L’articolo di
Roberto Massari, «Per un’Europa rossa», venne scritto in occasione delle prime
elezioni del Parlamento europeo. Da allora sono trascorsi ben 35 anni e
l’Europa e il mondo sono, per tanti aspetti, cambiati. È cambiata la carta
politica europea: anzi, essa può ancora drammaticamente cambiare, se si guarda
a quel che sta accadendo proprio in questi giorni in Ucraina; e nel frattempo
gran parte degli Stati del continente hanno aderito sia all’Unione europea sia
al sistema monetario unificato. Tuttavia, alcune questioni di fondo, ideali e
politiche, non sono mutate: e proprio in occasione di quella prima tornata
elettorale emersero con forza.
L’interesse di
questo articolo di Massari risiede nella visione storica che propone e nel
conseguente orientamento politico strategico, che trascende le singole
questioni e le alternative schematiche, del tipo «dentro o fuori l’Unione
europea». Già nel 1979, al disegno capitalistico di parziale unificazione
politica, da una parte, e dall’altra al nazionalismo antieuropeistico di alcuni
partiti di sinistra, anch’esso nei fatti sostenitore di una posizione
capitalistica ma arretrata, Massari opponeva la visione di una vera unione politica
di tutta l’Europa. Una unificazione, però, che necessariamente deve passare
attraverso la lotta sociale continentale contro il capitalismo e le caste
politiche dominanti.
In appendice pubblichiamo un secondo articolo di Massari, «Pci ed Europa» del 1978, per dare un'idea di quali fossero le prospettive del Pci sulla questione.
(m.n.)
PER UN'EUROPA ROSSA, di Roberto Massari
(Pubblicato in La classe, n.23/1979)
Convocando le elezioni europee, le
borghesie nazionali dei singoli paesi del Mec hanno lanciato una sfida
all’intero movimento operaio, europeo e mondiale. Alcune organizzazioni del
movimento operaio - la maggior parte, in realtà - hanno accettato formalmente
questa sfida dichiarandosi disponibili a entrare nella competizione elettorale
sul terreno istituzionale del Parlamento europeo; nessuna però delle
organizzazioni storiche del movimento operaio ha accettato la sfida nella
sostanza, contrapponendo alla prospettiva
dell’«unificazione» interimperialistica quella degli Stati uniti socialisti di tutta l’Europa, come primo passo verso la costituzione di una
Federazione mondiale delle Repubbliche socialiste di tutti i popoli.
Per noi marxisti rivoluzionari, la questione
«europea» si riduce fondamentalmente all’interrogativo: è in grado la borghesia
di ciascun paese d’Europa di suicidarsi in quanto classe autonoma a sé stante,
di rinunciare al proprio campo d’azione specifico, rappresentato dallo Stato
nazionale e inserirsi quindi in uno Stato sovranazionale più vasto, eliminando
le leggi della concorrenza interimperialistica al proprio interno?
E nel caso che la borghesia si dimostri
incapace storicamente di realizzare un tale salto di qualità, è bene ugualmente
che l’Europa dei vecchi Stati nazionali venga distrutta per fare posto a uno
Stato sovranazionale unico, le cui modalità di funzionamento (federazioni,
fusioni, autonomie ecc.) vengano decise democraticamente da tutti i popoli
interessati, sulla base del principio della loro autodeterminazione?
E se quest’ultima soluzione apparisse
realmente come la più corrispondente ai bisogni materiali, ideologici e
politici dei popoli - e pochi avrebbero il coraggio oggigiorno di negarlo anche
se su un piano puramente verbale - varrebbe la pena di fare appello alle classi
lavoratrici di tutta l’Europa, le uniche in grado di realizzare un tale scopo,
perché l’impongano con la forza della propria lotta ideale e materiale?
A questi interrogativi i rivoluzionari
rispondono senza esitazioni che 1) la
borghesia si è effettivamente dimostrata storicamente incapace di superare il
quadro dello Stato nazionale e anzi ha trasformato quest’ultimo nel suo
principale strumento di sopravvivenza in quanto classe; 2) che la creazione di uno Stato sovranazionale europeo, come
primo passo verso una Federazione mondiale dei popoli, è non solo auspicabile,
ma addirittura indispensabile per la sopravvivenza stessa dell’umanità; 3) che solo le classi lavoratrici europee potrebbero realizzare
questo primo passo impiegando i metodi di lotta e i criteri di organizzazione
sociale che sono loro propri.
