DALLA SIRIA AL MEDIO ORIENTE IRANICO
Se il regime siriano vincerà lo dovrà anche alla stanchezza popolare
In Siria le cose vanno per le lunghe e Assad non “molla”. I reportages della stampa araba sulle condizioni dei centri abitati – come Daraa – dopo la “pulizia” dell’esercito sono desolanti, e le fotografie ancora di più. Nell’insieme l’Armée è con il regime. Tra le fila dei manifestanti, morti e feriti aumentano e il regime non crolla, anzi reprime “con tutta tranquillità” con arresti massicci (almeno 8.000 persone) e l’eliminazione manu militari delle sacche di opposizione una a una. Adesso tocca a Banias (nel nord-ovest) e probabilmente il turno successivo sarà di Homs (160 km a nord di Damasco). Intanto l’insieme dei manifestanti risulta diminuito quantitativamente oltre che cambiato nella composizione sociale: cioè a dire, gli appartenenti ai ceti medi, o a quelli comunque acculturati, si sono ritirati dopo l’afflusso più massiccio di gente dei ceti emarginati: politicamente sono rimasti quei settori che vogliono realmente il cambio di regime e non un semplice ampliamento delle libertà democratiche.
Come succede in questi casi “si scopre” che le parti in causa non si riducono a due – il regime e i suoi oppositori nelle piazze – perché bisogna aggiungervi anche il silenzioso e vario aggregato collettivo della cosiddetta “gente comune” che non se la sente di manifestare al rischio di affrontare la morte sotto il fuoco dei carri armati e dei cecchini. Ma occorre aggiungere anche l’immateriale ma concreta realtà che si chiama “economia nazionale”, micro e macro.
Di recente il giornale libanese L’Orient-Le Jour ha dedicato un servizio proprio ai quisque de populo di Damasco, ovvero agli sconosciuti cittadini della capitale. Ne viene fuori il quadro di gente stanca per gli ostacoli che incontra nel far fronte alle necessità della vita quotidiana, causati dal ripetersi di agitazioni senza sbocchi visibili: un quadro fatto di difficoltà nell’approvvigionamento alimentare, nel reperimento di combustibili, nel trovare lavoro (e quindi i soldi necessari alla sopravvivenza propria e della famiglia) per i lavoratori giornalieri, di doglianze di giovani studenti e lavoratori per il fatto che il venerdì da giorno di riposo è diventato un incubo, e dei negozianti che lamentano un forte calo di clienti e preferiscono chiudere l’esercizio durante i venerdì, e per finire di cittadini che temono di fare la fine del’Iraq. I danni riguardano anche il circuito economico legato al turismo, frivolo quanto si vuole ma i cui beneficiari non sono solo imprese grandi, medie e piccole del settore (con gli inerenti impiegati), ma anche una massa enorme di povera gente che campa (e fa campare i suoi) con microvendite al dettaglio ai turisti. Da almeno tre anni la Siria ha conosciuto un notevole sviluppo di questo settore, e per il 2011 si prevedeva un afflusso di ben 8.500.000 visitatori - che non ci saranno.
Della stanchezza di vari settori della società siriana il regime inevitabilmente si avvantaggia, tanto più che le ricorrenti manifestazioni finora non hanno creato brecce significative nei settori da cui al-Assad trae la propria forza. Scendere in piazza sfidando il fuoco dei militari richiede un eroismo non suicida, bensì mosso da obiettivi concreti perseguiti con entusiasmo: tuttavia quando, salvata la pelle, si torna a casa senza che il regime sia caduto e si scopre che della casa a mala pena restano i muri portanti, poi è duro riprendere la lotta se non si è scapoli e figli di nessuno.
Adesso l’opposizione ha proposto sulla pagina Syrian revolution 2011 di Facebook una piattaforma per la transizione a un assetto più democratico, culminante in libere elezioni entro 6 mesi. Ma è più un segnale di debolezza che di forza, e il citato giornale libanese l’ha presentato con la frase «In mancanza dell’abbattimento del regime». Il fatto è che anche in Siria si sente l’attuale fase di riflusso, o di stallo, dell’ondata di rivolte arabe.
