Per
quanto una situazione di estremo dinamismo, come quella irachena, induca ad
astenersi da previsioni sui futuri sviluppi, tuttavia è possibile iniziare a decifrare
– almeno in termini generalissimi - i cambiamenti imputabili agli eventi
odierni riguardo alla situazione preesistente.
A
breve o medio termine i possibili scenari di base sono due: nel primo i Jihadisti
sunniti vittoriosi saldano i conti millenari con gli Sciiti, in un enorme bagno
di sangue e causando immani devastazioni di un plurimillenario patrimonio
culturale, impadronendosi di tutto l’Iraq e delle sue riserve energetiche. Uno
scenario dalle conseguenze micidiali, ma difficilmente concretizzabile; e non
già per le aspettative di un salvifico “arrivano i nostri” made in Usa, che probabilmente non ci sarà (almeno, così sembra). In
uno scontro ormai palesemente intraislamico (cioè fra Sunniti e Sciiti) l’aspetto
rilevante si incentra su alcuni elementi di fatto fra loro relazionati: la
presenza maggioritaria sciita nella popolazione irachena, il concentramento
degli Sciiti per lo più nel sud del paese, la contiguità dell’Iran con l’Iraq.
Gli Sciiti
Tutto
ciò fa escludere che i jihadisti riescano a impadronirsi di una megalopoli come
Baghdad (a maggioranza sciita), per non parlare del sud iracheno. Militarmente
gli sciiti non sono affatto disarmati né privi di organizzazioni combattenti,
che anzi ricevono addestramento e armamento dall’Iran. Sul campo sono operative
due milizie sciite locali, armate, finanziate e assisite da Teheran: Kataib Hezbollah (Falange del Partito di
Dio) e Asaib Ahl al-Haqq (Lega della
Gente della Verità), che già hanno combattuto in Siria con le truppe di Bashar al-Assad,
e ora stanno reclutando volontari nei centri sciiti iracheni contro i
jihadisti. Anzi, elementi di Asaib Ahl
al-Haqq già si sono scontrati a Fallujah contro i miliziani dell’Emirato Islamico
dell’Iraq e del Levante (Dawlat al-Islaamiyya fii
al-Iraq wa-l-Sham), e il gruppo sciita Liwa Abu Fadl al-Abbas (Brigata Abu Fadl al-Abbas) -
originariamente costituito per combattere in Siria - si sta posizionando a Nord
di Baghdad; vi sono poi le milizie dell’Organizzazione
Badr (Luna piena). Secondo taluni media occidentali - nonostante le
affermazioni di segno contrario del governo di Teheran - truppe iraniane
sarebbero già in Iraq e avrebbero aiutato l’esercito iracheno a riprendere il controllo della maggior parte di
Tiqrit. Il britannico Guardian del 15 giugno riportava di centinaia di
volontari iraniani giunti in Mesopotamia, tra cui due battaglioni delle Forze Quds dei Pasdaran; inoltre 1.500 elementi dei Basij (paramilitari) avrebbero attraversato il confine nell’Iraq
centrale il 13 giugno, e nella stessa data il Maggior-Generale Qasim Sulaymani,
capo dei Quds delle Guardie Rivoluzionarie, sarebbe arrivato a Baghdad
per supervisionarne la difesa. La notizia data dal Wall Street Journal circa combattimenti fra iraniani e jihadisti è
coerente col fatto che i Pasdaran hanno avuto il loro primo pasdar ucciso dai sunniti.