In conclusione, ciò significa che i
princìpi o le basi nazionaliste della sopravvivenza della borghesia sono
incompatibili con quelle della sopravvivenza dell’umanità e che solo se le
classi lavoratrici riusciranno a vincere la corsa nel tempo contro la
proliferazione degli armamenti atomici nelle mani dell’imperialismo - e contro
le tendenze alla guerra tra Stati nazionali che caratterizza storicamente quest’ultimo
- potranno salvare l’umanità dalla distruzione e dalla barbarie. Ciò basterebbe
da solo a giustificare la necessità della rivoluzione socialista in tutta
l’Europa, oltre che nel resto del mondo.
Ma accanto a questo grande e principale
motivo storico, i lavoratori ne hanno molti altri che puntano ugualmente verso
la necessità di costruire uno Stato sovranazionale socialista, passando sul
cadavere delle vecchie classi borghesi che a questo progresso dell’umanità si
oppongono.
E allora, anche se queste elezioni
«europee» costituiscono un atto puramente formale, nell’ambito di un Parlamento
che si distinguerà da quelli nazionali solo per la sua ancor più grande
mancanza di potere, che interesse possono avere i lavoratori e i rivoluzionari
in particolare a prendere parte a una battaglia istituzionale di pura
propaganda capitalistica?
Il problema va affrontato facendo in
primo luogo chiarezza sulla natura di questo processo di «unificazione»
capitalistica dell’Europa. Va detto innanzitutto che le dichiarazioni e gli
appelli all’unificazione da parte di ampi settori delle borghesie europee, in
particolare di alcuni dei loro settori più forti e fondamentali, sono
tutt’altro che pura vendita di fumo. Le tendenze all’unificazione sono infatti
il prodotto di una necessità oggettiva, indotta dallo sviluppo stesso delle
forze produttive dal dopoguerra a oggi; uno sviluppo per il quale le frontiere
nazionali oggi esistenti costituiscono un ostacolo, analogamente a quanto
accadde nel secolo scorso in Germania, quando le frontiere doganali furono
abolite con la fondazione della Deutscher Zollverein.
Oggi si pone alla borghesia lo stesso
problema, ma su scala molto più vasta e ovviamente in un contesto
storico-politico diverso. Il motore essenziale, però, è sempre quello della
concorrenza intercapitalistica: concorrenza di mercato innanzitutto con gli Usa
e il Giappone, contro i quali i vari settori di capitale nazionale europeo si
trovano spesso in posizione di inferiorità, ma anche necessità di
valorizzazione su scala più ampia del capitale, in accordo alla maggiore
dimensione e produttività dei mezzi di produzione che sono a disposizione dei
singoli paesi europei.
Il fatto però che, nonostante queste
tendenze oggettive, il processo di unificazione capitalistica si svolga ormai
da più di vent’anni senza arrivare a compimento, dimostra la correttezza
dell’analisi marxista tradizionale, che nega la possibilità di un ulteriore
sviluppo dello Stato borghese oltre le sue frontiere nazionali, nell’ambito di
rapporti di produzione capitalistici. Nega cioè la possibilità della formazione
di un vero e proprio Stato borghese sovranazionale, nell’epoca di sopravvivenza
dell’imperialismo. E infatti, dopo aver assistito per decenni al conflitto
permanente tra le forze favorevoli a una maggiore concentrazione delle forze
produttive, da un lato (favorevoli quindi a processi di unificazione), e quelle
legate alla difesa di interessi più particolari, dall’altro (che ostacolano
tali processi), abbiamo visto il processo fermarsi drasticamente con la crisi
del 1973. Neppure gli sforzi, spesso spettacolari nella loro messa in scena,
tentati da personalità politiche dei vari paesi europei, sono riusciti a
cambiare questo dato di fatto. L’ultima prova del resto ci è stata fornita
dalla trattativa sullo Sme, come dimostrazione dell’impossibilità per la
borghesia di procedere avanti sulla strada di una vera unificazione.
