SIRIA: UNA POTENZIALE POLVERIERA LA CUI POSSIBILE ESPLOSIONE FA PAURA
|
(Tratto da Le Figaro) |
Dalla "primavera" araba all’ "autunno"?
Dopo tanto parlare di “primavera araba” vari segnali fanno pensare che si stia passando direttamente all’autunno. In Egitto, dopo tanto entusiasmo popolare, è in atto una transizione morbida sotto tutela militare e sono ripresi scontri fra copti e musulmani; in Tunisia dalle liberazioni dei prigionieri politici è rimasto indenne (cioè in galera) il segretario del locale Partito Comunista; la Libia è massacrata dalle milizie di Ghdeddafi e dai bombardamenti “umanitari” della Nato; in Marocco l’attentato al caffè-ristorante Argana di piazza Jemaa el-Fna (in dialetto marocchino; in arabo colto è Jāmi‘u al-Fanā) a Marrakesh – oltre ad arrecare un danno enorme al turismo (su cui campano anche tanti poveracci) rischia di arrestare l’appena iniziato corso riformatore; nella penisola araba e in Giordania la repressione sembra avere bloccato le proteste, tranne nello Yemen, sulla cui confusa situazione grava molto concretamente il “rischio al-Qaida” che lì ha una consistente presenza; l’Iraq grazie alla “sapiente” politica degli Usa è in un mare di guai e non si sa quel che può succedere.
Dal canto suo la Siria è una polveriera che in caso di esplosione rischia di suscitare una reazione a catena, dagli effetti imprevedibili e devastanti, nell’area circonvicina. La crisi siriana ha con la crisi libica un elemento in comune e uno difforme: il primo è che il regime non ha alcuna intenzione di cedere ed è indifferente al bagno di sangue, secondo le tradizioni del paese dopo l’indipendenza; il secondo consiste (per lo meno al momento) nell’estrema prudenza delle stesse potenze che intervengono in Libia a fare passi contro il regime di Bashar al-Assad perché consapevoli degli enormi pericoli derivanti dall’ipotesi di una sua incontrollata caduta e preoccupate per il rischio concreto che il potere cada nelle mani di settori integralisti islamici assai estremisti e ansiosi di rivincita e vendetta dopo le feroci persecuzioni subite fin dall’epoca di Hafiz al-Assad, padre dell’attuale Presidente. Anche Israele – pur essendo l’arcinemica della Siria – condivide la stessa preoccupazione.
Specificità della polveriera siriana
Di recente il francese Le Figaro ha pubblicato un articolo dal significativo titolo Syrie, la peur de l'inconnu. Infatti la questione siriana ha in comune con il resto del mondo arabo le istanze di libertà e di democratizzazione del sistema politico, ma con la specificità del loro inserimento in un contesto religioso particolare. Si è già avuto modo di chiarire che il regime del Partito Socialista Bāth, egemonizzato dalla minoranza alauita (branca dello sciismo) e appoggiato dalle minoranze cristiane, druse, curde e anche da parte della società sunnita (specialmente la borghesia), ha realizzato (sia pure autoritativamente - il termine è un po’ eufemistico) un delicato equilibrio che comunque ha dato alla Siria una certa stabilità che nel turbolento Vicino Oriente ha fatto comodo a molti. Innegabilmente sullo sfondo delle rivendicazioni laiche della piazza si profila la assai meno laica prospettiva di rivincita della maggioranza musulmana sunnita. Se essa si realizzasse la Siria – guerra civile a parte - entrebbe in rotta di collisione con gli ambienti sciiti dei paesi circonvicini che già sono in fase di riscossa contro l’Islam sunnita dopo secoli e secoli di sconfitte e umiliazioni. La Siria, infatti, fa parte di quella che è chiamata la “cintura sciita”, cioè l’insieme dei paesi del Vicino e Medio Oriente con presenze sciite, maggioritarie o minoritarie che siano. Questa ”cintura” include - da Oriente a Occidente - Iran, Bahrain e paesi del Golfo, Arabia Sudita, Yemen, Iraq, Giordania, Libano. Interessante e sintomatico il fatto che a bloccare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una risoluzione di sola condanna (si badi bene) del regime di Damasco non siano stati solo gli interventi di Russia e Cina, ma anche quello del Libano.
