«C'erano tre modi per uscire dal quartiere: entravi
nell'esercito e magari finivi
ucciso; diventavi mafioso e magari finivi ammazzato; o diventavi
famoso».
da Jersey
Boys (2014) di Clint Eastwood
I. L’ispettore Callaghan
balla (male) a Broadway
Il
cinema nel suo insieme, quello hollywoodiano specialmente, è una baracconata
per iloti o critici incompresi dove — da sempre — un regista o una star valgono
quanto ha incassato il loro ultimo film... sfuggire al mercato, va detto, significa
evitare di apparire là dove esso organizza la messinscena dei suoi riti, autocelebrazioni
e autocompiacimenti... chiamarsi fuori da festival, rassegne, televisioni, convegni...
dove NON si parla di cinema come strumento di decostruzione dell’identico e del
conforme, dove il crimine politico ha sempre una sua giustificazione... significa
disertare l’idiozia mercantile che devasta tutto al suo passaggio e opporre una
visione radicale libertaria che denuda la soggezione degli sguardi e passa
dalla critica velinara asfissiante a una critica di resistenza e insubordinazione.
Il
solo cinema buono è quello che mangia l’anima alla cultura dell’ostaggio... il
cinema che affabula il rifiuto puro e semplice di ogni forma di comunicazione
dogmatica, intollerante, irragionevole e promuove un cinema dei fatti, dei
valori, delle diversità... respinge l’arte
del cinema nel negativo che la abita e inserisce i film del disagio, della
gioia o della bellezza liberata in una rivoluzione estetica che rifiuta la
stupidità a favore dell’eresia. Il cinema che ha cessato di resistere deve
essere offeso, sostituito da un cinema che resisterà.
L’utopia
è di quelle forti... tuttavia per chi come noi è stato allevato nella pubblica
via e cresciuto tra le seggioline e l’odore di petrolio dei cinema di
periferia... non ha mai smesso di sognare che un giorno arrivano i Sioux e
scalpano il generale Custer come si deve. Ogni arte ha i suoi teatri... ma
nessuna arte ha un qualche valore se viene compresa, recuperata e poi sistemata
in fondazioni bancarie e replicata per i centri commerciali. Le folle invocano
il padrone che dà loro la parola solo il giorno delle elezioni... poi le relega
in una miseria atavica fino all’inedia... sino a quando, s’intende, l’odio
affilato di minoranze insorte contro ogni forma di potere, torna ad illuminare
l’inverno dei nostri scontenti e la fa finita con la “sinistra al caviale” e i
simulacri della società consumerista.
“I simulacri dell’arte abbondano
quando l’arte vera fa difetto” (Dalmazio, nipote di Costantino I, ucciso nelle
purghe di potere nel 337). In un pianeta devastato dal
mercato neoliberista, dalla finanza criminale, dalla politica corrotta...
l’uomo in rivolta resta l’uomo del no!, che mostra un comportamento, uno stile
di vita, un temperamento e rifiuta tanto di obbedire quanto di ordinare...
l’uomo in rivolta è colui che fa della propria vita libertaria un’opera d’arte.
Clint
Eastwood è forse un buon attore, un buon regista, certo un fervente esponente
dei valori destrorsi americani... autore di film qualche volta notevoli,
interprete monocorde di altri non proprio eccezionali, come quelli di Sergio
Leone... il quale, come sappiamo, diceva di Eastwood: “Ha solo due espressioni,
una col sigaro e una senza sigaro”. Tutto vero. Il successo nel pubblico
italiano (e quello dei mercati asiatici) non poteva mancare. Gli animali da
cortile sono fedeli a chi procura loro la zuppa. Eastwood, dicevamo, ha firmato
un film (uscito in piena estate), Jersey
Boys, tratto da un musical di Marshall
Brickman, scritto da John Logan e Rick Elice
(vincitore ai Tony Awards nel 2006) che ha avuto un notevole successo a Broadway...
e malgrado abbia ricevuto i soliti elogi della critica italiana e un certo seguito
di pubblico... resta un brutto film, una cosa da dimenticare.
Eastwood
ha trattato in altri film il rapporto tra la musica e le radici della cultura
americana. Bird o Honkytonk Man, ne sono un esempio, ma Jersey Boys non esce dal guscio del
film-biografico per famiglie catto-democratiche... il regista statunitense
snocciola le canzoni di Frankie Valli e The Four Season (Sherry, Big Girls Don't Cry,
Can't Take My Eyes 0ff You e altre
hit degli anni ’60) in una specie di contenitore che esalta il “sogno
americano”, dove tutti posso arrivare in cima alla scala sociale a danno di
molti che restano confinati nel sottoscala della storia.