Eppure, nonostante queste
contraddizioni e insuccessi, rimane intatto il valore ideologico della
propaganda a favore dell’«unificazione» all’interno del modo di produzione
capitalistico: ed è questo valore ideologico che la borghesia non intende
rinunciare a sfruttare. E con questo non intendiamo riferirci solo all’evidente
tentativo di deviare l’attenzione della crisi della borghesia al livello
nazionale per far credere che essa possa avere una soluzione al livello
internazionale. Ma di più: con questa «unificazione» europea la borghesia tenta
di dimostrare l’utilità della sua esistenza o perlomeno la possibilità di una
sua nuova prospettiva. Unendo ciò alla campagna di critica contro i paesi del
cosiddetto «socialismo reale», tenta di dimostrare la capacità della democrazia
borghese di sviluppare una prospettiva che - meglio di questi paesi
«socialisti» - vada oltre lo Stato nazionale di tipo tradizionale. In sostanza,
la borghesia cerca di presentarsi come portatrice di una nuova prospettiva di
classe borghese ancora piena di vitalità, come classe progressista ancora
capace di assolvere a compiti storici.
Questa necessità propagandistica è
diventata particolarmente attuale nel momento più alto della crisi nei singoli
Stati - oltre che nella Cee - quando la sfiducia crescente delle varie
popolazioni europee verso i propri regimi ha raggiunto livelli tali da
allarmare seriamente i principali ideologi della borghesia: e questo non solo
nella Rft. Per le borghesie europee era impossibile restare con le mani in mano
e qualcosa doveva essere fatto per contrastare tali processi; e poiché era
impossibile presentare dei progressi reali sulla strada dell’unificazione,
l’apparenza e la messa in scena dovevano sostituire la realtà, nel modo
diventato ormai essenziale per l’esistenza stessa della borghesia: erano
necessarie, quindi, le elezioni - «europee», questa volta.
Che posizione adottare allora da parte
dei rivoluzionari, verso una tale messa in scena? Nel momento in cui la
borghesia si mette a recitare il suo dramma di menzogne sulle «grandi
prospettive della società borghese» è evidente che i rivoluzionari non possono
tacere: ciò vale ancor di più se si pensa che la messa in scena si rivolge
innanzitutto alla classe operaia, sperando di poterne captare l’attenzione e il
consenso. E una tale speranza non è del tutto priva di basi, vista l’esistenza
di ben precisi «rappresentanti» della classe operaia come i partiti
socialdemocratici e stalinisti, le cui posizioni favoriscono la penetrazione di
tale messa in scena tra i lavoratori.
I partiti socialdemocratici, secondo la
loro antica tradizione filoimperialistica, si battono per una collaborazione
più stretta tra i vari imperialismi nazionali, purché essa non entri in
contrasto con gli interessi della borghesia del proprio paese. E i partiti
eurocomunisti, che hanno tentato un loro rilancio in chiave nazionalista nel
corso di questi anni - tanto da farli apparire ad alcuni come un’alternativa al
nazionalismo stalinista di tradizione sovietica - non sono riusciti a trovare
il benché minimo accordo tra loro su questioni così importanti come
l’atteggiamento verso il Mec e la Nato.
E allora, davanti all’assenza di
alternative internazionalistiche nel movimento operaio, e davanti al tentativo
della borghesia di fingere di rimettere in discussione il proprio assetto
nazionalistico, ai marxisti rivoluzionari non resta che impegnarsi in una
campagna propagandistica, a tutti i livelli, che abbia al centro le tre
seguenti parole d’ordine:
1. Contro
l’Europa del capitale!
Noi rifiutiamo e denunciamo ovviamente
la prospettiva di «unificazione» che ci viene proposta - sia pur solo
propagandisticamente - dal capitalismo, con tutte le sue prospettive di aumento
e raffinamento dello sfruttamento, di repressione e di imbarbarimento della
vita sociale. Questa prospettiva di «unificazione» non può essere la nostra,
dei lavoratori e degli immigrati sfruttati in ogni angolo d’Europa.