La rivitalizzazione dell’inserimento alauita nello sciismo – nonostante oggettivi profili eretici dell’alauismo – è servita al vecchio Hafiz al-Assad per uscire dall’isolamento a cui gli Stati Uniti volevano condannare la Siria, inclusa nella lista degli “Stati canaglia”. Da qui la concretizzazione di una serie di alleanza regionali i cui perni sono l’Iran, il Partito di Dio (Hizballāh), gli sciiti iraqeni con le loro milizie paramilitari e anche il palestinese Hamas, per quanto sia sunnita, del quale Damasco è un consistente finanziatore. Uno dei tanti paradossi del Vicino Oriente, che si aggiunge al fatto di essere la Siria uno Stato laico in cui il Natale cristiano è festa nazionale.
La caduta del regime di Assad implicherebbe la rottura della “cintura sciita” e l’innesco di dinamismi al buio dagli esiti destabilizzanti. Il Partito di Dio e le altre forze sciite libanesi, come Amal, hanno ben chiaro che il cambio di regime a Damasco inciderebbe pericolosamente sul fragile equilibrio di potere in Libano (che per giunta ha un governo dimissionario); e l’Iran oltre a perdere un alleato importante dovrebbe fare fronte alle conseguenti ripercussioni sul proprio in territorio, tant’è che il premio Nobel iraniano Shirin Ebadi ha fatto dichiarazioni positive e di auspicio in merito agli effetti che sulla sulla democrazia in Iran avrebbe l’abbattimento del regime siriano.
In caso di aggravamento della situazione interna per Assad – che già ha esplicitamente chiamato in causa il complotto sunnita contro di lui - se si deve escludere un intervento diretto iraniano (anche per le distanze), non è però detto che gli alleati libanesi, palestinesi e iracheni non scendano in campo dando luogo ad azioni destabilizzanti nelle rispettive aree in modo da creare per il nemico sunnita e per le potenze occidentali ulteriori “fronti” diversivi.
Il fatto dell’uso di due pesi e due misure – uno per la Libia e l’altro per la Siria è del tutto comprensibile se si guarda alla situazione con la lente della realpolitik, famigerata e cinica quanto si vuole ma non sempre campata per aria, giacché se la ragione sta dalla parte dei manifestanti, la forza in certe zone rischia di finire dalla parte di oppositori poco raccomandabili, ovvero rischia di creare nella regione globale a cui la Siria appartiene effetti difficili da gestire, e non solo per i governi interessati. In termini crudamente politici per una visione globale va tenuto presente che sull’ideale piatto della bilancia vanno poste le incertezze sugli sviluppi tunisini ed egiziani e il sempre incombente pericolo di una ripresa dell’integralismo armato in Algeria; il che già nell’opinione pubblica non araba è idoneo a creare un raffreddamento degli entusiasmi per le rivendicazioni democratiche. A incombere è anche il precedente della caduta della monarchia in Iran, fonte di entusiasmi e aspettative poi spente dall’avvento di una dittatura religiosa per niente restia a soffocare nel sangue le proteste come faceva lo Shāh.
Cada o no il regime, la guerra civile si profila
In Siria continuano le manifestazioni, le sparatorie sui manifestanti (finora sono morti 565 civili e 86 militari) e le massicce ondate di arresti, ma nel complesso l’apparato poliziesco e l’esercito sembrano reggere all’impatto derivante dalle proteste di piazza e dalla repressione armata (non sembra che l’arresto del comandante della III Divisione dell’esercito, per aver protestato contro l’intervento armato a Daraa, abbia avuto un impatto tale da modificare il quadro della tenuta dei militari). D’altro canto è palese che per la dirigenza siriana si sta giocando una partita mortale la cui posta è la sopravvivenza vera e propria, non solo per essa ma anche per le minoranze religiose del paese e per i ceti sociali che hanno appoggiato il regime e ancora lo appoggiano). Sulla necessitá di riforme del sistema siriano, e in particolare sulla necessità di combattere la corruzione in fondo sono tutti d’accordo. Ma da qui a concordare sulla necessità di abbattere il regime, e a battersi per questo fine ce ne corre.