Inoltre
l’Iran potrebbe operare sui partiti sciiti nel senso di decidersi a cooperare
per la formazione di un nuovo governo. A ciò si aggiunga che proprio Teheran
non potrà assolutamente mai consentire che i centri più sacri della storia
sciita (Karbala, Najaf, Samarra ecc.), con i loro veneratissimi santuari, siano
devastati dalla furia iconoclasta dei jihadisti. E l’esercito iraniano non è confrontabile
con quello iracheno di al-Maliki. Sembrar comunque che la resistibile avanzata
jihadista abbia perso un po’ del suo
vigore, e che l’esercito iracheno abbia ripreso a combattere, come è
successo a Bakuba (grazie anche ai
miliziani sciiti), Tal Afar, Baiji e Samarra (quest’ultima, pur se sopravanzata
dai jihadisti, non è però caduta). Rimandiamo a molto breve scadenza il tema
del crollo di questo esercito, e diciamo solo che l’attuale stabilizzazione
degli eventi bellici sembra mostrare un’estensione del fronte jihadista al di là delle sue effettive capacità operative.
I Curdi
Più
realistico, invece, appare il secondo scenario, consistente nella fine del
vecchio Iraq; o forse dell’Iraq tout
court. Qui il discorso si fa assai complicato per il numero di soggetti in
campo, per le variabili e per la necessità di non omettere la “dietrologia”,
che a volte fa prendere sonore cantonate ma a volte ci azzecca. Prima di tutto
valutiamo i fatti, cominciando però dai Curdi iracheni.
Caduta
Mossul ingloriosamente (una guarnigione di 30.000 soldati battuta da circa 800
miliziani sunniti!), i Peshmerga - le
milizie curde del Kurdistan del Sud (il Kurdistan del Nord è in Turchia, quello
Occidentale in Siria e quello Orientale in Iran) - si sono affrettate ad
occupare Kirkuk: cioè un importantissimo centro petrolifero, da cui Saddam
Husayn aveva espulso masse di curdi e in cui aveva avviato un’intensa opera di
arabizzazione; i Curdi finora avevano invano rivendicato per sé Kirkuk onde
farne la propria capitale (che attualmente è Erbil). Oggi il sogno si è
realizzato. Passata la bufera si ritireranno i Peshmerga? Tutto può essere, ma la logica dei rapporti di forza
vorrebbe che in atto si rispondesse “no”. E allora davvero il Kurdistan
iracheno potrebbe rafforzarsi ancor di più come embrione dell’agognato Stato
curdo indipendente. Diciamo “ancor di più” poiché già da Erbil si esporta
petrolio senza autorizzazione del governo di Baghdad e, a differenza del resto
dell’Iraq, vi funziona tutto (elettricità, acqua, raccolta dei rifiuti, ecc.),
mentre si edificano nuovi quartieri e l’edilizia fa affluire enormi quantità di
denaro.
Il
Kurdistan iracheno, tuttavia, non si limita all’esportazione abusiva di
petrolio, avendo avviato il funzionamento di un oleodotto che porti petrolio
direttamente al porto turco di Ceyhan, tanto che il governo di al-Maliki aveva
smesso di versare al Kurdistan iracheno la parte spettantegli sulle vendite
effettuate da Baghdad.
Un
osservatore ingenuo potrebbe chiedere: ma la Turchia che fa? Semplice: fa i
propri interessi utilizzando due pesi e due misure fra Curdi anatolici e Curdi
iracheni. A dire il vero inizialmente - accusando i Curdi iracheni di
appoggiare i Curdi del Pkk - aveva anche effettuato azioni di bombardamento,
salvo poi accorgersi che le bombe non portavano vantaggi economici; cosicché oggi
il Kurdistan iracheno è uno dei maggiori destinatari delle esportazioni turche.
Lo “strano” connubio tra
jihadisti e baathisti
L’attuale
crisi politico-militare è l’espressione di una rivolta sunnita (probabilmente finanziata
dal Qatar e dagli Emirati del Golfo, anche se ora, dopo che i jihadisti si sono
impadroniti a Mossul di ben 429 milioni di dollari, ci sarà una certa autonomia
finanziaria; ma tutto questo è di dettaglio). La sua rilevanza sta nel fatto che,
sia pure sotto le bandiere nere dei jihadisti, sembra aver compattato anche
elementi baathisti del vecchio regime di Saddam Husayn (teoricamente “laici”). Si
tratta di un fatto nuovo, tanto che alcuni si chiedono se i ribelli siano
davvero jihadisti come sembrano. Domanda insidiosa, ma ai nostri fini del tutto
inutile.
