nationalism after World War I, culminating in Nazism and the outbreak of World War II. Every success of Russian imperial expansion fuels further ambitions and aggressions, whether through ambiguous "hybrid warfare" or outright military intervention, as seen in the wars against Chechnya and Georgia, support for Transnistrian separatists in Moldova, the invasion and annexation of Crimea, armed intervention to save separatists in Ukraine in 2014, and, ultimately, the invasion of Ukraine in 2022. Conversely, just as Franco's defeat in 1936 could have curbed Nazi and Fascist aggression, Russian imperial expansionism can be defeated in Ukraine.
As in the 1930s, however, certain political, ideological, and economic interests in "Western" parties, governments, and economic groups favor appeasement. On the left, there are also "descendants" of the Stalinists who, in 1939–1941, accepted diplomatic, military, police, and economic collaboration between the Third Reich and the Soviet Union. We know how that ended.
For the future of a left still worthy of its name, it is crucial to acknowledge not only the imperialism of so-called Western states but also Russian imperialism. With its aggression against Ukraine, Russian imperialism has created a situation of extreme gravity for all the peoples of Europe. Anyone who understands the elementary difference between anti-imperialism and anti-Americanism and is not blinded by the reactionary rhetoric of "sovereignty" in Putinian style must see Russian policy as the action of a revanchist and reactionary imperialism, akin (though not identical) to Nazi Germany in the 1930s.
The Western left faces a historic crossroads. It can either side with the Ukrainian people's resistance—employing all military, political, and economic means to stop Putin's dictatorship and achieve a just peace that restores illegally annexed territories, enables the country’s economic reconstruction, and guarantees its independence, all necessary conditions for Ukrainians to freely decide their political and social future. Or it can align with a regime seeking to turn back the clock and restore imperialism in its crudest and most brutal form—a reactionary imperial project destined to fail like Hitler’s, but not before causing immense suffering and great calamities in the years to come.
Such a left belongs to what Marx and Engels called "feudal socialism": a reactionary formation, rightfully destined for the dustbin of history.
Notes
1. Meeting with senior officials of the Foreign Ministry, June 14, 2024, [http://en.kremlin.ru/events/president/news/](http://en.kremlin.ru/events/president/news/), emphasis mine.
2. For example: Briefing by Foreign Ministry Spokeswoman Maria Zakharova, Moscow, November 13, 2024, “Ukraine crisis update”: “All of these facts once again underscore the relevance of the special military operation aimed at denazification and demilitarization of Ukraine, as well as the elimination of threats emanating from its territory. As stated by the Russian leadership, all objectives of the operation will be fully achieved.”
3. Vladimir Putin, *Answers to Russian media questions*, Astana, April 4, 2024, [http://www.en.kremlin.ru/events/president/news/74469](http://www.en.kremlin.ru/events/president/news/74469), emphasis mine.
4. Meeting with senior officials of the Foreign Ministry, June 14, 2024, [http://en.kremlin.ru/events/president/news/](http://en.kremlin.ru/events/president/news/), emphasis mine.
5. From the chapter “Behind Russia’s war is thirty years of post-Soviet class conflict” (previously published in *Jacobin*, October 2022), in *Towards the Abyss: Ukraine from Maidan to War* by Volodymyr Ishchenko, Verso, London 2024. For a discussion on the characteristics of Russian capitalism from authors with a Marxist approach: Simon Pirani, *Change in Putin’s Russia: Power, Money and People*, Pluto Press, 2010, which is significant for understanding the transition of the 1990s and the early period of Putin’s regime; Ruslan Dzarasov, *The Conundrum of Russian Capitalism: The Post-Soviet Economy in the World System*, Pluto Press, London, 2013, which provides a detailed analysis of the financial management methods of major Russian conglomerates and mechanisms of accumulation centered on rent extraction and political power relations. Regarding the nexus between politics and economics, see Ilya Matveev: “Stability’s End: The Political Economy of Russia’s Intersecting Crises since 2009,” in *Crises in the Post-Soviet Space*, edited by F. Jaitner, T. Olteanu, and T. Spöri, Routledge, London, 2018; “State, Capital, and the Transformation of the Neoliberal Policy Paradigm in Putin’s Russia,” in *The Global Rise of Authoritarianism in the 21st Century: Crisis of Neoliberal Globalization and the Nationalist Response*, edited by Berch Berberoglu, Routledge, London, 2020; “Between Political and Economic Imperialism: Russia’s Shifting Global Strategy,” *Journal of Labor and Society*, Vol. 25, No. 2, 2021. Refer also to the second part of Michele Nobile, *Invasioni russe: Polonia 1939-Ucraina*, Massari Editore, Bolsena, 2022.