Ma se denunciamo e lottiamo contro
l’Europa del capitale, ciò non significa che prendiamo posizione all’interno
dello scontro borghese tra chi dichiara di volere un’unificazione capitalistica
e chi la respinge, né sui vari modi proposti per realizzare tale obiettivo. Ciò
che esiste dell’attuale processo di «unificazione» si svolge sotto controllo
capitalistico, si basa sulla necessità di valorizzazione del capitale su una
scala più ampia, è in sostanza un processo tutto interno alla società borghese:
e quindi, prendere posizione per l’una o l’altra delle parti in causa
significherebbe assumersi la responsabilità e propagandare delle illusioni
verso settori specifici di borghesia. Non entriamo nel merito quindi delle
varie proposte di unificazione borghese, perché esterne alla nostra logica di
«unificazione» di classe e perché non crediamo che esista alcuna possibilità di
realizzare una tale riforma del sistema.
2. Contro
il nazionalsciovinismo!
Settori numerosi delle forze politiche
che in Europa fanno riferimento
alla classe operaia hanno preso esplicitamente posizione contro l’entrata della
Grecia, la Spagna e il Portogallo nel Mec e quindi contro l’estensione di tale
organismo. Una posizione questa purtroppo gravissima, perché non solo ha abbandonato
la necessaria neutralità che il movimento operaio deve mantenere nei confronti
dello scontro interborghese sul processo di «unificazione», ma si è addirittura
schierata nella sostanza con i settori più arretrati della borghesia di ciascun
paese, assumendo così, più o meno consapevolmente, la difesa del vecchio Stato
nazionale come alternativa preferibile all’ampliamento del Mec. È questa tra
l’altro una posizione molto incoerente perché - allo stesso titolo per il quale
si vogliono tenere fuori le economie borghesi della Spagna, la Grecia e il
Portogallo dal Mec - si dovrebbe chiedere anche lo scioglimento di
quest’ultimo, l’uscita dell’Italia, la Francia ecc., dando così poi veramente
la prova che le uniche correnti progressiste si troverebbero oggi all’interno
del fronte borghese!
Vista l’influenza significativa che
queste posizioni nazionalscioviniste hanno in settori del movimento operaio (il
Pcf, settori laburisti, oltre a correnti minori come il Segretariato
unificato), dobbiamo legare indissolubilmente la nostra lotta contro l’Europa
del capitale alla lotta contro il nazionalsciovinismo, con la consapevolezza
che solo in questo modo l’opposizione all’Europa del capitale acquista un
valore progressivo e non reazionario.
3. Per
gli Stati Uniti socialisti di tutta
l’Europa!
L’enfasi è sull’aggettivo «tutta». A
noi infatti non interessa minimamente che cosa la borghesia intenda per
«Europa», la «sua» Europa. I suoi progetti possono al massimo costituire per
noi delle basi di partenza, ma non esprimono certo il quadro della nostra
politica. L’Europa per noi significa un’entità geografica, storica e politica
precisa che include gli Stati capitalistici occidentali e gli Stati operai
burocratizzati del blocco sovietico: questa è la base reale della costruzione
della futura Federazione unitaria degli Stati socialisti d’Europa. Il processo
rivoluzionario nei paesi capitalistici che solo potrà realizzare l’unificazione
di questi paesi, non potrà fermarsi alle frontiere del Comecon, ma le
scavalcherà distruggendo per via rivoluzionaria le attuali strutture del
potere, quelle della burocrazia stalinista, nazionalista dell’Europa dell’Est.
Si pensi a questo riguardo all’effetto
che in entrambi i versanti dell’Europa ebbero i movimenti di rivolta del ‘68 e
come la stessa borghesia occidentale finì con l’accettare l’invasione sovietica
della Cecoslovacchia come male minore di fronte ai rischi di combinazione delle
varie spinte in un unico grande processo rivoluzionario.