È
utile, invece, accennare a Izzat Ibrahim ad-Duri, che fu vicepresidente di Saddam, prezioso per i suoi
legami col mondo religioso sunnita e che mai fu catturato dagli invasori
statunitensi. I media arabi non allineati col fronte sunnita (come Syrian Perspective) ne
minimizzano le funzioni militari, sia per l’età e le condizioni di salute, sia
per la mancanza di un vero e proprio back-ground bellico. È invece il suo ruolo
politico a risaltare, come punto di collegamento fra baathisti, sunniti puri e
semplici, e jihadisti. Almeno finché durerà.
Oggi
palesemente lo scontro militare non ha come posta la capitale irachena, bensì
il controllo di quanti più centri petroliferi sia possibile. Il perché sta anche
nel fatto che la parte del
paese a grande maggioranza sunnita non ha molto petrolio, dal punto di vista
agricolo è assai più povera delle regioni curde e sciite, e quindi avrebbe
grandi difficoltà a sussistere economicamente come Stato separato. Questo
però non vuol dire che per Baghdad la riconquista totale delle zone perdute
sarebbe agevole se permanesse in piedi il fronte sunnita; nemmeno se
intervenissero gli Stati Uniti sul terreno.
Quindi abbiamo che i Curdi controllano quel che
loro serve per avere un proprio Kurdistan in Iraq; e i jihadisti hanno in mano
la parte sunnita. L’Iraq, quindi è attualmente
diviso in tre. Ciò conduce a ricorrere di nuovo alla dietrologia, magari
senza troppi voli di fantasia e cercando di essere plausibili.
I sospetti sugli Stati Uniti
In passato abbiamo già parlato di un progetto
statunitense per dividere in tre parti l’attuale Iraq, corredato da una mappa elaborata
dal colonnello Ralph Peters e pubblicata nel 2006, con l’interessante dettaglio
dell’inserimento di Kirkuk nella zona curda. In realtà la
spartizione dell’Iraq non si riduce solo alla mappa di Peters, giacché nel 2007
il vicepresidente Usa Joe Biden fece passare al Senato un progetto di «decentramento dell’Iraq in tre regioni
semi-autonome: curda, sunnita e sciita (...) [con un] limitato governo centrale
a Baghdad».
Da questo progetto emergono due elementi
importanti ai fini dell’imperialismo: una balcanizzazione dell’area
rigorosamente rispondente alla filosofia del divide et impera; la frantumazione dell’attuale corridoio d’influenza
sciita che si sviluppa secondo le linee Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut (cioè Hezbollah). Che la cosa interesserebbe
anche Israele è fuori discussione. Il corollario di questo progetto implica -
come danno collaterale non eliminabile - il sostanziale genocidio delle
minoranze cristiane e delle popolazioni sciite fuori dalle aree per queste
ultime previste. Ma non trattandosi di cittadini statunitensi o di adepti a una
qualche forma di Protestantesimo, tale esito diventa secondario.
A ben guardare si è cominciato con la
destabilizzazione della Siria che sembrava l’anello più debole, ma lì non è
andata bene, anche perché l’esercito siriano non si è disgregato affatto, c’è
stato un forte sostegno logistico russo ed Hezbollah e iraniani sono
intervenuti. In più Assad, invece di essere deposto o di andarsene, quest’anno
è stato rieletto alla Presidenza. A quel punto era ovvio che qualcosa di
significativo dovesse accadere in Iraq. Se qui la manovra riuscisse, il buco
nero iracheno provocherebbe l’isolamento della Siria e di Hezbollah rispetto a
Baghdad e Teheran, e viceversa. Gli attuali successi dei jiahdisti militarmente
sono di una stranezza assoluta, e mandano odore di tradimento e corruzione: ciò
in considerazione del fatto – ammesso che sia vero - che il numero dei
jihadisti si aggirerebbe sui 30.000 uomini. L’esercito di Saddam li avrebbe
eliminati con brutale rapidità; ma così non è stato per l’esercito creato dagli
statunitensi.