Nella società siriana si era realizzato fra il regime del Bāth e vari ceti sociali (borghesia in primis, ma anche ceti popolari) un patto tacito per cui la perdita della libertà politica era compensata dalla sicurezza e dalla stabilità. Per i sostenitori del regime oggi come oggi sicurezza e stabilità sono oggettivamente in forse; tuttavia siamo sicuri che individuano negli oppositori in piazza il settore che potrebbe ristabilirle? Come risulta da interviste fatte di recente dal giornale libanese L’Orient-Le Jour, c’è chi viene a dire ai manifestanti “siete stati buoni per tutto questo tempo e adesso volete la libertà subito? Siate pazienti”. L’invito alla pazienza sottende il fatto che in vari ambienti il Presidente Assad (45 anni) viene ancora considerato una persona moderna alle prese con un sistema da modificare.
I centri della rivolta sono Daraa al confine giordano e Hama al centro-nord. A Damasco e Aleppo, le più importanti città siriane (come ha sottolineato anche la stampa israeliana) le manifestazioni sono di gran lunga inferiori. Nell’esercito, oltre a essere assenti defezioni di rilievo (a parte quelle che in casi del genere ci sono sempre) , Assad può contare sulla Guardia Presidenziale e sulla poderosa IV Divisione, comandata da uno dei suoi fratelli, Maher al-Assad. Nel partito Bāth qualche defezione c’è stata ma nel complesso tiene e inoltre la dirigenza della minoranza alauita è compatta con il Presidente. Nel procedere sulla via della repressione sanguinosa Assad e i suoi sono convinti che non ci sarà un intervento di tipo libico per i motivi sopra detti.
A ogni buon conto il regime di Damasco ha imboccato una via definibile senza ritorno perché senza sbocchi politici immediati, di modo che o la repressione riesce, oppure il regime alle lunghe cade. “Tecnicamente” parlando, una repressione militare prolungata se si prolunga troppo senza risolvere la situazione rischia di essere controproducente per il fatto di risultare inefficace. Tuttavia lo “sbocco democratico” non è garantito, pur a prescindere dall’integralismo islamico, giacché l’esito potrebbe consistere in un golpe dell’esercito contro il regime e generare una transizione guidata alla maniera egiziana, oppure una dittatura militare. Ma in entrambi una guerra civile di ampie proporzioni deriverebbe dalla reazione alauita. E segnali prodromici di una guerra civile effettivamente già esistono. Tutte le sere la televisione siriana manda in onda raccapriccianti immagini dei cadaveri – spesso mutilati aterocemente - di militari morti negli scontri con i manifestanti: il che vuole dire che tra le file degli oppositori di piazza esistono gruppi che hanno compiuto il salto di qualità passando all’uso delle armi, e che la protesta non è più tanto pacifica come i mass-media continuano a far credere. Inoltre, l’esercito siriano, quando giorni fa ha sigillato la città costiera di Banias, a maggioranza sunnita e persistente focolaio di agitazioni, ha altresì rifornito di armi e munizioni i villaggi alauiti delle montagne circostanti, e a Banias sono intervenute milizie irregolari filogovernative, dette degli shabiha.
I problemi di Libano e Turchia
Il regime sostiene essere in atto un complotto finanziato dal governo sunnita dell’Arabia Saudita, e la stessa tesi è sostenuta dai circoli filosiriani libanesi. Un ex ministro del Libano ha esibito in televisione copie di assegni da 300.000 dollari firmati dall’ex capo dello spionaggio saudita, il principe bin Turki ‘Abdul Aziz (noto peri suoi passati buoni rapporti con Usāma bin Lādin - per la stampa italiana Osama bin Laden): questi assegni sarebbero stati dati a esponenti politici libanesi per collaborare al complotto contro Damasco, e si parla dell’ex ministroMuhammad Beydoun tra i capofila del versante libanese anti-Assad. Naturalmente tutti gli interessati hanno smentito e gridato alla falsificazione, ma il Partito di Dio, filosiriano, ha subito appoggiato queste denuncie, e un deputato – ‘Ahmed Fatfat – ha formalmente esteso le accuse al maggior gruppo politico del dimissionario governo libanese. Questi fatti, unitamente alle iniziative filosiriane organizzate a Tripoli del Libano, nel nord del paese, fanno ritenere a vari osservatori che Hizballāh stia organizzandosi per l’eventualitá di una vera e propria guerra civile in Siria, e a Tripoli molti temono che la città possa diventare una piazzaforte di appoggio ad Assad. Tanto più che ‘Alī ‘Aid, uno degli esponenti siriani della linea dura, radicato nelle montagne alauite del Gebel Mohsen, sta organizzando milizie filogovernative e ha stabilito una sua base al confine col Libano.