L’ispettore Callaghan balla (male) a Broadway e senza pistole
fumanti non riesce a raccontare, con una certa lucidità espressiva, l’ascesa
(per quanto vera) allo show businnes da quattro ragazzi del New Jersey. Il
film, sotto ogni aspetto architetturale, è privo di carattere e a ben vedere,
anche l’intero assetto descrittivo è slavato nei luoghi comuni... la pop music
e la brillantina non sono nelle corde del vecchio
leone... nemmeno l’intreccio filmico funziona e Eastwood non si è neanche
reso conto che la vita, come il cinema, è da un’altra parte.
II. Jersey
Boys
La storia (molto italo-americana) di Jersey Boys è quella di Frankie Valli e The Four
Seasons... la loro scalata alle vette del mercato internazionale della pop
music degli anni sessanta... lo scioglimento del gruppo, lo spettacolare
ritorno dei vecchi miti rimasterizzati per la scatola televisiva. C’è da dire
che Valli, come solista, interpreterà brani che entreranno nell’immaginario
musicale/popolare delle nuove generazioni (Cant’
Take My Eyes off You, My eyes adore,
Grease). Frankie e Tommy sono nati
nel Jersey... tirano avanti con piccoli furti... Frankie lavora da un barbiere
ed entra nelle simpatie del boss mafioso Gyp De Carlo. Insieme a Bob e Nick formano
The Four Seasons, sono tra i primi a comprendere ed usare (sovente anche con
balletti risibili) gli ascolti delle nascenti stazioni televisive.
I protagonisti di Jersey
Boys proprio non bucano lo schermo... i loro volti non si ricordano...
l’attorialità resta sempre a margine del discorso filmico... anche Christopher
Walken, interprete notevole di molti film, qui risulta manierizzato e sfiora il
ridicolo quando si mette a piangere mentre canta il giovane Frankie. Il tempo del musical è surgelato nella
colorazione delle scenografie e gli amori, i sogni, le ambizioni della band si
sgretolano in inquadrature che non rimandano né a passati splendori né al
romanzo di una vita.
Eastwood (il repubblicano di ferro, sostenitore di un
insostenibile presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan... ammesso e non
concesso che ci siano presidenti di qualsiasi nazione sostenibili, se non
alzati per i piedi con le loro puttane a qualche cancello dei giardini
pubblici) non riesce nemmeno nella restaurazione della nostalgia hollywoodiana...
il suo film dice che i mafiosi sono sentimentali e per arrivare in cima alla
vetta dello spettacolare integrato,
basta saper usare la pistola, entrare in politica o scrivere canzonette di una
qualche levatura, ben collocate nel progetto di domesticazione sociale della civiltà consumerista.
Jersey
Boys intreccia vicende private,
l’ebbrezza dei primi in classifica (non importa quale sia la ragione) e la
rovina economica del gruppo per la disinvolta gestione di uno dei componenti.
Naturalmente è il capo mafioso Di Carlo a redimere i dissapori. All’inizio
degli anni ’90, Valli e The Four Seasons si riuniscono per una serata da stars,
i fan sono in lacrime, il finale è in puro musical-retrò... nella strada del
quartiere tutti gli attori, i comprimari, anche il boss Di Carlo, cantano e
ballano per la gioia del pubblico. La noia ormai è arrivata alla sgradevolezza
e sono tentato di dare fuoco allo schermo, poi penso che è meglio fare un giro
in bicicletta e andare a bere del buon vino in una taverna di porto, tra
puttane dabbene, il pazzo del villaggio e guardare i ragazzi tirare con la
fionda ai pesci-rondine che volano sul mare. Va detto. Le vetrine della benevolenza
certificano il primato della merce sull’uomo e se da un lato la creatività del
cinema non c’entra, dall’altro il flusso di spettatori al box-office è
assicurato. Là dove gli artisti denudavano il potere, ora regnano i mercanti.
Sullo schermo e dappertutto, dove impera il diritto della forza occorre
combattere con la forza del diritto.