La posizione assunta da Obama è completamente
diversa da quella di Bush e da quella interventista ripresa oggi con virulenza
dai repubblicani, ma non è detto che divergano anche gli obiettivi. Se il
governo di Baghdad non ce la dovesse fare a sconfiggere i jihadisti, la
spartizione sul terreno apparirebbe già bella e fatta, e basterebbe solo un
“interventino” di Washington per stabilizzarla. Lo stesso, e a maggior ragione,
dicasi per la posizione interventista repubblicana, giacché l’impegno militare
diretto statunitense vorrebbe dire nuova invasione del paese.
È rivelatore il fatto che sia democratici sia
repubblicani se la prendano accanitamente con al-Maliki e gli sciiti; o che in
taluni giornali si cominci a sostenere che l’egemonia sciita sull’Iraq sia
arrivata alla fine. Dal momento che negli Stati Uniti non si vuole che i jihadisti sunniti controllino tutto l’Iraq, ma nel contempo non si
vuole aiutare gli sciiti iracheni, ecco che la spartizione risulta per forza di
cose l’esito “naturale”. Diventano quindi sintomatiche le pressioni Usa per far
dimettere al-Maliki per quanto egli abbia vinto le recenti elezioni. Se davvero
l’offensiva jihadista avesse preso alla sprovvista il governo Usa, allora esso
dovrebbe procedere a massicci licenziamenti e sostituzioni nei suoi servizi di intelligence. Che nessuno si fosse
accorto di quanto si preparava non è affatto credibile: eppure Washington è
rimasta ferma e non ha dato segnali di allarme. E ciò benché, oltre ad aver
avuto qualche migliaio di morti, abbia speso nella seconda guerra in Iraq oltre
800 miliardi di dollari solo per le operazioni militari, per arrivare a 3.000
miliardi considerando la totalità dei costi.
Ma
indebolimento e controllo dell’Iraq diventano “necessari” anche alla luce della
sempre maggiore presenza economica della Cina, oggi acquirente di metà circa della
locale produzione petrolifera e titolare di grandi investimenti nell’industria
estrattiva irachena. A ciò si aggiunga che nel febbraio scorso, durante la
visita del ministro degli esteri Wang Yi a Baghdad, sono stati firmati accordi
anche per forniture militari cinesi. Aggravando la sua posizione verso Washington,
a novembre dell’anno passato Nuri al-Maliki ha concluso con Teheran, sfidando
l’embargo voluto da Washington, un accordo per l’acquisto di armi iraniane che
ammonta a 195 milioni di dollari.
Qualcuno pensa alle
conseguenze?
Non
c’è bisogno di essere profeti per concludere che gli Stati Uniti ancora una
volta sono responsabili della nascita di una specie di mostro di Frankenstein e
del suo sguinzagliamento per il mondo. L’organizzazione dei jihadisti che sta
mettendo in ginocchio l’Iraq è nata in Siria, nel calderone della rivolta
contro al-Assad, e ormai non è un segreto per nessuno il foraggiamento
statunitense a tutti gli insorti,
estremisti islamici compresi. Anche le parole lo rivelano: finché operavano in
Siria gli Stati Uniti li qualificavano come “ribelli”; gli stessi, ora in Iraq
sono diventati “terroristi”. Ma tant’è.
Se
l’ipotesi dietrologica dianzi proposta non venisse smentita, allora la manovra
statunitense dovrebbe essere considerata ad altissima e incosciente
rischiosità. Difatti gli eventi iracheni sono diventati un incubo per tutto il
mondo islamico non stordito dalla droga jihadista. Sono in pericolo di contagio
Iran, Libano, Giordania, Turchia
e anche l’ineffabile Arabia Saudita (il cui Re non a caso è andato al Cairo da
al-Sisi).