La crisi siriana causa alla Turchia preoccupazioni riguardanti addirittura le possibili conseguenze sulla sicurezza interna, a motivo dei rapporti fra la minoranza curda siriana e il Pkk dei Curdi di Turchia. La recente mobilitazione della Mezzaluna Rossa turca per assistere i profughi affluiti dalla Siria, e che si prevede aumenteranno, è accompagnata dai timori del governo di Ankara per l’eventualità di dover distinguere fra profughi veri e propri ed elementi legati al Pkk. In questo senso vanno le sollecitazioni del Consiglio nazionale di Sicurezza turco (Mgk), che riunisce esponenti civili e militari, verso Damasco affinché reinstauri la pace sociale e la stabilità. Di recente il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan nel reiterare le pressioni su Assad, oltre a fare presente che la Turchia non avrebbe tollerato massacri come quello di Hama nel 1982 ha fatto una richiesta dal tenore preoccupante per quel che sottende: ha cioè raccomandato di non porre in essere iniziative suscettibili di portare alla divisione del paese. Dal canto suo il Presidente Gül ha comunicato che Ankara sta prendendo le misure necessarie per fare fronte agli scenari peggiori che si possano creare in Siria. I governi di Gran Bretagna, Francia e Germania sono fautori di provvedimenti sanzionatori a carico di Damasco, e in sede Ue potrebbero anche ottenerli (salvo poi verificarne l’efficacia pratica), mentre un po’ più difficile appare l’adozione di misure del genere da parte dell’Onu, per l’opposizione di Russia e Cina.
Per finire ci si può chiedere se anche sulla rivolta siriana si proietteranno le conseguenze dell’uccisione di Usāma bin Lādin che oggi si prospettano in termini di forte incognita. Incognita da cui lasciamo al di fuori eventuali iniziative di vendetta da parte di nuclei radicali islamici: quand’anche ci saranno nulla verranno a dire in ordine a quale sarà l’impatto psicologico di questo evento sugli integralisti (e quindi pure su quelli siriani). Il fatto è che la mentalità musulmana – così come accadeva in Europa nell’alto Medio Evo – tende a considerare gli avvenimenti storici come gesta Dei per homines. Ora, in questa ottica, quale interpretazione prevarrà? Se Allāh ha permesso questa uccisione, che significato darle?
Questa domanda riguarda essenzialmente i settori maggiormente determinati in senso religioso, perché se si guarda - più “all’ingrosso” - all’insieme del mondo musulmano le reazioni finora avutesi, abbastanza contenute se non indifferenti, ne diminuiscono la portata. Oggi le rivendicazioni sono di tipo politico, e non di instaurazione di un Islam radicale. Bin Lādin ha incarnato le conseguenze di un atteggiamento di forte e motivato rancore verso l’Occidente, ma in termini tali da poter essere accusato anche da musulmani di aver causato l’identificazione fra religione musulmana e terrorismo spietato. Certe prese di posizione sono più che significativo: il plauso del Presidente turco Abdullah Gül, del Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu e del Ministro della Difesa Vecdi Gönül, tutti appartenenti al partito islamico “moderato” che oggi governa la Turchia, a condanna del terrorismo come contrario agli insegnamenti dell’Islam da parte di Necmettin Ihsanoğlu, Segretario Generale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica; le dichiarazioni del portavoce dell’Autorità Palestinese Ghasan Jatib, per il quale essersi liberati di bin Lādin è positivo per la pace; similari dichiarazioni di esponenti sauditi, del Primo Ministro libanese Saad Hariri; e infine il fatto che la Fratellanza Musulmana d’Egitto - che di recente ha dato vita a un partito politico – limitatasi a sostenere che a questo punto può cessare la presenza militare statunitense in paesi islamici. Questo in teoria potrebbe dire molto anche sul pericolo integralista in Siria.