Non saranno certo le preannunciate sanzioni dell’Ue a incidere sulla situazione e inoltre - poiché nessuno sa cosa riservano per il futuro prossimo il Vicino e Medio Oriente ed è noto che i livelli di attenzione delle grandi potenze non dipendono da fattori etici ma dagli interessi concreti del momento – prima o poi potrebbe scattare un disinteresse politico generalizzato nei confronti dei manifestanti siriani, alla luce anche del fatto che non se ne intravvedono sbocchi concreti.
Perché si parla di Repubblica dinastica in Siria?
Non è soltanto per il passaggio della Presidenza della Repubblica di padre in figlio avvenuto nel 2000 (cioè da Hafiz al-Assad a Bashar al-Assad), come riduttivamente riferiscono i grandi mass-media, ma per qualcosa di ben più ampio e tale da potersi dire che in Siria il potere appartiene alla minoranza alauita, appoggiata da altre minoranze religiose, ma che all’interno del gruppo alauita è nelle mani della famiglia Assad.
Sotto vari aspetti la sopravvivenza del regime finisce per identificarsi con la sopravvivenza di questa famiglia. Ai parenti si affiancano personaggi loro strettamente legati, quali membri di un vero e proprio clan che di seguito passo a presentare.
Cominciamo con il generale Maher al-Assad, fratello di Bashar. Comandante della potente IV Divisione corazzata, considerata il nerbo dell’esercito siriano, è noto per essere crudele e imprevedibile quando ha scatti di collera (in uno di essi sparò a un cognato, il potente generale e uomo d’affari Assef Shawkat). Se non fosse stato per la giovane età avrebbe potuto essere lui il successore del vecchio Hafiz al-Assad, tuttavia si dice abbia un enorme potere sul fratello Presidente, di cui sarebbe l’anima nera. La voce popolare lo accusa di essere lui il responsabile della mancata attuazione del periodo di riforme che Bashar aveva annunciato nel 2000. Il sopravvissuto generale Assef Shawkat – marito dell’unica sorella del Presidente, Bushra - era stato fino al 2010 a capo dell’Intelligence militare; dopo è diventato Vicecapo di Stato Maggiore dell’Esercito. Sarebbe stato uno degli organizzatori dell’occupazione del Libano e mantiene stretti rapporti con i servizi segreti di altri paesi.
Elemento tecnicamente importante è Rami Makhluf, cugino di Bashar (in quanto suo padre, Muhāmmad Makhluf, è il fratello di Anisa, madre di Bashar). Influentissimo esponente del regime, è un potente uomo d’affari che grazie agli appoggi di famiglia ha potuto accumulare un’enorme ricchezza. È proprietario di una banca, negozi di vario genere, imprese di costruzione, imprese del ramo combustibili, due canali televisivi privati, una linea aerea, e soprattutto Ramak, la sua holding, controlla la compagnia telefonica Syriatel, che gestisce, controlla e può tagliare le linee di comunicazione. È chiamato “il signor 5-10%, per le tangenti che percepisce su una miriade di affari; e si dice pure che nessuna impresa straniera possa investire o fare affari in Siria senza passare per la sua approvazione/mediazione. Altrettanto corrotto è il fratello Hafiz Makhkuf, capo dei Servizi di Sicurezza di Damasco.
Il settantaquattrenne Muhāmmad Nasif Khairbek, è Secondo vicepresidente per gli Affari della Sicurezza e uomo chiave per i legami fra Damasco e Teheran. Fa parte della tribù dei Kalabiya cui appartengono anche gli Assad, ed è con loro imparentato giacché un suo famigliare ha sposato una delle figlie di Rifaat al-Assad, fratello del defunto presidente Hafiz. Rifaat – un tempo potentissimo – oggi non conta più nulla in quanto avendo tentato di destituire il fratello Presidente è stato esiliato in Spagna.
Vi sono poi altri quattro personaggi non imparentati ma membri del clan degli Assad. Sono: ‘Abdal Fattāh Qudsiyeh è l’attuale e temuto capo dei Servizi Segreti militari con il compito specifico di garantire la lealtà al regime da parte delle Forze armate. Importantissimo anche Jamil Hassan, capo dei servizi segreti dell’Aeronautica; quest’arma (artefice del colpo di stato che a suo tempo portò al potere Hafiz al-Assad) viene considerata la spina dorsale dello spionaggio e dei servizi di sicurezza siriani, tanto che a essa sono state affidate azioni contro gli estremisti islamici e operazioni poco pulite all’estero. Infine ‘Alī Mamlūk, responsabile della Sicurezza Interna, e il suo vice Zuhair Ahmad.