Oggi, pur non avendo la possibilità
concreta di fare contemporaneamente una propaganda di massa nei paesi dell’Est
a favore degli Stati uniti socialisti d’Europa (e quindi per la rivoluzione
politica in questi Stati a dittatura burocratica), denunciamo ugualmente la
prospettiva di «unificazione» borghese, tutta interna ai paesi del blocco
imperialistico.
Basterebbe già solo questo aspetto a
dimostrare la superiorità del nostro internazionalismo proletario
sull’«internazionalismo» della borghesia europeista! E allora, se con queste
elezioni la borghesia ha messo in discussione la prospettiva europea,
accettiamo la sfida, senza alcuna paura o senso di inferiorità!
Solo il movimento operaio europeo,
armato di un programma rivoluzionario, può garantire la realizzazione della
prospettiva europeista che la borghesia ha dimostrato da più di un secolo di
non essere in grado di assolvere.
APPENDICE
PCI ED EUROPA, di Roberto Massari
(Pubblicato in La classe, n. 20/1978)
L’8 e il 9 novembre il Pci ha organizzato un
convegno sull’Europa, in vista delle elezioni europee, ma con il fine preciso
di avviare un primo scambio di idee e di divergenze tra i suoi principali
esponenti, onde evitare sorprese nel corso del Comitato centrale che meno di un
mese dopo sarebbe stato convocato sullo stesso tema. La differenza principale
tra le due iniziative, così vicine nel tempo e così inspiegabilmente uguali, va
ricercata in primo luogo nella lista dei relatori: Pajetta, Galluzzi, Viezzi,
Segre, Jotti (il «centro» berlingueriano) a novembre - il solo Amendola accolto
da malumori e critiche, a dicembre. Ma ancor più inspiegabile, per chi non è
addentro nei meandri della «diplomazia» stalinista, sembrerebbe il fatto che di
entrambe le iniziative, dell’estensione delle divergenze e delle indicazioni
concrete contrastanti emerse, non si trovi traccia nel Progetto di tesi per il
XV Congresso del Pci. Si vedano in particolare le tesi 30-32 e 35-36.
Eppure la questione è spinosa, enormi le divergenze
e via via crescente il ritmo del loro approfondimento, a partire perlomeno
dalla Conferenza dei partiti comunisti europei di Karlovy Vary, dell’aprile
1967. Anche questa è stata stranamente dimenticata nelle due riunioni citate,
in particolare nella relazione al Cc di Amendola, che pure è partito nella sua
ricostruzione storica dell’europeismo dalla civiltà greco-romana fino all’oggi,
rivendicando con orgoglio anche la «difesa del continente dalle pressioni
esterne (mongoli, turchi, arabi)», oltre alla più concreta, ma non meno grave,
«espansione militare, economica, culturale» contro «l’immobilismo delle altre civiltà
fondate su modi ripetitivi di produzione e sulla negazione della funzione
dell’individuo».
Già queste scarne citazioni della relazione di
Amendola, ingenuamente intrise di razzismo, eurocentrismo alla Montanelli e
crassa ignoranza storica, basterebbero da sole a dare una prima idea dei
contenuti reazionari e anticomunisti con cui il Pci guarda alla prospettiva
europea. Ma non è questo il nodo della questione. A noi devono interessare le
forme politiche concrete che l’anticomunismo viscerale di Amendola o il più
accorto gioco della diplomazia estera berlingueriana (Segre e Pajetta),
assumono via via nello scacchiere europeo. E per questo abbiamo richiamato
Karlovy Vary.
Perché di lì nascono le divergenze, a partire dal
momento in cui un’assise stalinista internazionale ratificò ufficialmente la
fine delle vecchie contrapposizioni frontali tra le due realtà principali del
continente europeo (quella imperialistica e quella burocratica), ponendo così
fine all’intangibilità degli equilibri tra i due blocchi ereditata dall’epoca
della guerra fredda. A partire da allora (e ancor prima, dalla conferenza di
Bucarest) acquistava piena ufficialità nel movimento stalinista la linea, come
si disse, della contemporanea «liquidazione delle organizzazione militari, sia
del Patto atlantico che del Patto di Varsavia».