La direzione attoriale di Eastwood è opaca e Jersey Boys, malgrado le intenzioni di
rifare il musical-MGM alla Vincente Minnelli, non va oltre una tronfia
biografia di Valli e The Four Seasons. John Lloyd (Frankie Valli) ha una bella
voce, ma non ha la statura del personaggio. Erich Bergen (Bob Gaudio) sembra
uscito da un fotoromanzo a puntate. Vincent Piazza (Tommy DeVito) sciorina una
serie di mossette da bullo che lo proiettano in un altro film. Michael Lomenda
(Nick Massi) è sempre sotto tono, grigio, inadeguato. Christopher Walken fa il
mafioso, male, sovra le righe, come in una comica finale. Freya Tingley
(Francine Valli) è una moglie-mamma da copertina di Variety. Joseph Russo
scimmiotta il giovane Joe Pesci, l’imbarazzante manager della band. La
sceneggiatura di Elice e Logan affastella canzoni e siparietti quotidiani con
disinvolta mediocrità. Si vede che i produttori (tra i quali spiccano i nomi di
Bob Gaudio e Frankie Valli) mirano al sodo... la superficialità e il consenso
vanno sempre d’accordo. La fotografia (Tom Stern), il montaggio (Joel Cox, Gary
D. Roach) e i costumi (Tina Dowd, Suzanne Pakier) ruminano nel cattivo edonismo
e mostrano che un film hollywoodiano senza la fame del successo sarebbe noioso
quanto uno zoo senza iene.
Jersey
Boys è un film mancato per tutto
questo ed altro ancora... c’è dentro una filosofia del fatalismo o esaltazione
della fama come uscita dalla miseria ordinaria che colloca il delirio di
onnipotenza al di sopra di ogni arte, dimenticando che l’arte non si figura in
ciò che un artista sente ma in ciò che vive. Per un regista che opera a un
certo grado di qualità, cambiare i registri del proprio operato è pericoloso
quanto per un boia cambiare la corda. Eastwood non ha compreso che un’opera
d’arte, quando è autentica, ha più peso degli dèi e i cattivi registi sono
sempre superiori ai loro film, specie se sanno ridere delle loro incaute scelte
o cadute creative. A vedere quello che la macchina/cinema dispensa ai quattro
venti della terra, sentiamo fortemente che i film immortali ci stanno alle
spalle, quello che non sappiamo è la portata della devastazione del
cinema-merce sul destino comune.
Il cinema-merce è l’elusione della creatività, della passione,
della sovversione non sospetta dell’immaginario liberato e in nome del profitto
abbrutisce la conoscenza del mondo. Non basta sopportare le promesse del
mercimonio, bisogna anche amarle... la responsabilità, la colpa, il peccato, il
rimorso... sono le pietre dell’ordine stabilito, l’estetizzazione della civiltà liquida/spettacolare è la
museruola che i persuasori occulti del dominio operano sulla collera dei
popoli. Quelli che non hanno capito sono un’orda d’ignoranza ben gestita e,
come sappiamo, nelle filosofie orientali l’illusione è ignoranza... quelli che
hanno capito sono solo una manciata di ribelli a tutto e legano la loro
esistenza al rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato. Il ribelle
muta di rabbia (come il serpente di pelle) ma resta sempre se stesso... ha il
talento dell’improvvisazione, la frenesia dionisiaca che respinge sepolcri e
resurrezioni istituzionalizzate... lascia le sue sciabolate a ricordo degli ultimi,
degli indifesi, dei “quasi adatti”... la sola cosa che cerca è la felicità
sulla terra. “Chi non sa dire grazie non merita favori” (Friedrich W.
Nietzsche). Famiglia, lavoro, patria, dio... sono un’invenzione dei
privilegiati... sono loro che attraverso gli strumenti del comunicare fabbricano buoni servi, lavoratori, clienti,
soldati, cittadini proni alle loro morali e fedi... più di ogni cosa preme loro
continuare la secolarizzazione delle lacrime ed impedire i processi di realizzazione
di un’umanità meteca che rivendica
per il maggior numero il diritto alla felicità. Elogio dell’utopia: le forme
sociali più belle e più estreme devono ancora essere inventate, ma solo attraverso
l’accoglienza, la solidarietà, la fraternità tra gli uomini si può accendere la
tempesta libertaria che crea legami sociali, rompe frontiere, divieti e limiti
e porta l’immaginazione fino alle stelle.
Piombino,
dal vicolo dei gatti in amore, dieci volte settembre 2014.
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