Crisi ai vertici dell’Iran: la lotta fra Ahmadinejad e Khamenei
Ancora una volta è opportuno uscire dai confini arabi senza allontanarci di molto.
Non sembra che i media italiani si siano molto sensibilizzati per gli sviluppi della lotta di potere ai vertici dell’Iran fra la Guida Suprema Ayatollāh ‘Alī Khamenei, e il Presidente della Repubblica Mahmud Ahmadinejad; lotta che ovviamente coinvolge le rispettive fazioni. Già c’era stata la scomparsa di Ahmadinejad dalla scena pubblica per un certo periodo a destare sospetti, e oggi ci sono gli arresti di 25 suoi collaboratori tra cui il suo ex capo di gabinetto e braccio destro Esfandiar Rahim Mashaei, l’Ayatollāh Abbas Amirifar capo della Commissione Cultura e alcuni giornalisti del quotidiano di recente varato da Mashaei, lo Haft-e-Sobh; e poi la notizia che Khamenei avrebbe chiesto ad Ahmadinejad di dimettersi dalla carica e al Parlamento di avviare contro di lui un procedimento di impeachment. In attesa che sui media informativi la cosa sia adeguatamente focalizzata, vediamo cosa ci dicono gli elementi disponibili. Teniamoci forte: l’accusa rivolta agli arrestati è di fare uso di poteri soprannaturali e di invocare gli spiriti in modo da sostenere la criticata politica del Presidente con metodi magici; e in particolare Mashaei è incolpato di avere poteri speciali nel campo della metafisica e legami con l'ignoto! Ma procediamo con ordine.
L’esistenza di forti contrasti fra Ahmadinejad e Khamenei era esplosa il 17 aprile scorso con il fallito tentativo di Ahmadinejad di liberarsi del Ministro dell’Intelligence Heydar Moslehi, personaggio appoggiato dalla fazione più conservatrice di quella specie di clero che si è formato negli ultimi secoli di storia dello sciismo duodecimano, egemone in Iran. Sembra che Ahmadinejad ritenga Moslehi responsabile delle inefficaci misure contro il virus informatico “Stuxnet” che ha colpito il programma nucleare iraniano e inoltre che sia rimasto insoddisfatto della repressione delle manifestazioni di protesta svoltesi a Teheran nei mesi passati. Era anche un’occcasione per ribarire il controllo del Presidente della Repubblica sul governo. Poche ore dopo che Moslehi era stato costretto alle dimissioni, ne veniva annunciata la reintegrazione nel governo per ordine dello stesso Khamenei, a cui spetta la decisione finale sulle nomine governative. Successivamente di Ahmadinejad si sono perse le tracce per 11 giorni, non partecipando egli nemmeno alle riunioni del Consiglio dei Ministri. Alla fine di questo periodo di assenza misteriosa e silenziosa Ahmadinejad è tornato in ufficio, senza però aver accettato la decisione della Guida Suprema. Tale atteggiamento ha fatto sì che l’Ayatollāh Mesbah Yazdi, uomo di Khamenei, se ne sia uscito con l’affermazione che disobbedire alla Guida suprema significa abbandonare Dio. Dopo di che è scattata l’ondata di arresti di collaboratori del Presidente.