Per l’Urss e gli altri partiti stalinisti al
potere, quella formula non implicava nessuna variazione di sostanza, dal
momento che davanti all’evidente non-scioglibilità della Nato, anche il Patto
di Varsavia continuava a mantenere la sua vigenza (anzi, poco più di un anno
dopo, ciò veniva dimostrato con l’invasione della Cecoslovacchia). Ma per il
Pci e chi al potere non ci sarebbe arrivato in breve tempo, la formula lasciava
margini di manovra relativamente ampi sulla via della ricerca di un accordo
nazionale con la propria borghesia imperialistica. È noto che il Pci è il
partito che si è spinto più avanti di tutti su questa strada.
Troppo avanti e con troppo pochi risultati
tangibili. A ogni nuovo attrito della «distensione» e dell’equilibrio
tripolare, a ogni passo in avanti delle truppe dell’area sovietica (cui
corrisponde puntualmente un’analoga iniziativa dell’oltranzismo atlantico), il
fragile equilibrio nazionale tra Dc e Pci viene rimesso in discussione,
minacciato, ridimensionato, protraendo nel tempo la non-entrata del Pci nel
governo italiano. Di qui la vocazione «europeistica», vale a dire la ricerca di
soluzioni extranazionali che risolvano alla radice i mali che impediscono una
duratura integrazione del Pci nell’apparato statale, al contrario invece di
come è stato fatto e continua a essere possibile per i socialdemocratici. Non
si tratta di una vera fede «europeistica», quindi, ma semplicemente di un
tentativo di aggiramento dell’ostacolo, per la realizzazione delle classiche
mire nazionalistiche dello stalinismo.
Di qui le divergenze, puramente tattiche, ma non
per questo meno profonde, riguardo ai margini di contrattabilità della
dipendenza sovietica, con aperture governative su scala nazionale; o, su un
piano più generale, sull’estensione reale delle interpretazioni possibili della
formula «superamento contemporaneo dei blocchi». Nella stampa quotidiana di
partito, in alcune dichiarazioni di Berlinguer, nella filosofia di Pecchioli,
questo «superamento» acquista normalmente il carattere di uno schieramento
aperto con la Nato, inteso come blocco militare in cui già ci si trova
nell’attesa del futuro «superamento».
Nelle posizioni veramente ufficiali, invece, come
quelle esposte periodicamente alle conferenze convocate dai sovietici, esso
viene presentato come un non-schieramento privilegiato con il Patto di
Varsavia, o perlomeno come un non-schieramento-acritico, ma da valutare volta
per volta. D’accordo con il Patto di Varsavia per la politica praticata in
Africa o per la condanna della bomba al neutrone, oggi solo americana;
disaccordo invece per l’invasione della Cecoslovacchia o per i toni da guerra
fredda ancora utilizzati nella stampa sovietica per definire il ruolo dei
socialdemocratici al governo nella Rft, ieri in Portogallo, e via discorrendo.
Ma il testo votato a Karlovy Vary, non si
intitolava forse «Per la pace e la sicurezza europea?», dovrebbero ricordare
gli stalinisti nostrani. E non implica ciò la ricerca di formule politiche e
militari che possano effettivamente garantire tale sicurezza, costituendo una
«terza forza» politico-militare che si erga autonoma e indipendente sia nei
confronti della Nato, sia del Patto di Varsavia?
No, rispondono i sovietici che ben sanno, per loro
stessa esperienza, che una simile «terza forza» sarebbe necessariamente un
alleato ulteriore dell’imperialismo americano in tutte le questioni di fondo e
in tutte le ipotesi di scontro aperto, pur differenziandosene marginalmente nei
problemi di ordinaria amministrazione. E i sovietici non possono certo farsi
tranquillizzare da giri di parole, come il seguente, contenuto nella relazione
di Sergio Segre al convegno sull’Europa: «Contribuire alla costruzione di un
nuovo rapporto con gli Usa che eviti la dipendenza così come la concorrenza
conflittuale aprioristica».