6. From “Behind Russia’s war is thirty years of post-Soviet class conflict,” op. cit.
7. Michele Nobile, “La Russia come imperialismo aggressivo: Un confronto col Terzo Reich e l’Unione Sovietica 1939-40,” January 14, 2024, [http://utopiarossa.blogspot.com/2024/01/la-russia-come-imperialismo-aggressivo.html](http://utopiarossa.blogspot.com/2024/01/la-russia-come-imperialismo-aggressivo.html).
Appendix: Annexations and International Law
Under international law, annexations are permissible only following a peace treaty, not during an armed conflict, as they violate the rights of civilians in the occupied territories—precisely what is occurring in Ukraine at present.
The reasoning is clearly explained in this passage from the 1958 Commentary on Article 47 of the Geneva Convention of August 12, 1949, regarding the Protection of Civilians in Time of War. Although lengthy, it is worth citing in full, so that pseudo-pacifists—those advocating for “peace” without qualifications—might reflect on it carefully:
"As noted in the commentary on Article 4, the occupation of territory during wartime is essentially a de facto, temporary situation that does not deprive the occupied Power of its statehood or sovereignty; it merely interferes with its exercise of rights. This distinguishes occupation from annexation, whereby the occupying Power acquires all or part of the occupied territory and incorporates it into its own territory.
As a result, wartime occupation, though constituting effective possession, does not imply any right to dispose of the territory. As long as hostilities persist, the occupying Power cannot annex the occupied territory, even if it occupies the entirety of the concerned territory. Such a decision can only be reached through a peace treaty. This is a universally recognized rule, endorsed by legal scholars and confirmed by numerous judgments of international and national courts.
Nonetheless, the Second World War provides several examples of 'premature annexation,' resulting from a unilateral action by the victor to dispose of occupied territory. The populations of such territories, often encompassing large areas, did not benefit from the rules of occupation, were deprived of their legitimate rights and protections, and were thus subject to any law or regulation the annexing State chose to impose.
Aware of the extreme dangers of such procedures, which open the door to arbitrary actions and decisions, the Diplomatic Conference deemed it necessary to establish that such acts have no effect on the rights of protected persons, who, despite everything, continue to benefit from the protections granted by the Convention.
It should be noted that the reference to annexation in this article cannot be interpreted as implying recognition of this mode of acquiring sovereignty."
The authors of this commentary were undoubtedly aware of Nazi practices and the possibility of similar actions recurring. Today, the Ukrainian population of territories annexed by the Russian Federation is subject to decisions by the occupying force that egregiously violate the rights of civilians during wartime—for instance, forced conscription into the enemy’s armed forces (prohibited by Article 51 of the Convention: “The Occupying Power may not compel protected persons to serve in its armed or auxiliary forces. Any pressure or propaganda aimed at securing voluntary enlistment is prohibited”).
What is happening in the illegally annexed territories is shameful and intolerable, underscoring the need to free Ukrainians living under occupation.
Since annexations can only be legalized through peace treaties, very few states are likely to recognize them, as was the case with Crimea’s annexation. This implies that, to avoid perpetuating an unjust and illegal situation, states also have a duty to deny Russia the benefits it might derive from exploiting the annexed territories economically. If the front lines were to freeze, the resulting situation would resemble the Korean model—a highly militarized zone likely to persist for years.
Moreover, perhaps the descendants of the Hitler-Stalin pact adherents and pseudo-pacifists fail to realize that legitimizing the annexation of territories occupied by Russia in Ukraine would also legitimize Article 1 of the Israeli law of July 1980, which effectively annexes Jerusalem to Israel: “Jerusalem, complete and united, is the capital of Israel.”