Un documentario religioso e il culto dell’Imām nascosto
Uno degli elementi a carico di Mashaei e degli altri è la realizzazione di un documentario religioso di successo del quale sono accusati di essere i responsabili. Per capire di che si tratta dobbiamo spiegare un aspetto importante del credo religioso degli sciiti duodecimani. Alla base della nascita dello sciismo vi è l’antichissima contesa per la successione al profeta Muhāmmad quale capo della comunità islamica. Secondo una parte dei seguaci del nuovo credo il califfato – istituito proprio per sovvenire alla scomparsa del profeta – spettava ad ‘Alī cugino e genero di Muhāmmad. Ucciso ‘Alī, i seguaci – gli appartenenti al suo partito (shiiat ‘Alī), da cui il nome sciiti – fecero dei suoi successori, detti Imām, i propri capi spirituali in contrapposizione ai califfi sunniti (da sunnāh, tradizione, ovviamente del profeta). Nel corso del tempo la figura dell’Imām è stata oggetto di una vasta speculazione teologica che ha finito col divinizzarla, sia pure in termini assolutamente non comparabili con la grandezza dell’unico Dio, Allāh. Per una parte degli sciiti, oggi maggioritaria nello sciismo, il 12° Imām si sarebbe misticamente occultato nel IX secolo della nostra era: sarebbe cioè scomparso dalla faccia della terra ma senza essere morto, anzi restando misteriosamente presente ed operante nel corso dei secoli. Una credenza cardine riguarda il ritorno dell’Imām alla fine dei tempi come Mahdi per svelare tutti i sensi occulti del Corano ed effettuare il Giudizio Universale.
Ahmadinejad, un devoto del culto dell’Imām nascosto, a cui ha fatto spesso riferimento nei suoi discorsi, crede anche nel suo imminente ritorno, tanto che nel 2009 ha pubblicamente accusato gli Stati Uniti di operare per ostacolarne la venuta (!). Ebbene, l’incriminato documentario sostiene che l’avvento del Mahdi è prossimo, fornendo un ottimo pretesto alla fazione conservatrice dei Mullāh – alla quale appartiene Khamenei – per trasferire la lotta ad Ahmadinejad sul pericoloso piano religioso. Infatti, questa fazione aveva imposto il divieto di fare previsioni su tale evento apocalittico, equiparandone la violazione al delitto di stregoneria, punibile con la pena di morte.
Possibili motivazioni politiche dello scontro di potere
C’è da capire quali siano le basilari motivazioni politiche di questo scontro di potere, giacché almeno in Occidente si aveva l’impressione che Ahmadinejad fosse sempre stato eletto alla Presidenza in quanto uomo del clero sciita. In realtà lo scontro nasce da una serie di fattori strettamente intrecciati fra loro. Ci sono le velleità personali di Ahmadinejad che mal sopporta di avere sopra di sé una Guida Suprema attenta alle sue prerogative e poco disposto a farsi scavalcare da un Presidente della Repubblica dai bassi indici di gradimento, forse più conservatore dello stesso Khamenei e ben poco valido sul piano della politica economica. Poi abbiamo il vecchio contrasto fra clero e politici, con un’aggravante: Ahmadinejad è un politico che rappresenta anche l’ala militare del regime. Sembra inoltre che al ministero dell’Intelligence mirasse proprio l’arrestato Mashaei, e ciò proietta i disegni di Ahmadinejad sulle elezioni presidenziali che si terranno nel 2013. Avendo già occupato la carica per due mandati consecutivi, egli non potrà presentarsi candidato anche alle prossime elezioni, e si dice che il suo candidato sarebbe stato proprio Mashaei. Dulcis in fundo, nonostante le sue sparate retoriche, in realtà Ahmadinejad sarebbe favorevole a un appeasement con l’Occidente e gli Stati Uniti, e il suo braccio destro Mashaei ha fatto anzi dichiarazioni positive in questo senso, un po’ troppo sbilanciate. E si tratta di una linea che Khamenei e i suoi non gradiscono assolutamente.
Sta di fatto che Ahmadinejad si è messo in una posizione molto pericolosa, e nessuno si stupirebbe se - come accadde al primo Presidente dell’Iran islamico, Abul Hassan Bani Sadr – finisse ingloriosamente destituito. Ovviamente se tutto gli andrà bene; altrimenti potrebbe fare la fine del Ministro degli Esteri di Khomeini, Gotzbadeh, che venne giustiziato dopo un processo farsa.
Da sottolineare che la partita attualmente in corso a Teheran coinvolge solo fazioni dello schieramento conservatore: i cosiddetti moderati sono del tutto assenti. Non c’è molto da piangere, non trattandosi di elementi davvero alternativi all’ultratrentennale regime teocratico iraniano. Non saranno i “moderati” a cambiare le cose.