Ancor meno possono farsi tranquillizzare dai
pressanti appelli, presenti in tutti gli interventi di maggior rilievo, a
ricercare «utili possibilità di scambio tra la Cee e i paesi in via di
sviluppo» (G. Amendola), vale a dire a un’ulteriore penetrazione dei principali
imperialismi europei nelle economie dei paesi dipendenti, dove la concorrenza
politica tra Usa e Urss è già abbastanza aspra, per non dover richiedere
l’intervento di nuovi famelici aspiranti alla spartizione della torta.
«La classe operaia deve prendere la direzione di
una coerente politica di austerità diretta ad attuare trasformazioni che
avranno un significato democratico socialista», ha detto Amendola, indicando il
possibile terreno programmatico comune dei partiti comunisti, socialisti,
cristiano-democratici e liberali che, secondo il nostro, dovranno garantire
dopo le elezioni il clima unitario per la conduzione politica della «nuova
Europa».
Ma ancora una volta, dietro formule così scopertamente
e ingenuamente antioperaie, qual è l’oggetto del contendere che ha spinto, per
esempio, Pajetta e Napolitano a intervenire duramente al Cc contro la relazione
di Amendola?
Napolitano ha addirittura detto, usando un
linguaggio non usuale nella burocrazia stalinista: «Non può considerarsi come
pacificamente acquisita l’impostazione di Amendola, nei suoi aspetti ideologici
e culturali, come pure nei suoi contenuti concreti». Secondo Napolitano,
invece, si deve riacquistare respiro strategico per l’intera operazione
«eurocomunista», che non annacqui i contenuti specifici dell’organizzazione e
della tradizione «comunista», identificandosi puramente e semplicemente con gli
ideali di Cattaneo o Giorgio La Malfa, ponendosi così letteralmente in balìa dell’eurosocialismo,
dell’euro-Dc, dell’euroliberalismo, conservando come unico avversario
l’eurodestra di Almirante. Occorre andare a tutto ciò, ma con una forza dietro,
con uno schieramento preciso e conservando quei contatti extraeuropei che
costituiscono ancor oggi un elemento di forza del Pci: «no all’eurocentrismo»,
hanno detto Napolitano e tutto lo staff berlingueriano che conta, intendendo
con ciò una preferenza per l’attuale diplomazia estera del Pci: filoamericana
in Usa e filosovietica in Urss e filosocialdemocratica in Rft,
filodemocristiana in Italia, filocinese in Cina e filoguerriglierista in
Nicaragua, o in paesi ancora piccoli e lontani. Nazionale e internazionalista,
rivoluzionaria e conservatrice.
È poi arrivata la notizia della non-adesione italiana
allo Sme, su cui soprattutto Amendola contava, per avvalorare la propria tesi
sull’esistenza di basi oggettive per un’integrazione politica europea fondata
sull’effettiva omogeneità di intenti degli imperialismi che domineranno il
prossimo Parlamento europeo.
Un duro colpo per i sogni amendoliani di creazione
di un polo imperialistico europeo, alternativo agli Usa, ma per ora una
conferma per il resto della direzione comunista che la politica si fa su basi
nazionali, ognuno a fianco del proprio imperialismo, aggrappati al cadavere
fetido della propria borghesia nazionale che puzza, è vero, ma cui perlomeno ci
si è abituati.
Per l’ «eurocomunismo» e per il Pci queste prossime
elezioni europee avranno un ruolo secondario, quindi di pura propaganda nazionale.
È il bene della nazione che lo richiede: alle Botteghe oscure continuerà a
sventolare il tricolore e non ancora la bandiera a stelle e strisce degli Stati
uniti imperialisti d’Europa.
A Mosca sono più che soddisfatti. Non a Pechino,
invece, dove il tema del rafforzamento dell’Europa imperialistica è stato una
costante degli ultimi dieci anni.
Gli operai, invece, troppo preoccupati a lottare
contro l’«austerità» italiana, non possono ancora prendere sul serio l’ipotesi
di un’«austerità» europea. Chi sarebbero gli Andreotti e i Berlinguer di turno?
Che rapporto ci sarebbe tra le due «austerità»? Quale combattere per prima? Può
un Parlamento, sia pure europeo, compiere miracoli antioperai di tal fatta?
Nelle condizioni in cui versa oggi il sistema capitalistico,
la risposta evidentemente è no.