Un
infuriato al-Maliki ha sùbito accusato l’Arabia Saudita di appoggio ai
jihadisti in Iraq; tuttavia si possono nutrire dubbi sulla sussistenza attuale di
un aiuto ufficiale saudita. Sul ruolo del Qatar è meglio non pronunciarsi. Sta
di fatto che in tutta la penisola araba esistono ultraricchissimi “mecenati
politici” non governativi e difficilmente controllabili dai poteri locali. Ciò
detto, va osservato che il governo saudita - al di là delle affinità
ideologiche - non sembra proprio favorevole ai jihadisti iracheni, così come
non lo è stato per i Fratelli Musulmani d’Egitto. E poiché la motivazione per
un simile atteggiamento non può che rimandare a divergenti interessi concreti,
è legittimo chiedersi se non si debba fare riferimento alla presenza di
elementi del defunto partito Baath di
Saddam. La caduta di Mossul va attribuita a ex-ufficiali baathisti che
abbandonarono i loro posti causando il collasso delle difese della città e fu il
Baath a propugnare l’invasione del Kuwait che era diventato troppo “ossessivo”
nel chiedere il rimborso delle somme anticipate all’esercito iracheno nella guerra
contro l’Iran di Khomeini.
La
vittoria degli ex-baathisti sarebbe una calamità per l’Arabia Saudita. Esistono
testimonianze da Mosul sul fatto che all’ingresso della città vi sono ora i
ritratti di Sadam Husayn e Izzat Ibrahim ad-Duri e che sarebbe stato nominato
un nuovo governatore, in persona dell’ex-generale di Saddam, Azhar al-Ubaydi.
Ma
sauditi a parte va considerato che con la frammentazione dell’Iraq si sta completando un corridoio
jihadista che comprende Egitto e Yemen, penetra in Libia, arriva in Tunisia, si
estende nel Sahara per arrivare al Mali e colpisce anche Kenya e Nigeria. Ovviamente
le armi abbandonate dai militari iracheni e prese dai jihadisti saranno usate
pure in Siria col rischio di vanificare almeno parte dei risultati ottenuti
dall’esercito regolare siriano contro gli insorti.
Anche
la Turchia corre il rischio di pagare caro l’avventato appoggio logistico dato ai
ribelli islamisti in Siria. Intanto sembra che tra i jihadisti dell’Iraq vi
siano circa 3.000 turchi, che prima o poi dovranno pur tornare a casa a far
danni o a creare problemi. L’incubo per Ankara consiste nel pericolo di una
saldatura (alla maniera irachena) fra i curdi (laici finora) del Pkk e i
jihadisti iracheni: se si realizzasse sarebbero dolori per la Turchia ma anche
per il confinante Iran che alla frontiera ha una zona curda. Intanto in Libano ci
sono stati attentati, scontri al confine con gruppi estremisti, mentre incombe
il pericolo delle cellule dormienti all’interno, che potrebero risvegliarsi da
un momento all’altro.
Un
attacco alla Giordania, poi, non sarebbe affatto difficile. Infatti Amman ha già schierato truppe aggiuntive
ai confini con Siria e Iraq, stante la presenza sul suo territorio di una
cellula jihadista favorevole all’instaurazione di un emirato islamico. E dalla
Giordania lo sconfinamento in Palestina e da lì in Egitto, attraverso il Sinai,
sarebbe un gioco. Dal canto suo l’Egitto è ormai una polveriera: migliaia di Fratelli
Musulmani sono stati uccisi, attentati, sequestri, e scontri a fuoco tra
islamisti e la polizia fanno ormai parte di una “normalità” patologica, e
l’economia è a picco. Per non dire che dal Cairo a Tripoli è un passo.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com